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Ludovico Ariosto: le opere minori. L'intellettuale e la corte
Il capolavoro dell'Ariosto è espressione giunto al colmo della sua floridezza ma anche della crisi e del crepuscolo. Esso non fu creato nell'ambiente della corte romana ma in quello di una corte settentrionale, con una visione laica della vita e aliena da platonismi e idealismi, in una società cavalleresca animata dalla gioia di vivere ma fitta di contraddizioni. Esiste l'aspirazione all'armonia ma nasce dalla consapevolezza di una natura possente, varia, che scatena passioni di lotta e d'amore, follia. Mediante l'invenzione fantastica l'Ariosto indicò, nella visione immanente del reale, i limiti e, soprattutto, le contraddizioni di questo reale e della vita del suo tempo: l'ironia contrassegna la relatività delle situazioni, la triste parabola di tempi in cui la libertà italiana è perduta, quella dell'individuo è perpetuamente in gioco.
La vita di
Ludovico Ariosto1 (1474-1533) si svolge in mezzo ad avvenimenti che determinano per secoli la storia italiana: la calata di Carlo VIII e la subordinazione dell'Italia alla Spagna (congresso di Bologna del 1529-30). Nell'esistenza del poeta la città di Ferrara, con la corte estense (con Ercole I e Alfonso I) e le potenti famiglie aristocratico-feudali dominanti, con quelle borghesi (Beccari, Taruffo, Dalle Frutta, Pasqualetti, Contughi, Bondenari, Imolensi etc.), con i vari strati borghesi e popolani, è il punto di riferimento costante di una predilezione civica e domestica aliena da curiosità itineranti:
- il resto della terra,
- senza mai pagar l'oste, andrò cercando
- con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.
Il servizio di corte e gli altri uffici in patria, a Canossa, in Garfagnana, alla corte di Roma fanno parte del lavoro dell'intellettuale estense il quale riesce a mantenere una autonomia morale difendendo quanto più gli è possibile la propria posizione: accanto a
- ruffiani, adulatori,
- buffon, cinedi, accusatori
il poeta vede quelli
-
che viveno alle corti e che vi sona
- più grati assai che il virtuoso e 'l buono,
- e son chiamati cortigian gentili,
- perché sanno imitar l'asino e il ciacco.
Quando l'Ariosto comincia a scrivere in latino, Ferrara, sede di una tradizione culturale cavalleresca francese, è popolata di umanisti che prosasticamente elogiano in versi latini gli Estensi, di umanisti maestri e grammatici che hanno scuola allo Studio o nella loro casa (come Pietro dagli Ossi romano e Luca Ripa reggiano); esiste il ricordo del Guarini, del Gaza, del Leoniceno, dell'Urceo ellenisti, è vivo Tito Vespasiano Strozzi che nel 1497 è giudice dei Savi e più tardi associa alla magistratura il figlio Ercole anch'egli poeta latino. I Carmina dell'Ariosto, che hanno come modelli Tibullo e Catullo, sono lontani dall'eleganza formale del Navagero e del Bembo ma anche dalla sciatteria dei numerosi latineggiatori che sono a Ferrara, hanno una nuova energia di sentimento. Larga parte vi ha l'amore e ancor più nelle Rime in volgare. Qui il sentimento per Alessandra Belucci è esperienza totale; il Petrarca rimane modello esteriore, nei motivi intimi e reali preme la vena, non platonica, dell'erotica latina.
Gli Estensi hanno il merito di avere ripreso le rappresentazioni di Plauto e di Terenzio, di avere dato origine al teatro comico italiano a Ferrara con una sua organizzazione di compagnie di attori e di apparato scenografico che culmina nella scena stabile costruita da Alfonso (1530-31) e arsa da un incendio nel 1532.
Le commedie costituivano un numero del programma di carnevale, insieme coi balli, i conviti, le mascherate, le giostre, le quintane. Le rappresentazioni avvenivano nella piazza o in saloni del palazzo di corte, con grande affluenza di popolo: «el popullo tanto strecto — scrive nel 1499 il Pencaro a Isabella d'Este — che apena si puoteva uno mettersi la mano al naso se già le braccia non teneva sopra le spalle del suo vicino
».
L'Ariosto, che aveva assistito alle rappresentazioni, diventa autore e regista della «nuova commedia
» e nel 1508 rappresenta la prima commedia regolare in volgare, la Cassaria a cui seguono l'anno successivo i Suppositi della quale egli stesso recita il prologo. Queste due commedie imitano i modelli latini (nella prima è strumento di intrighi una cassa colma d'oro con cui si dovrebbe ottenere il riscatto di due fanciulle; nella seconda ci sono le sostituzioni di persone, compiute da uno studente, per ottenere la mano di una fanciulla).
