6 - § 2
Un Rinascimento diverso: antibembismo e antipetrarchismo, il Pistoia e la letteratura di protesta; diverso registro linguistico e ideologico; Berni, Aretino, Folengo, Ruzzante, Cellini
Dall'interpretazione fondamentale della duplicità del Rinascimento italiano derivano alcuni elementi critici esistenti nella civiltà rinascimentale che contrastano la concezione di un'età armoniosa ed equilibrata. Non mancarono, infatti, in quell'epoca rivolte popolari contro gli aspetti feudali del Rinascimento, soprattutto in Germania in cui i principi erano in possesso di quasi tutti i diritti sovrani e avevano diritto di vita e di morte sui contadini. Il grande movimento della Riforma è parte integrante del Rinascimento progressivo per il suo antidogmatismo, per la risposta che dà alle esigenze delle classi povere, per la distinzione, specialmente in Calvino, tra potere ecclesiastico e potere civile. Lo sbocco politico della Riforma, però, in Germania fu sfruttato dai principi per conservare l'ordine esistente, soprattutto dopo che Lutero si schierò contro il movimento contadino (a Frankenhausen cinquemila contadini furono uccisi dall'esercito dei principi e il loro capo Thomas Müntzer venne giustiziato). Questa riforma popolare — diversa da quella ufficiale o dei Maestri — fu vera lotta di popolo di contadini e artigiani contro le istituzioni che si servivano dei dogmi per asservire il pensiero.
Della malattia delle istituzioni si accorsero in Europa i critici della società e gli utopisti. Erasmo da Rotterdam nell'
Elogio della pazzia (1508) sostenne l'affidamento dell'interpretazione delle sacre scritture ai filologi e uomini di lettere perché si potesse esaltare la libera ricerca propugnando il motivo che la verità non è eterna ma figlia del tempo; nei
Colloqui (1533) denunciò le atrocità della guerra, gli interessi mondani della chiesa; Tommaso Moro nell'
Utopia (1516) criticò gli aspetti più antisociali della vita europea; Anton Francesco Doni nei
Mondi celesti, terrestri ed infernali (1553) progettò una razionale città in cui tutto fosse comune (senza danaro ma con scambio dei prodotti del lavoro, senza matrimonio); anche nelle tradizioni popolari il paese di Cuccagna, in cui il cielo manda per pioggia «
brodetto di capponi tutto l'anno
», la terra produce «
i tartufoli, grandi come la campagna di Verona
», i lastricati sono composti a mosaico di lasagne e maccheroni, i portelli sono «
grossissimi salami
» e in cui meno si lavora e più si guadagna, rappresenta la proiezione dei desideri dei contadini ma anche l'antitesi dello stato di indigenza e sottonutrizione, del loro modo di mangiare che è ormai ben conosciuto come sono conosciuti i banchetti bi-triduani dei principi e dei signori:
- Non c'è duca, né signore, né conte,
- ognuno ci vive con la sua libertade […]
- quello che più ci dorme ci guadagna […]
- Là non ci parlar mai di lavorare
- che subito ti mettono in prigione […]
- viva i poltroni, per mare e per terra! […]
- Deh poveretti non stemo più a stentar!
- Vegnì in Cuccagna se volè trionfar.
Gli schemi ideologici e culturali che si oppongono all'ordinamento signorile, al platonismo, al petrarchismo, alla funzione parassitaria degli intellettuali cortigiani, all'osmosi di alti ecclesiastici e aristocratici, all'umanesimo formalistico e al latino strumento di egemonia rompono la decantata armonia del Rinascimento e dimostrano che quest'«altro
» Rinascimento non può essere escluso dalla valutazione se si vuole un quadro e una sintesi veritieri di quell'età.
In nome di una realtà che non annullasse la presenza di quelli che il Della Casa chiamava gli «uomini bassi
», dell'aspirazione a un rinnovamento della coscienza religiosa, della demistificazione della cultura idealistica e di classe, ci furono artisti i quali contestarono il sistema sociale e culturale o vivendo nel sistema ne ruppero o allentarono le maglie, ne degradarono la falsa sublimità, operarono con coscienza realistica contro le finzioni dell'armonia platonica, cortigiana, pastorale.
