Capitolo

6

Il Rinascimento


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6 - § 3

La poetica di Aristotele e i generi letterari


Le opere e gli indirizzi di cui abbiamo fatto cenno rientrano — insieme con altre opere delle quali parleremo più avanti — nella complessiva civiltà estetica del florido Rinascimento. In questa splendida civiltà (che neppure tocca la metà del secolo XVI) vengono a maturazione motivi dell'umanesimo civile e di quello del Ficino attraverso moduli stilistici di geometria platonica dettati o attuati da una società aristocratica raffinatissima la quale, però, allunga la distanza fra gli studiosi, gli artisti, le corti e il resto degli uomini.
Intorno alla metà del Cinquecento, impoveritosi in Italia lo slancio creativo proveniente dall'umanesimo e assorbita completamente la penisola dall'assoggettamento alle grandi potenze e al riflusso ortodosso della Chiesa della controriforma, le discussioni intorno all'arte e alla poesia avvengono in un quadro politico-culturale assai modificato e all'insegna della Poetica di Aristotele. Il libretto dello Stagirita, noto in una traduzione latina del 1498 e nel testo greco di dieci anni dopo, era passato quasi inosservato agli umanisti infervorati nel loro idealismo e nello sforzo creativo. Ma dopo il commento che dell'operetta aveva pubblicato nel 1548 Francesco Robortello, lontani i tempi di Leone X e del Bembo, l'aristotelismo è adoperato in funzione delle tendenze moraleggiatrici della Chiesa e l'arte — imitatrice della vita — ha come fine l'ammaestramento per mezzo del diletto.
Ritorna la teoria medievale dell'arte pedagogica che con la sua razionalità è circonclusa e determinata da norme rigorose di rettorica e di regole. La poetica di Orazio serve di sostegno all'imitazione, il classicismo è rigidamente disciplinato, i generi letterari (lirica, poema epico e romanzesco, favola pastorale, tragedia, commedia etc.) sono sottoposti a normative puntigliose e particolari affinché ogni singolo genere si distingua per sue caratteristiche dagli altri.
Era una nuova Scolastica (quella del medioevo era stata oltrepassata dalla concreta civiltà comunale) che rinasceva dopo il Concilio di Trento al fine di ricostituire l'egemonia cattolica spezzata dalla maturazione, tutt'altro che estetica e sovrastrutturale, dell'umanesimo tedesco sfociato nella Riforma. La Chiesa, che aveva accolto al proprio servizio gli umanisti insicuri e desiderosi di protezione, per difendere la propria indipendenza cerca in Italia la base della sua supremazia creando un personale fedele nel suo apparato organizzativo e costringendo all'emigrazione gli intellettuali diversi dallo spirito controriformistico.
Tra le norme della poetica acquistano carattere di inviolabilità quelle delle tre unità della tragedia (di azione, di luogo, di tempo) dedotte anche illegittimamente dall'opera di Aristotele e che diedero origine a solenni polemiche intorno ai poemi dell'Ariosto, del Tasso, alla tragicommedia pastorale (l'Aminta e il Pastor fido) nonché sulla regolarità della Divina Commedia. A queste dispute sui limiti e caratteri del poema eroico, sulla differenza fra storia e poesia, sul fine della poesia (dai più inteso come miscere utile dulci), addirittura sull'importanza dell'allegoria parteciparono Bernardo Segni, Giambattista Pigna, Giambattista Giraldi Cinzio, Girolamo Fracastoro, Sperone Speroni, Ludovico Castelvetro, Francesco Patrizi, Torquato Tasso e molti altri.
Il concetto classicistico dell'arte negli ultimi decenni del Cinquecento diviene più chiuso e più rigido, le precettistiche col peso del moralismo restringono la libertà intellettuale. Insieme con l'agonismo delle famiglie aristocratiche per esibire magnificenza e lusso ha inizio allora la decadenza culturale in tutte le espressioni letterarie.
