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Avvenimenti storici. Il fiorire dei Comuni e della borghesia
La cristallizzazione politica italiana la quale va dalla pace di Lodi alla morte di Lorenzo dei Medici ha come conseguenza la conquista dell'Italia da Milano a Napoli da parte di Carlo VIII re di Francia (settembre 1494) e la crisi della libertà italiana. Il vuoto di potenza e di forza politica e militare è occupato dalle monarchie nazionali europee e dal 1503 Francesi e Spagnoli si accampano rispettivamente nel ducato di Milano e nel Regno di Napoli; dopo la pace di Cateau-Cambrésis (1559) la Spagna è padrona della maggior parte del territorio italiano (aggiunge alla conquista il ducato di Milano, la Sardegna e la Sicilia).
L'Italia diventa periferica rispetto alla politica europea perché le scoperte geografiche modificano il maneggio del traffico dalle repubbliche marinare ai padroni del nuovo continente centrale e meridionale e di altre terre, ai quali forniscono il possesso dell'oro e di altre ricchezze. L'impresa di Colombo (1492) e le conquiste a cui essa diede l'avvio diventano funzionali allo sviluppo economico, alle accumulazioni – matrici delle rivoluzioni industriali e dell'organizzazione capitalistica della produzione —, alla schiavizzazione (con mercato di schiavi) di continenti. La Riforma con la frattura dell'unità religiosa europea e con l'inaspettata reazione dei contadini contro le loro condizioni di vita costituisce il secondo rilevante fenomeno del secolo XVI mentre il terzo è costituito dalla rivoluzione copernicana, generatrice dello sviluppo delle scienze e del metodo sperimentale nel Seicento.
Tutto il Cinquecento ha aspetti contrastanti e il Rinascimento italiano ha una duplicità fondamentale se lo si considera nelle sue componenti sociali e culturali: splendore sovrastrutturale delle arti, delle lettere, della cultura delle classi cosmopolite – che non hanno rispondenza con la coscienza nazionale – le quali prima restano campate in aria e poi, lontane dal popolo, precipitano nella controriforma (funzione reazionaria); maturazione dei contenuti originali dell'umanesimo, sviluppo del pensiero scientifico, del naturalismo e del concetto dello Stato moderno con Machiavelli (funzione propulsiva).
I contenuti ideologici si svolgono nei primi anni del Cinquecento fuori d'Italia (in Francia e in Germania) dove hanno funzione positiva i fuorusciti italiani per motivi politici o religiosi, i quali diventano elementi dell'organizzazione dello Stato moderno come tecnici della politica, dell'ingegneria, dell'arte militare. L'Italia è la sede dell'espressione letteraria del movimento storico europeo propria quando essa si sfalda politicamente e cade in mano degli stranieri.
Fissato questo bifrontismo del Rinascimento occorre notare che le Signorie, sorte con la rifeudalizzazione della società italiana, esprimevano interessi feudali particolari e di divisione politica. I principi consideravano lo Stato come loro proprietà personale. Non ripeteremo qui le atrocità commesse dai Baglioni, dagli Este, dal napoletano Ferrante. Per uno storico, Josef Macek, la tirannide rinascimentale era un pugnale d'oro tempestato di pietre preziose: «il pugnale dello Stato salassava ribelli e scontenti, privava della vita amici e rivali, dava con il sangue dei nemici della tirannide linfa vitale alla dinastia». Rifeudalizzazione, aiuto della Chiesa, dei signori feudali francesi, spagnoli, dell'impero, controriforma furono i sostegni dei principi italiani fino all'ondata della rivoluzione borghese.