Si suole osservare come dato importante che questi scrittori erano colti e nati dalla matrice cinquecentesca e che la loro opera non ha avuto l'importanza storica delle sublimità bembesche. Ambedue le osservazioni in verità toccano il punto dolente dello schieramento dei letterati curial-araldici in favore dei Signori e della Chiesa e in funzione anazionale e apopolare. Questo loro schieramento e questa loro funzione impedì una cultura complessivamente umana e popolare mentre gli scrittori al di fuori del Rinascimento estetico con la diversità, con la polemica, con l'opposizione, con l'irregolarità furono più vicini alla complessità del reale.
Uno sfruttato, legato da dura catena alla classe degli oppressori, fu
Antonio Cammelli1 (1430-1502) nato a Vinci, il quale nella nostra letteratura ha un'importanza che va al di là del genere di poesia giocosa o burlesca. Costretto a vivere presso le corti non si può confondere con i verseggiatori prezzolati perché, rivendicando all'esperienza e al valore individuale la supremazia sull'adulazione e sul convenzionale poetare, fu anticortigiano e antiestense.
Della corte di Ercole I il Pistoia, morto all'alba del Rinascimento, satireggiò la corruzione dei funzionari, la vanità dei letterati, la crudeltà dei magistrati e capitani di giustizia. La sua poesia non ci fa vedere soltanto il randagio alla maniera di altri letterati del tempo ma l'uomo insorgente, come nessun altro rimatore, contro gli strumenti della tirannide signorile.
Alla raccolta dei Sonetti faceti (conosciuti tardi e pubblicati integralmente nel 1908) è premesso un Dialogo in cui lo Spirito del Pistoia, conversando con Caronte, si prende beffa dell'astrologia («per sciochezza de la gente, et per astutia […] quest'arte in pregio venne
»), dei preti trafficanti («Jove che manda continuamente messi che fanno intendere che chi vole ire al suo regno, bisogna pagare; […] niente réfuta, né argento né oro, né case, né possessione
»), degli ipocriti («sotto un volto quieto, parole dolci e capo torto
»), dello scarso senno dei ricchi («dove è gran bene di fortuna, è poco ingegno
»), dei Signori («l'uno alta a far cader l'altro
»), dei frati («quand'altri magiormente per l'altrui morte piangono, loro magiormente, cantando, godeno
»), dei medici («mentre lo amalato vive, disputano del nome, et da poi che egli è morto, per la medicina
»), della provvidenza divina («Se Jove vale che in lui si creda, come in quello che a tutto il mondo provede, doverla, al mio parere, meglio disponere le cose mondane
»), dei religiosi mistificatori («Gran cosa è, che nel mondo inganni non si facciano, che il velo de la religione non gli copra!
»).
Per contrario, dalla dissacrazione e dalla condanna (i condannati sono medici e «gente belligera
» perché «in vita sono maculati de l'altrui sangue
») sono esaltate come massime virtù umane «la iustitia e la pietà
» di cui gli esseri della natura («in ciò che si vede è scritto dottrina singulare, de la quale chi ne è studioso, non ha bisogno d'altro mastro
»), i veri «maestri
» dai quali «habbia da imparare un homo
», danno esempio.
L'umanesimo del Pistoia è antiformalista: «Non guardare chi cum più belle parole dica il vero, ma chi, seguendo la sua opinione et il suo stile, migliore operatione produce
». I sonetti del Pistoia correvano di bocca in bocca, anonimi o col nome dell'autore, perché il Pistoia estraeva dalla vita popolare i contenuti più vitali ed esprimeva le aspirazioni collettive, sicché ad un certo punto egli è la voce vera della maggior parte dei sudditi estensi e il poeta incarna i valori progressivi del tempo suo.
Anche nelle epoche più buie della storia c'è un artista che non si aggrega al coro degli incensatori ed esalta come può la dignità del vivere; il Pistoia fu legato alla corte ma se si verrà un giorno a conoscenza dei motivi per cui egli perdette il posto di guardiano (che più tardi gli fu restituito per essergli tolto di nuovo) di una porta di Reggio e del suo errore (di cui parla con pentimento in un sonetto al duca) forse si vedrà che il motivo politico non dovette essere estraneo alla miseria materiale del poeta e alla trista vita da lui condotta. Fu contro il platonismo umanistico, disprezzò come bugiarda la poesia cavalleresca di corte e la società da cui quella poesia era nata. Moderno e spregiudicato, rigettò le ideologie della sovrastruttura sociale che lo circondava per scoprire nella vita del popolo le ragioni vere della vita.