Con le regole dei generi letterari vennero disciplinate materia e struttura dei componimenti, forma prosastica o metrica e perfino l'elocuzione. Tuttavia ancor prima della normativa aristotelica la tragedia è soggetta alle norme del classicismo, a cominciare dalla Panfila (1499) del Pistoia che segue Seneca e continuando fino alla Sofonisba (1544) del Trissino, alla Canace (1542) dello Sperone, all'Orazia (1546) dell'Aretino. Con la terribilità delle scene (orrore e stragi) intese ottenere effetti tragici e catarsi spirituale imitando Seneca il Giraldi Cinzio nell'Orbecche (1541) e in altre otto tragedie.
Tutto il Cinquecento manca di anima tragica e nella seconda metà del secolo si rivela pienamente la tendenza pastorale con un lieve sprazzo drammatico. Nella favola pastorale si trasferiva il sogno di un mondo astratto e riservato a pochi beneficiari arroccati nei palazzi per i quali venivano recitate egloghe e idilli nei cortili e nei giardini delle magioni, nelle isole del Po, nelle «delizie» (case per villeggiatura) rurali: mito e idillio erano elementi delle feste cortigiane. Virgilio e Sannazzaro erano l'immenso pascolo dei letterati: Gianfrancesco Guardi, che pure fu podestà di Massalombarda, dice che vorrebbe mutarsi in uccelletto
  1. e starci sempre a presso il mio tesoro,
  2. mirando gli occhi e la fronte serena
  3. per cui mercede o morte indarno grido,
Panfilo Sasso piange su «amene piagge, selve alte ed ombrose, | valli, monti, campagne, grotte e rivi» e ninfe che deve abbandonare, il Tebaldeo scrive che il sole che emana dagli occhi della sua ninfa allontana ogni fiocco di neve che «stette, né al basso più venir volea», il Molza canta la ninfa i cui occhi affrenano «rapido corso» del Tevere, «velloso armento», consacra alla ninfa «dieci pomi», circondati da odore simile «a quel, che dal tuo vago petto | spira sovente» e «d'ulivo una tazza», in una cornice di corimbi ed elicrisi; per non citare gli idilli latini del Navagero, del Flaminio e moltissimi altri che cantano o piangono d'amore in una cornice pastorale.
Dopo l'egloga Tirsi del Castiglione recitata a Urbino (1506) il luogo deputato per lo sviluppo del dramma pastorale è Ferrara, sede del «teatro della nobiltà» italiana con il Sacrificio (1554) di Agostino Beccari, rappresentato davanti a Ercole II. Già Giraldi Cinzio a Ferrara aveva rappresentato Egle (1545), dramma satiresco e l'isola di Belvedere sarà lo scenario (1573) dell'Aminta del Tasso.
Frutto ferrarese è anche il Pastor Fido (1590) di Battista Guarini1 (1538-1612) il quale fu al servizio di Alfonso II, del granduca di Toscana, di Francesco Maria della Rovere. Il Guarini lavorò per dieci anni alla sua opera che armonizza elementi tragici e comici con intento di dilettare e ottenendo «consenso universale». Manca forza drammatica alla vicenda amorosa di Mirtillo e Amarilli nella cui rappresentazione Guarini si abbandona al descrittivismo decorativo e, soprattutto, all'aspirazione lirica e voluttuosa in cui si culla in colori e vesti meravigliosi il sogno idillico del Rinascimento. Quasi soltanto fiaba melica il Pastor fido corrisponde al gusto di una società sensuale ed esula dall'impegno che avrebbe trovato appagamento nel melodramma che è già alle porte. Ma di lì a pochi anni la «gloria d'Este» sarebbe caduta a Ferrara in potere della Chiesa (1597).
La materia è idillica anche nei poemetti lirici e mitologici: Ero e Leandro di Bernardo Tasso, Clorida di Luigi Tansillo (1510-1568), Ninfa Tiberina del Molza. La poesia didascalica in latino fu coltivata dal medico e scienziato veronese Girolamo Fracastoro nel poema Syphilis sive de morbo gallica. Sperimentarono la materia didascalica in volgare Giovanni Rucellai il quale nelle Api si rifece a Virgilio del IV libro delle Georgiche, Luigi Alamanni, esule antimediceo in Francia, nella Coltivazione, Luigi Tansillo nella Balia e nel Podere.

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