I letterati escono da famiglie aristocratiche e sono allevati (solo in Toscana troviamo speziali, calzaioli, barbieri, notai) in ambienti cortigiani e feudali (Castiglione, Galeazzo di Tarsia, Ercole Strozzi, Trissino, Angelo di Costanzo, Berardino Rota, Ercole Bentivoglio, e le poetesse Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Isabella di Morra) o godono di benefizi ecclesiastici o sono cardinali o vescovi (Bembo, Dovizi di Bibbiena, Casa, Giovi, Guidiccioni, Sadoleto, Alessandro Piccolomini, Tolomei). Riparano presso la corte o la chiesa per sicurezza o per profitto personale: l'elemento ecclesiastico-nobiliare ha dissolto i residui intellettuali borghesi-comunali. Nell'Italia divisa l'egemonia, è assunta dallo Stato della Chiesa («se non fosse prete, – scriveva di Leone X Francesco Vettori al Machiavelli – sarebbe un gran principe») ed è tenuta salda fino alla tarda età barocca.
Centro politico, la Curia diventa la maggiore potenza finanziaria e da Giulio II (1503-13) in poi prestigioso centro culturale con i moduli architettonici monumentali ispirati a maestà e potenza. Con Leone X (1513-21) la Curia romana sembra la corte di un imperatore; «le case dei cardinali ricordano le corti principesche, e quelle degli alti dignitari ecclesiastici, le case aristocratiche che cercano di superarsi a vicenda in splendore» (Manser). Michelangelo e Raffaello lavorano a Roma partecipando alla elaborazione di uno stile «pontificio» estremamente colto. La fantasia di Michelangelo esprime il vigoroso e il sovrumano, quella di Raffaello nelle sue Madonne la bellezza femminile idealizzata.
Tra il 1510 e il '30 trionfa a Roma il ciceronianesimo, l'imitazione del sonoro periodo del grande modello, che ebbe sanzione ufficiale quando Leone X elesse suoi segretari due eleganti ciceronianisti: Pietro Bembo e Jacopo Sadoleto. Classicismo, imitazione della lingua e dello stile degli antichi diventano canoni in tutti i generi letterari per ottenere risultati artistici universali e perenni.
I modelli di vita offerti da alcuni letterati contribuiscono a difendere costume e privilegi dei gruppi dominanti. Il loro pubblico è quello dei protettori di questi «servi privilegiati».
Giovanni Della Casa1 fiorentino (1503-56), amante della vita galante, arcivescovo di Benevento, nunzio apostolico a Venezia, segretario di Stato, nel
Trattato degli uffici communi tra gli amici superiori e inferiori (1546) ha «raunato alcuni ammaestramenti» per regolare i rapporti tra «uomini bassi» e potenti per evitare contestazioni tra servi e padroni, per indicare i doveri degli umili
(terranno gli uomini bassi la volontà e il giudizio dei potenti per regola alla quale si atterranno, con esso tutti i detti e fatti lor misurando; [...] dovrà l'inferiore pratico farsi de' comandamenti del superiore acciocché, nel viso guardatolo, ciò che ei voglia intenda).
Lo scrittore muove il discorso dalla distinzione tra servi e padroni e dalla resistenza che gli «uomini bassi» fanno alla prepotenza dei padroni. Di Della Casa è anche il Galateo, trattato sul modo di comportarsi in società con buona creanza, che il Croce definisce «uno di quei libri iniziatori che l'Italia del Cinquecento dette al mondo moderno»: infatti l'opera raccomanda di assecondare «mezzanamente» i comportamenti altrui senza turbare con la diversità l'ordine esistente (i diversi «sono mal volentieri ricevuti nel più delle brigate, e poco cari avutivi», «come avviene a chi ha il viso forte rincagnato [...] tintala gente si rivolge a guatar pur lui»; «e, se tutta la tua città averà tonduti i capelli, non si vuol portar la zazzera; o, dove gli altri cittadini siano con la barba, tagliarlati tu, perdocché questo è un contraddire agli altri»).