La poesia ritorna con lui alla realtà umana di tutti i giorni e il Cammelli appartiene agli uomini nuovi del Cinquecento, che preannunziano l'età moderna. La popolarità del Pistoia deriva dal tono particolarmente vivace della moralità del poeta
(«La virtù è stracciata e vilipesa» dice dei servi mal ricompensati; e «Agli ignoranti si dona l'impresa | del gubernare; e così la justizia | dà in man le bilance a chi mal pesa » dei favoriti di corte), assai vicina a quella delle Satire dell'Ariosto. C'è inoltre nel Pistoia un'energia umana e un fondo acre che lo spinge a descrivere la natura e le azioni dell'uomo e, se sono suoi, i sonetti contro Niccolò Ariasti costituiscono una prova di fermezza morale che ben si attaglia al ritrovato individualismo rinascimentale e alla interiore ricerca di giustizia e di verità. La vita travagliata che il poeta condusse ci è documentata da alcune lettere in cui scrive ai signori esponendo le sue necessità.
Nel 1497 scriveva a Ercole I d'Este chiedendo di avere dal massaro di Reggio «uno mozo di tormento e otto misure di vino a ciò che chon li mei figlioli io sobstentar mi possi: perché sono qua senza guadagno, senza roba e forestiero
». Nei sonetti il Pistoia rappresenta la vita della società italiana, il costume privato e pubblico, le vicende politiche durante l'invasione francese cogliendo in modo comico-mordace, satirico, caricaturale le contraddizioni della realtà.
Al platonismo petrarchesco contrappone la fisiologia dell'amore, ai banchetti di corte il suo modesto desinare con pane ammuffito («cum la barba nera
», «peloso
») e vino denso che sembra filatura, alla vita dei signori la propria estrema povertà («scaldomi senza foco, | vivo di stento e d'aspettar guadagno
», «coi piè coperti da le scarpe rotte
», col «saio rotto dove il non è unto
», la beretta sfondata che mantiene «la chioma for del tetto
» e i pantaloni che fanno vedere «i ginocchi al balcon
»), alla teologia la propria religiosità assai vicina a quella del Pulci, ai palazzi sontuosi la propria casa cadente piena di ragni, topi, formiche, funghi, salmastro («par dal lupo una capra sbudelata, | un postribul di gatte o di carogna
»), mantenuta in piedi dalle gambe dei cani «ché mille volte l'hora a pisciar vengono, | e, pontandovi un piè, me la sostengono
».
Altri sonetti sono contro i Signori dispregiatori dell'arte, contro giuristi, poeti, massari del duca, Gregorio Zampante ucciso a Ferrara per le sue iniquità (torturatore, ladro, elevato alle massime cariche da Ercole I: «la borsa me impei di sangue humano
», «fui crudo, cupido e bestiale
»), tesorieri ladri del pubblico danaro, simoniaci («Non più clero; | da Roma vien la simonia e l'inchiostro
»), sui soldati poltroni, sul mal francese che lo tormenta («Il Petrarca cantò dolce d'amore, | et io canto d'amore amaramente!
», «Madonna, alla franciosa son vestito», «di novo eletto fra' baron di Francia
»), sui diversi mestieri che deve fare alla corte di Niccolò da Correggio (credenziere, portinaio, famiglio, sguattero, «e notte e dì corrieri, | tornato, il piscio poi votar m'è fatto
».
In alcune centinaia di sonetti politici il Pistoia è l'informatissimo portavoce di notizie su fatti interni ed esteri che riguardano gli Stati italiani: la corruzione della Curia
- (Enorme caso e rio,
- che la sedia apostolica si vende
- a quel che ha più denari e chi più spende!),
l'avvicinarsi della fine dell'Italia per la discesa di Carlo III («Italia, piangi, misera dolente
»), il Moro e Alessandro VI che hanno abbandonato l'Italia in mano di Luigi XII, i signori d'Italia («suoi fieri leon paion cagnoli
») etc. In essi il Pistoia esprime la coscienza civile e umana più aperta del tempo e offre una grande rappresentazione sociale animata da motivi moderni: «Non pensar già che facci deferentia
da me ad un che porti perle et ostro
».