Con il Negromante (1520), la Lena (1529), gli Studenti, incompiuta, continuata e pubblicata postuma dal fratello Gabriele, l'Ariosto affronta aspetti della realtà contemporanea e l'azione si svolge a Ferrara o a Cremona, tra luoghi, istituzioni, costumi conosciuti: qui troviamo ciurmatori che si atteggiano a sapienti, giudici corrotti, doganieri prepotenti, mercato di indulgenze. Le prime due commedie, scritte in prosa, vennero successivamente rielaborate in endecasillabi sdruccioli sciolti, metro delle ultime tre, ben adatto a riprodurre la spontaneità del dialogo e la vivacità della conversazione. Gli elementi di satira e di moralità indicano che l'Ariosto guardava attentamente le realtà contemporanea, si aggirava curiosamente fra gli intrighi del suo tempo con uno studio malizioso degli uomini.
Bonario è il tono delle sette Satire (1517-24) in terzine perché il modello è Orazio ma insistente, persistente è il motivo: il suo rapporto con i signori dei quali è al servizio, la necessità di avere retribuzione economica e libertà adeguate alla propria funzione di scrittore, più generalmente il rapporto tra l'intellettuale e la politica, più particolarmente il desiderio di uno spazio riservato alle specifiche qualità di cultura dell'artista che ha pubblicato il Furioso in un momento di allargamento del pubblico letterario e di maggiore produttività della «propaganda
» fatta dal poeta in favore dei suoi signori. Per questi motivi l'Ariosto richiede coi suoi versi un riconoscimento della sua qualità di scrittore ed espone le sue lamentele per i servizi degradati che è costretto a compiere.
Questo è il problema centrale: non si possono leggere le Satire come espressioni di stati d'animo, di malcontento, di equilibrio, quando il problema del poeta era quello del rapporto con i signori ma anche con i cortigiani che «sanno imitar l'asino e 'l ciacco
» e i funzionari tuttofare. Il tono è bonario per scelta necessaria, perché il poeta parla ai Signori-padroni e non può adottare altro tono.
D'altra parte egli deve esporre le sue ragioni e lo fa, e con motivazioni che non mettono direttamente in discussione il problema che oggi diremmo politico quanto quello personale, scavando intorno a sé una cautelosa trincea di gusti, preferenze, temperamento, malattie, incompatibilità:
- Non si adatta una sella o un basto solo
- ad ogni dosso; ad un non par che l'abbia,
- all'altro stringe e preme e gli dà duolo;
[...]
-
Chi brama onor di sprone o di capello,
- serva re, duca, cardinali o papa;
- io no, che curo poco questo e quello.
Ariosto esprime la sua «
diversità
» dagli altri attraverso l'etica della tolleranza, per differenziarsi ormai da mestieranti e arraffoni:
- Degli uomini son varii li appetiti;
- a chi piace la chierca […]
- a me piace abitar la mia contrada […]
- In casa mia mi sa meglio una rapa.
La gazza della favola della terza satira, la quale vede che
- dietro gli altri mi rimagno,
- moro di sete, quando non procacci
- di trovar per mio scampo altro rigagno;
dato che «tutti più grandi i lor meriti fanno»
per bere alla fonte scoperta da un pastore a fondo valle durante la siccità, è significativa del problema del rapporto tra lo scrittore e i signori: nella ressa dei procaccianti il poeta rimane
«col seno e la falda piena | di speme, ma di pioggia molle e brutto.»
Piegato dal padre è l'Ariosto: dalla poesia («pegàseo melo
») al diritto («testi e chiose
»), dalla morte del padre e dalle preoccupazioni familiari
- (a chi studio, a chi corte, a chi essercizio
- altro proporre, e procurar non pieghi
- da le virtudi il molle animo al vizio),
al libro dei conti («io muti in squarci ed in vacchette Omero»)
, al servizio ducale («viver son sforzato a spese altrui»)
,
e ad essere «dal giogo | del Cardinal da Este oppresso»
il quale «non mi lasciò fermar molto in un luogo, | e di poeta cavallar mi feo»
.
Che i rapporti fossero di vera subordinazione da servo a padrone si vede in una lettera del 1519 dell'Ariosto a Mario Equicola in cui il poeta si giustifica di non potere lavorare come vorrebbe alla revisione del Furioso:
- ma poi da un lato il Duca, da l'altro il Cardinale, avendomi l'un tolto una possessione che già più di trecent'anni era di casa nostra, l'altro un'altra possessione di valore appresso di dece mila ducati, de facto e senza pur citarmi a mostrar le ragioni mie; m'hanno messo altra voglia che di pensare a favole.
Quando l'Ariosto scrive le
Satire ha già pubblicato il
Furioso e si trova a essere rapinato e misconosciuto dai due fratelli padroni i quali continuano ad adoprarlo per incombenze pratiche. Il rifiuto di seguire Ippolito in Ungheria (I), il discorso sull'illusione di ottenere dai signori ricompensa disinteressata (III), la polemica contro chi lo costringe a stare in Garfagnana (V), le considerazioni sulla tirannia degli uomini, sul tenere a freno le ambizioni, nascono dalla sua polemica, necessariamente garbata, di intellettuale nei confronti della corte, dei cortigiani, della burocrazia ducale.