Baldassarre Castiglione2 di Casatico nel Mantovano (1478-1529) ebbe educazione cavalleresca alla morte di Ludovico il Moro, al servizio di Francesco Gonzaga, di Guidubaldo di Montefeltro duca di Urbino e del successore Francesco Maria della Rovere, ambasciatore a Roma; entrato nella carriera ecclesiastica fu protonotario e poi nunzio pontificio alla corte imperiale in Spagna. Presso le corti, la Curia, la Roma di Raffaello Castiglione acquistò l'impronta dell'uomo di corte professionale e, aggiunge uno studioso, «sdegno per ogni volgarità e bassezza». Per formare il perfetto uomo di corte il Castiglione dettò le norme istituzionali nel
Cortegiano (1528), un trattato in forma di dialogo, ambientato nel palazzo ducale di Urbino, a cui prendono parte Bembo, Bibbiena, Ottavio e Federico Fregoso, Ludovico di Canossa e Giuliano dei Medici. Centralità e superiorità della corte nella vita sociale, nobiltà e idealità del cortegiano sono i presupposti di una società chiusa, cristallizzata, senza ricambio. Nel trattato fortunatissimo – non certamente presso le classi popolari ma presso i ceti dominanti europei – il Castiglione raccomanda l'eclettismo professionale dell'aristocratico dirigente di corte (che sappia trattare le armi, conosca le lettere, la musica, la pittura) che dovrà avere discrezione, misura, grazia non affettata, congiunta a una certa «sprezzatura».
La cultura sarà, così, un ornamento dello spirito e gioverà anche nei «piacevoli intertenimenti con donne» ma anzitutto il cortegiano dovrà «amare e quasi adorare il principe a chi serve, sopra ogni altra cosa; e le voglie sue e costumi e modi tutti indirizzi a compiacerlo», «innanzi al principe non starà mai di mala voglia né melanconico» e userà verso di lui «quella reverenzia e rispetto che si conviene al servitore verso il signore». Certamente il Castiglione offriva regole di armonia, prudenza («Non sarà maledico», «non usarà prosonzione sciocca; non sarà apportator di nove fastidiose», «non sarà cianciatore, vano o bugiardo, vantatore né adulatore») ma per la sua élite e per il mondo che egli serviva e che vedeva immarcescibile ed eterno. Tutto è idealizzato e il trattato ha conclusione con la dissertazione del Bembo sull'amor platonico, contemplazione razionale della bellezza individuale e mezzo per salire alla contemplazione della bellezza divina.
Queste idee del Bembo sull'amore erano conosciute nella cerchia degli aristocratici perché nel 1505 il veneziano le aveva espresse negli Asolani, dialogo in tre libri, dedicato a Lucrezia Borgia. Si immagina che i dialoghi sull'amore, inframmezzati dalla lettura di canzoni del Petrarca, siano tenuti nella residenza di Asolo di Caterina Cornaro, già regina di Cipro. Il «vero amore» (è la conclusione derivante dal Simposio di Platone) proviene dal desiderio della bellezza assoluta, quella di Dio. Prolisso, impettito, il dialogo raduna i motivi canonici di grazia, proporzione, armonia, idealità e spiritualità dell'amore ed è estremamente importante come sintesi ideologica dell'aspirazione all'idealismo da parte dei ceti aristocratico-ecclesiastici dominanti.
Anche le idee che il Bembo aveva sulla lingua, le quali si richiamano all'imitazione dei grandi modelli di poesia e prosa trecentesche, il Petrarca e il Boccaccio, ebbero prevalenza nel Cinquecento. Il volgare aveva riconquistato il dominio nella letteratura ma era necessario indicare quale doveva essere la nuova lingua volgare: Vincenzo Calmeta (1460-1508) sostiene l'uso della lingua della corte papale di Roma; il Castiglione propone l'uso della lingua parlata nelle corti con il concorso del toscano ma anche di vocaboli di altre regioni; Giangiorgio Trissino è per una lingua italiana derivante dai dialetti privati delle loro peculiarità fonetiche e lessicali; il calzolaio-letterato fiorentino Giambattista Geli (1498-1563) vede come indispensabile nella lingua l'arricchimento dell'uso quotidiano.