Il Pistoia è riconosciuto autore di versi che circolavano anonimi contro la corruzione della corte papale. A Ferrara circolarono anonimi violenti «
bischizi
», satire in rima, che furono affissi sulle porte del palazzo ducale, di chiese, agli incroci di strade contro gli eccessi di funzionari ducali e soprattutto contro Niccolò Ariosto, padre di Ludovico, a causa delle sue ruberie e del suo malcostume. Questi è chiamato
- lupo rapace, pubblico ladrone,
- insaziabile mostro, iniquo e strano,
- nemico di giustizia e di ragione!
- A chi offerisce più ti mostri umano,
«magnaferro», «arrabbiato lupo
». Di tali «bischizi
» rimangono ventitré sonetti animati da un violento e arguto sentimento popolare fiducioso nel trionfo della giustizia e della «ragione»
- (ti vai facendo grasso a poco a poco […]
- Tu mangi il legno, il marmore, il sabbione,
- il ferro […]
- A spese del Comun la possessione
- comprasti, e questa non è cosa oscura)
che esorta il popolo a levarsi contro il giudice:
- Popol, non dormir più, levati su,
- prendi ormai l'arme contro questo can;
[...]
- E voi, plebei, suonate i tamburloni,
- sgridando per le strade: Al sporco, al lordo!;
[...]
- Sclamate oramai: mora il gran ladron,
- mora mora il ladron che ne disfà.
Da taluni questi componimenti sono attribuiti al Pistoia e insieme con quelli scritti per l'uccisione di Gregorio Zampante («
bruto ribaldone, inimico del ben vivere et bone persone
», ladro e assetato di sangue) rappresentano una dura protesta contro gli strumenti del dominio estense. I versi anonimi contro lo Zampante sono un feroce canto di gioia e di esultanza popolare:
- Faciam festa in ogni lato,
- ch'el Zampante è sbudellato.
- Si pensò già il gran ladrone
- ingrassarse a nostre spese;
- ma non pate la ragione
- a la fin cotante offese […]
- Rare volte un vitio dura
- lungo tempo in alto stato […]
- Hor che gli ha troncà la zampa,
- dì ch'el rubi mo, s'el sa? […].
Questa letteratura di protesta nasceva da testimoni di sfruttamenti e squilibri sociali e non da eleganze formali. È significativo che un altro ferrarese di Stellata, Pier Angelo Manzolli (Palingenio Stellato), nel 1535 pubblicasse lo Zodiacus vitae in cui con audacia di pensiero satireggiava i costumi degli ecclesiastici, dei signori, dei dotti. Il libro ebbe diffusione larghissima nei paesi protestanti e specialmente in Germania; le ossa dell'autore, invece, per ordine del Santo Uffizio furono disseppellite e arse.
Non è da sottovalutare, nella sua diversità dal tono aulico, la gran copia di letteratura realistica e comica la quale porta con sé non solamente un nuovo registro linguistico ma anche ideologico. Non si trovano poeti che raccolgano impegno sociale e visione moderna con il vigore che abbiamo incontrato nel Pistoia ma è pur vero che con
Francesco Berni2 di Lamporecchio (1497-1535) ha inizio un modo antipetrarchesco di fare letteratura fondato sul realismo e sulla presenza degli oggetti in funzione beffarda.
Non è solo maniera letteraria quella che fa volgere gli occhi dai nobili cieli del Petrarca e del Bembo alla terra ma accostamento a una materia contestatrice degli ideali aristocratici. Il Berni, andato a Roma pieno di speranze «d'un certo suo parente cardinale — che non gli fece mai né ben né male
» (il Bibbiena), visse alla corte di Roma, a Verona e a Firenze. Pare che sia stato ucciso per essersi rifiutato di avvelenare il cardinale Salviati. «Sempre il tenne fortuna in forza altrui
» ma egli seppe mantenere la propria indipendenza ed esprimere nelle Rime e nei Capitoli la protesta morale contro gli intrighi curiali, ricollegandosi alla cultura realistica toscana del Pulci, del Burchiello, del Pistoia e dando origine a un genere che da lui si chiamò bernesco.
