Capitolo

7

Ludovico Ariosto


PREMIO ANTONIO PIROMALLI
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7 - § 1

Vita e lotta delle classi sociali in Ferrara al tempo di Ercole I


La fine del secolo XV vede l'Italia in agitazione e in scompiglio perché ormai si cominciano a frantumare gli equilibri temporanei e nuovi rapporti di forza si vengono creando. Da tutte le parti in Ferrara si nota che la politica estense ne risente le ripercussioni; leggendo i cronisti ferraresi dell'epoca scompare l'immagine di una ridente rinascita e balza in primo piano la preoccupazione generale del futuro, per il gran numero di gente in armi che fa scorrerie nel ducato. L'alta borghesia è l'alleata della corte, grandi medici e borghesi sono i consiglieri nettamente e dichiaratamente antipopolari e orientatori del duca che lascia loro piena libertà di «rodere» il popolo e costruirsi palazzi.
Le contraddizioni dell'età ricadono sul popolo che è contro l'aristocrazia e la corte per il palese sostegno dato dalla corte alle ingiustizie. L'aumento del disagio economico accresce il distacco del popolo dalla dinastia mentre più gravi condizioni di vita si determinano tanto da dar luogo a violenze, furti, rapine, assassinii; uomini vecchi abituati ai tempi migliori e a non veder dappertutto scontento popolare e corruzione pensano che l'animo delle nuove generazioni è mutato e che in Ferrara non c'è più, dice un anonimo diarista, «qui faciat bonum».
Il peso delle classi dominanti continua a farsi sentire sempre di più: i contadini sono costretti a pagare, con grandi bestemmie, la tassa sui carri per aiutare il duca a sostenere le spese del matrimonio di Alfonso, e il popolo, non potendo fare altro, in seguito a nuove fiscalità del 1502, rompe i marmi lavorati della colonna su cui doveva essere innalzata la statua di Ercole I. I paradigmi della vita e della cultura ferrarese in questo periodo sono stati fino ad ora, anche per insigni critici, le idilliche figurazioni del palazzo Schifanoia o i giocondi affreschi di palazzi in via Ercole d'Este; ma è pur vero che oltre l'idillio superficiale c'è un profondo travaglio e una lotta di classe che il popolo viene sempre rinnovando ogni volta che la dinastia lascia libere le mani agli amministratori.
In questa dialettica di lotta il popolo e i contadini hanno dietro di loro una serie di rivolte, tra cui quella del 1385. La crisi del sistema politico è parallela alla confusione economica; i termini della politica di Ercole I sono suggeriti dalla errata valutazione dei rapporti di forza attuali o potenziali di Milano, di Venezia e di Napoli. Di qui la guerra contro Venezia, la perdita del Polesine di Rovigo e il conseguente aizzamento dei cittadini contro Venezia, il favore verso la Francia e l'odio contro gli Aragonesi, ritenuti autori del tradimento a proposito della pace di Bagnolo con la quale Venezia aveva mantenuto quasi tutte le terre conquistate. In tali termini politici si muove la sua azione di capo di Stato che in taluni momenti del suo svolgimento o delle sue improvvisazioni sarà deprecata — come alla calata di Carlo VIII — da quasi tutti gli Stati d'Italia.
La guerra contro Venezia, antieconomica, impopolare, distruggitrice perché condotta con metodi rovinosi dettati dalla natura dei luoghi (rottura di argini, allagamenti, affondamenti di terre), conduce quasi all'estrema rovina militare Ferrara (i veneziani entrano fin nel Barco e portano via la statua del marchese Niccolò) e alla rovina economica dei contadini e dei cittadini:

e la povertà conveniva lavorare per guadagnare e pochi havea il modo de andare fora, altri non voleva stare fora de la citade dubitando non essere sachezati; molte donzelle sono andate a male, e puti morti de fame.

Sappiamo dall'anonimo diarista che trigoli, lumache e pane impastato con scorze di albero sono gli alimenti dei contadini (se i contadini, continua lo stesso, avessero fave, meliga e legumi, sarebbero signori) e che la disponibilità media dei consumi, pure in tempi non eccezionali, era scarsissima; né c'è da pensare che la carestia fosse uno sporadico evento o un fenomeno determinato dalla guerra poiché ogni anno essa si presenta (attribuita da predicatori o da cronisti estensi alle colpe e ai peccati umani) per il popolo che non poteva acquistare a prezzi elevati. Mentre la disponibilità di manufatti per persona è insignificante, la corte regala centinaia di braccia di tessuti di broccato o di fustagno ai familiari, agli umanisti, ai vincitori del palio. Il processo di impoverimento e di riduzione dei consumi al minimo possibile ci risulta anche in questo tempo, leggendo i cronisti, dalle notizie di poveri che finiscono in carcere perché insolventi.
Forse il documento più importante della particolare «forma mentis» politica di Ercole I è un decreto del 1476, emanato dal giudice dei Savi, Giacomo Trotti, qualche anno dopo l'assunzione di Ercole I, per cui «ciaschaduno fachino, mendicante o pollacho, il quale fosse in questa citade da mixi quatro in qua, dovesse essere partito da la citade infra il termene de octo dì sotto pena de la forca».
Ercole I, cioè, per evitare di risolvere un arduo problema sociale che avrebbe richiesto un serio impegno e una meditata azione o previsione politica, per evitare una vera azione di assistenza mediante forme di organizzazione del lavoro che non fossero il sentimentale o teologale lavamento dei piedi ai poveri, sfratta i mendicanti, i braccianti in cerca di lavoro, i forestieri e i più miseri strati sociali della città. Tale atto significativo, dovuto allo stesso duca che per più suddividere il popolo in classi impone un contrassegno agli Ebrei, deriva anche dal timore che il malcontento dei poveri, dei disoccupati, dei forestieri possa sciogliere la lingua per criticare e causare pericolose situazioni antiestensi: era più utile mantenere in città gruppi legati o assimilati negli interessi che gruppi incontrollabili per la loro fluidità.
I gruppi sociali subalterni della piccola e media borghesia, e talvolta anche della piccola nobiltà, assumono una funzione storicamente progressiva nel tentativo di rompere i legami tradizionali dell'aristocrazia cortigiana, mentre la borghesia se da una parte vuole scalzare la aristocrazia dalla corte, in parte ne è assorbita sicché lo slancio iniziale viene smorzato e le relazioni sociali diluite o riportate alla loro sfera e ridotte d'importanza; tanto che vari decenni più in là, nel 1575, in una relazione alla signoria di Venezia dell'ambasciatore Emilio Maria Manolesso troviamo che la funzione della borghesia è stata intercettata dalla nobiltà cortigiana rappresentata da cinque potenti famiglie: Contrari, Tassoni, Bevilacqua, Calcagnini e Turchi.
Nondimeno al tempo di Ercole I l'aristocrazia è costretta a una serie di concessioni nei riguardi della borghesia; questa si crea una sua libertà con la costituzione di una ossatura economica che si salda nei diversi aspetti concreti della vita, dalla attività dei fondachi di commercio alle industrie, dai posti di direzione nello Studio e nelle libere professioni cittadine alla burocrazia delle cariche ducali, dal piccolo commercio alle banche.

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