Pietro Bembo3 (1470-1547) di famiglia patrizia veneziana, studiò il greco a Messina alla scuola del Lascaris, visse a Venezia, a Ferrara in amicizia con Lucrezia Borgia moglie di Alfonso I d'Este, alla corte di Urbino, alla Curia romana, fu nominato storiografo della repubblica veneziana e infine creato cardinale da Paolo III. Nel 1525 pubblicò le
Prose della volgar lingua in tre libri in forma di dialoghi in cui dimostra l'eccellenza del fiorentino sugli altri volgari e la necessità di avere presenti, per gli scrittori delle regioni d'Italia, i modelli del Petrarca nella poesia e di Boccaccio nella prosa. Predomina con l'opera del Bembo la forza istituzionale ed esemplare dell'imitazione dei grandi modelli. Anche in questa direzione la scelta del Bembo è contraria all'arricchimento linguistico mediante l'uso quotidiano. La lingua letteraria non deve accostarsi a quella del popolo ma «discostare se ne dee e dilungare, quanto le basta a mantenersi in vago et in gentile stato»
(Non è la moltitudine, Giuliano, quella che alla composizione d'alcun secolo dona grido et auttorità, ma sono pochissimi uomini di ciascun secolo, al giudicio de' quali, [...] danno poi le genti e la moltitudine fede, che per sé sola giudicare non sa dirittamente).
I dotti scrivono per i dotti «ché del popolo non fanno caso».
Quando l'affermazione del volgare è definitiva e lo sviluppo della stampa crea un pubblico più vasto Bembo accentua la frattura fra lingua letteraria e lingua parlata per favorire la produzione aristocratica – produzione di classe – gradita ai signori dai quali umanisti e letterati dipendevano.
Anche questa scelta del Bembo, l'imitazione della lingua e dello stile del Petrarca, fu di grande conseguenza perché perpetuò nella nostra letteratura motivi e immagini del Canzoniere. L'armonia formale fu intesa come armonia spirituale; il dramma interiore fu estetizzato e idoleggiato; la realtà fu guardata intellettualisticamente attraverso il modello del Petrarca e del suo nucleo spirituale; la lirica per un paese asservito agli stranieri e non la prosa costituì la scelta espressiva, il suono e non le idee.
Trionfava ancora una volta l'ideologia aristocratica della lingua. Dal Veneto, officina del patriarca Bembo, il petrarchismo dilagò in tutta Italia e per tutti i successivi secoli della nostra letteratura. Esso diede disciplina all'arte dei poeti ma alimentò la retorica della lirica di intrattenimento e cristallizzò la lingua della poesia.
Simbolo di letteratura raffinata il petrarchismo nel Cinquecento fu praticato gelidamente dallo stesso Bembo, con maggiore libertà e anche con contrasti di motivi dal Della Casa, da Giovanni Guidiccioni, Bernardo Tasso, dall'insipido Annibal Caro, dal prepotente feudatario Galeazzo di Tarsia (ucciso dai suoi sudditi) che fu il più personale e drammatico poeta della schiera, dalle rimatrici Veronica Gambara, Gaspara Stampa, Veronica Franco, Tullia d'Aragona, Vittoria Colonna e da Barbara Torelli e Isabella di Morra: della prima rimane un sonetto scritto per l'uccisione dell'amante Ercole Strozzi, la seconda fu uccisa dai fratelli a causa di una relazione con un nobile spagnolo.
All'ideale estetico della grazia e della misura si collega l'opera di novelliere di
Agnolo Fiorenzuola4 (1493-1543) fiorentino; monaco vallombrosano poi sciolto dai voti da Clemente VII, autore dei
Ragionamenti d'amore rimasti incompiuti, rifacitore nella
Prima veste dei discorsi degli animali (1541) di una traduzione spagnola dell'indiano
Panciatantra, dell'
Asino d'oro di Apuleio con cui il protagonista, lo stesso autore, imbestialito «dall'asinino studio delle leggi civili» è purificato dall'amore di Amaretta. Nei
Discorsi delle bellezze delle donne (1540) il Fiorenzuola si avvicina agli ideali della letteratura d'amore e del
Cortegiano, è scrittore di stile e di regole di armonia.