Finissima è la satira che egli fa dell'idealismo erotico-estetico del Bembo e dei «
divini | servi di Amor
». Il suo antipetrarchismo capovolge i canoni del decoro e della convenienza in funzione di polemica morale contro gli ecclesiastici corrotti
- (Credete voi però, Sardanapali,
- potervi fare or femmine or mariti,
- e la chiesa or spelonca ed or taverna?),
contro l'abbandono in cui versa una badia
- (Ogni stanza è cantina,
- camera, sala, tinello e spedale […]
- ahi preti scelerati e traditori!),
contro i poeti petrarchisti
- (copron la terra d'erbitte e di fiori,
- fanno ridere il cielo e gli elementi,
- voglion ch'ognun s'impegni e s'innamori )
che chiama
«pallide viole, | e liquidi cristalli e fere snelle
».
Per taluni critici il Berni è cantore di cose triviali, ma i capitoli sulla gelatina, sui cardi, sulle anguille sono la cifra ideologico-linguistica dell'antipetrarchismo come il procedere narrativo, descrittivo, dialogico, lo è dell'antilirismo, della reazione contro la sublimità prevedibile dei petrarchisti. La comicità infine, non sembri strano, è l'elemento strutturale della visione seria e morale che traspare anche nelle digressioni del rifacimento dell'Orlando innamorato.
Speziale fiorentino fu
Anton Francesco Grazzini3 (1503-1584) detto il Lasca dal nome di un pesce che egli assunse nell'Accademia degli Umidi. Continuatore della tradizione toscana adottò i modi berneschi per prendersi gioco delle idee del Bembo, dei «
poetini
», degli elegiaci che «
tanto macilenti e mesti | son nel sembiante
». Feroce fu nella polemica contro Girolamo Ruscelli:
- Trovategli la culla,
- la pappa, il bombo, la ciccia e il confetto;
- fasciatel ben, e mettetelo a letto!
La polemica antipetrarchesca è nel libellista Niccolò Franco di Benevento, nemico dell'Aretino. Dialetto veneziano ed erotismo sono strumenti spesso realistici in Andrea Calmo (1510-1571), autore di sorprendenti
Epitaffi
- Chi lése qua, considera ben tutto
- a che muodo se muor miseramente,
- co' è stào costrì che è in st'arca presente,
- Allegretto Gandin, tragando un rutto
e in Maffio Venier (1550-1586), patrizio ingegnoso e dissipato che ottenne il vescovado di Corfù e fu detto, perciò, «esempio di castimonia e di qualità virtuose
» che oltrepassò nei suoi versi il momento giocoso e toccò il realismo. I suoi versi furono confusi con l'anonima produzione pornografica. Nella Strazzosa cantò l'amore nel sottoscala con una ragazza bellissima e coperta di stracci (che sarà tema secentesco):
- in brazzo al mio ben
- passo le notte de dolcezza piene;
- se ben la pioza e 'l vento
- ne vien tal volta dentro
- a raffrescar l'amor su per le rene.
Nell'area dell'antipetrarchismo e del realismo si colloca
Pietro Aretino4 (1492-1556) che scrisse in modo antiletterario, da polemista. Non pochi studiosi hanno accolto le accuse di vergogna e di abiezione create dai nemici e molte delle quali sono state sfatate dalla più avveduta critica moderna. Ancor oggi, però, la reverenza verso i canoni stilistici induce a condannare nello scrittore l'aderenza alla realtà materiale e all'esperienza autobiografica. L'Aretino visse dal 1517, per dieci anni, a Roma e al tempo di Leone X e Clemente VII frequentò gli ambienti più disparati; e rivelandosi spirito satirico trasformò le pasquinate da cicalate e adulazioni in frecce mordenti e anche maldicenti.
Poligrafo e polemista di ingegno capriccioso sfruttò le sue qualità attraverso l'urto polemico mentre i regolisti sfruttavano le proprie con il quietismo, il conformismo, l'ossequio all'ordinamento politico. Il «flagello dei principi
» dichiarò di scrivere sotto «lo stimolo del disagio
» e questo non può essere titolo di demerito; spiega anzi la scrittura d'istinto, il realismo, l'esuberanza e la potenza fantastica che tutti gli riconoscono, unite al desiderio di appurare tutti gli aspetti della vita.
La sua eterodossia artistica si rivela nella lingua antiletteraria e anticortigiana, nella condanna dell'imitazione e nell'avere seguito la naturalezza. Il personalismo e il realismo delle Lettere, dei Ragionamenti, delle rime spiacquero ai contemporanei che si sentirono colpiti nel loro amore verso la letteratura corretta, ma l'anticonformismo dell'Aretino ha dato al suo secolo alcune tra le più fresche pagine anticortigiane. Il suo modo giornalistico di scrivere oltrepassa la scrittura degli umanisti e anticipa la fine che questo modo di scrivere avrà nei secoli seguenti, corrisponde a un diverso modo di vedere l'intellettuale.
Il concetto di una cultura del popolo balena nelle pagine del calzaiuolo fiorentino
Giambattista Gelli5 (1498-1563) il quale scrisse in modo facile e piano. Altro motivo centrale nei
Ragionamenti di Giusto bottaio e nella
Circe è che la cultura non deve essere astratta ma giovare alla vita di tutti i giorni e servire alla soluzione dei problemi pratici. Alla tradizione popolaresca toscana si ricollega
Anton Francesco Doni6 di Firenze (1513-1574), tipografo ed editore dopo essersi sfratato, che nei
Marmi condensò una cultura zibaldonesca in cui sono precorrimenti scientifici, ragionamenti contro le superstizioni, contro i vizi. Il Gelli e il Doni si rivolgono a un pubblico popolare con intenti di divulgazione culturale seguendo un filo democratico tipicamente fiorentino.
Il maggior poeta dell'età rinascimentale dopo l'Ariosto e massimo dissacratore del latino e del volgare mediante la creazione geniale del realismo plebeo con l'uso del latino maccheronico fu
Teofilo Folengo7 (1491-1544) di Mantova, frate benedettino uscito dall'ordine e più tardi rientratovi. Per molti anni visse a contatto del mondo contadino del quale riportò l'esperienza nelle sue opere.
Il latino maccheronico era nato nell'ambiente goliardico padovano ma il Folengo dalle farse goliardiche lo innalza alla sfera artistica servendosene per la deformazione grottesca e popolare della cultura umanistica e rinascimentale e del mondo dei dotti. La sua lingua è parodia del latino classico ottenuta dal miscuglio di parole classiche con italiane e dialettali, è un gergo fedele alla morfologia, sintassi, prosodia latine (precedenti di questa lingua sono nel padovano Michele Odasi detto Tifi).
Eterodossia religiosa derivante da rapporti con ambienti luterani, parodia del mondo cavalleresco e del fantastico, canzonature delle superstizioni e satira degli ecclesiastici sono alcuni dei motivi ideologici del Folengo il quale contesta i valori rinascimentali per affermare la realtà contadina e campagnola mediante un gergo e il dialetto. Oltre l'Orlandino (1526), burlesco in ottava rima e il Chaos del Triperuno (1526), compose il Baldus che dalla prima edizione del 1517 in diciassette libri ampliò in venticinque libri nella quarta edita postuma (1552). Baldus, nato a Cipada, che cresce violento e si unisce ai marioli del paese è preso prigioniero e poi liberato dal compagno Cingar. Con questi e con altri due va alla ventura finché giunge all'inferno dove incontra, puniti tra i bugiardi, i poeti e i filosofi.
La comicità popolaresca è l'intonazione fondamentale del poema in cui troviamo come personaggi dei vagabondi forti e astuti, frati dediti al ventre, idilli rusticani, zuffe di donne, risse, tumulti, ma soprattutto la rappresentazione di una realtà contadina materiale e vitale. La grande pianura padana acquatica e terragna, i campi vetrati d'inverno, gli alberi rivestiti di galaverna, i duri lavori dei campagnoli e degli animali sono la naturalistica cornice delle imprese di Baldus in cui tutto appare deformato e grandioso. Deformazioni, ripetizioni creano l'epica grottesca.
In questi versi si parla del gran numero di frati:
- Quantae stant coelo stellae, foiamina sylvis,
- tantae sunt normae fratrum, tantique capuzzi.
- Si per iter vado terrarum, cerno capuzzos,
- si per iter pelagi, non mancum cerno capuzzos.
- Guardo per armatos campos, ibi cerno capuzzos;
così grande è la «fratorum cumulatio
» che sulla terra non ci saranno più soldati:
- non qui martellet ferrum, qui terra covertet,
- non qui per terras cridet: Oh spazza caminum,
- non qui scarparum tiret cum dente coramum […]
- non qui sit sguatarus, sitque ostus, sitque fachinus.
Opere minori del Folengo sono la Moschea e la Zanitonella che è una parodia della letteratura petrarchesca e pastorale e rappresenta la vita dei contadini.
Antitetiche allo stile sublime, derivate inizialmente da rimaneggiamenti, contaminazioni, imitazioni di contenuti popolareschi latini, arricchite di personaggi nuovi contemporanei (soldato spagnolo, negromante, frate ipocrita, pinzochera, maestro pedante che parla latinescamente) sono molte commedie del Cinquecento le quali interpretano sentimenti popolari e si pongono, con la novellistica, sulla linea della cultura comico-realistica.
Queste commedie con le loro strutture e la loro destinazione a un pubblico vasto e diverso rappresentano un aggiornamento di quella cultura in quanto operano in profondità e non sono soffocate dall'auto-censura che lo stile alto si impone con il livello di esemplarità che esso deve mantenere. Il livello espressivo, cioè, quando è originale, è relativo al pubblico largo e al suo modo di sentire.
La tradizione boccaccesca ritorna nella Calandria del cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena (1470-1520) che venne rappresentata a Urbino (1513). La comicità dell'opera (il vecchio Calandro beffato da un servo scaltro) nasce dagli equivoci, dalle facezie, dalla disposizione all'umore gaio. Per sua natura la commedia del Cinquecento trae spunto dalla vita reale; perciò in essa campeggiano spesso trionfanti la scaltrezza, la bricconeria.
Il merito principale dell'Aretino consiste nell'avere rappresentato nelle sue commedie in prosa (Marescalco, Cortigiana, Ipocrito, Talanta, Filosofo) la società complessiva del suo tempo (dagli uomini di corte ai servi astuti) e di avere portato sulla scena persone reali coi loro nomi e costumi. Perciò le sue commedie non imitano quelle classiche ma portano in primo piano la vita contemporanea e i livelli bassi a cui è stata ridotta. Nella Cortigiana Valerio si sfoga contro la «perversa, ingrata e invida natura de la Corte
», contro le finzioni, la sudditanza dell'intellettuale cortigiano la cui vita si svolge in modo ben diverso da quello descritto dal Castiglione.
Contro l'abuso delle regole e favorevole alla rappresentazione della vita contemporanea fu il Grazzini nella Gelosia, la Spiritata, la Strega, la Sibilla in cui innestò anche facezie e burle desunte dal Boccaccio. Il più prolifico autore di commedie toscane fu Gianmaria Cecchi (1518-1587), notaio fiorentino. Tra gli autori non toscani ricordiamo il naturalista napoletano G. B. Della Porta (per la Trappoleria, la Fantesca), il marchigiano Annibal Caro (1507-1566) per gli Straccioni. Anonima come gli Ingannati rappresentata a Siena nel 1531 è la Venexiana, mista di lingua e dialetto, in cui è narrata la vicenda quasi drammatica di un giovane che a Venezia è disputato dall'amore di due donne, una vedova e una giovane sposa.
Dalle farse del popolo recitate a Padova sulla piazza da gente del contado in dialetto padovano rustico (pavano) deriva teatro di Angelo Beolco (1496[?] - 1542) di Padova, detto il
Ruzzante8 (o Ruzante), recitatore e autore di commedie. Egli osservò acutamente la vita dei contadini e ne imparò il dialetto. Le sue commedie pavane (
Moscheta,
Fiorina,
Bilora,
Reduce) hanno sempre come protagonista il contadino miserabile, cornuto, soldato, millantatore, reduce dalla guerra. Questa condizione dei contadini è la loro dura autenticità, non ha nulla da spartire con la letteratura idealizzatrice dei rustici. Primitività e istintività costituiscono i valori vitali e sono contrapposte dal Ruzzante alla decomposizione della vita cittadina.
Lo scrittore guarda i contadini nella loro realtà, e se ride di essi il riso è la presa di atto della loro autentica «diversità», del loro valore umano, è la critica alla cultura cittadina che tiene asserviti gli abitanti della campagna. Ma Ruzzante guarda con umana simpatia i contadini, ne prende le difese nei prologhi, in discorsi in pavano nei quali si avvertono, come nel Folengo, motivi dello spirito di Erasmo e della Riforma. Come Folengo il Ruzzante rifiuta la lingua artificiosa costruita sul modello toscano e innalza il dialetto a espressione del «
naturale
» che è elemento base del suo realismo e della sua antiletterarietà («
Tenetevi al naturale e non cercate mai di contraffare. Non dico solamente della lingua e del modo di parlare, ma anche del resto
»):
se uno di voi uomini, nutriti di intingoletti, fosse venuto alle mani con una delle nostre femmine, essa con la sua potenza vi avrebbe messo di sotto e vi avrebbe fatto rimaner mosci come piante di zucca, quando ci è andata su la brina. Perché esse sono nutrite di cose naturali […]. Parliamo ora di questi ragazzi e giovinotti, che si fanno tagliare le brache sulle natiche O canchero! […]. E perciò voi, brigata, cacciatevi uno dietro all'altro a mantenere diritto il naturale. [traduzione da un prologo della Moscheta del 1528]
Anche la novellistica rappresenta le condizioni della vita sociale e domestica, pur avendo gli autori l'occhio al Boccaccio. Il Grazzini esprime anche nelle Cene la vivacità popolaresca, Gianfrancesco Straparola di Caravaggio raccoglie nelle Piacevoli notti motivi boccacceschi e, dalla tradizione orale, fiabe popolari (del Re porco, dell'Augellin bel verde).
Il narratore più vario è
Matteo Bandello9 (c. 1484-1561) di Castelnuovo Scrivia, domenicano, familiare di Isabella Gonzaga, al servizio di Cesare Fregoso, che visse in Francia dopo l'uccisione del suo signore e fu nominato vescovo di Agen. Le sue 214 novelle sono precedute ciascuna da una lettera dedicatoria e trattano innumerevoli soggetti: vicende fortunose, strane avventure, amori romanzeschi, episodi di vita contemporanea, tradizioni popolari. Egli non scrive per un pubblico di letterati, fa dei resoconti narrativi che hanno sullo sfondo gli avvenimenti maggiori della storia d'Italia di quel tempo e svolge una tematica erotica ricca e interessante (la leggenda di Giulietta e Romeo gli giunge dalla novella del vicentino Luigi Da Porto) che ebbe immensa fortuna e che penetrò in Francia, in Inghilterra, in Spagna. Con le
Ecatommiti (1565) del Giraldi Cinzio, invece, siamo ormai nel moralismo post-tridentino con i temi virtuosi e con la censura del vizio.
Quando
Benvenuto Cellini10 (1500-1571) scriveva e dettava (1558-66) la sua
Vita — che rimase inedita fino al 1728 e fu rivelata dal Baretti, i tempi delle regole del Rinascimento erano stati oltrepassati e l'opera fu composta come espressione di un temperamento immediato e antiletterario. In quella prosa c'è la sintassi popolare, il discorso vivo e irregolare di un parlante senza remore di stile e di norme, sicché si può veramente dire che il Cellini scrive come parla. Costrutti irregolari, passaggi dal discorso diretto all'indiretto, intrecci di proposizioni, anacoluti, costituiscono le espressioni e gli accenti soggettivi del protagonista-eroe, appassionato nell'esprimere sentimenti di ira, meraviglia, pietà, le proprie energiche imprese.
Questo Cinquecento «diverso
», non cortigiano, non cosmopolita, non teso verso la letteratura come livello sublime di stile, ma collegato con la cultura borghese-popolana toscana, col mondo contadino (in Folengo e Ruzzante), con gli interessi comici e romanzeschi di un largo pubblico, è vivo per il rapporto tra vita e cultura che rappresenta, per le sue eresie e aperture. Nella decadenza politica dell'Italia mantiene il vigore della tradizione popolare e getta i ponti verso una cultura scientifica, verso la scienza della natura che cercherà di ricomporre l'unità tradita dalle forze sociali e politiche signorili e dai letterati staccati dal popolo. Non tutti gli scrittori indicati parteciparono con eguale consapevolezza ed impegno alla resistenza contro il crollo politico e culturale perché taluni di essi non poterono compiere le esperienze di vita necessarie e altri subirono il peso di condizionamenti politici e religiosi ma mediante la loro opposizione altri che seguiranno potranno sentirsi liberi anche se «in soggezione
» o «in ceppi
».