Capitolo

5

L'età dell'umanesimo


PREMIO ANTONIO PIROMALLI
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5 - § 1

L'umanesimo e le Signorie. Valori e limiti. L. B. Alberti, Leonardo da Vinci


Il fatto più paradossale del Quattrocento italiano — che una lingua morta, la latina, tenti di prendere il posto di una lingua viva e popolare — coincide con la dissoluzione delle forze comunali e con la formazione di oligarchie patrizie di origine alto-mercantile o signorile, alle quali corrisponde la formazione di oligarchie culturali: gli umanisti.
La corsa agli investimenti fondiari attuata da borghesi e mercanti mediante la costruzione di palazzi gentilizi in città e ville in campagna (le glorie dei redditieri), accompagnata da azzardose intraprese speculative, trasforma la ricchezza in opulenza, il borghese-mercante in patrizio consapevole del suo rango e della sua superiorità. Alla passione-investimento muraria (speculazione e pietrificazione, ha scritto uno storico, «procedono congiunti lungo tutta la storia italiana, dai Comuni fino ai giorni nostri») si unisce la necessità di mutuare la ricchezza in potere-salvaguardia delle ricchezze.
Il fenomeno della formazione di queste oligarchie si verifica in molte città italiane. Nelle oligarchie privatistiche, di gruppi di famiglie, clientelari, si conclude il movimento progressivo che aveva avuto origine coi Comuni, mentre in Europa la rinascita iniziata dopo il Mille culmina negli Stati nazionali e nell'espansione di Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo. In Italia si ha l'affermazione di Signorie e principati che, come a Firenze con i Medici, conquistano il potere dei gruppi repubblicani e lottano fra di loro perché dagli Stati maggiori (Milano, Venezia, Firenze, Roma e Napoli) non emerga uno Stato nazionale: lo squallido «equilibrio politico» segnato dalla pace di Lodi (1454) cristallizza per quarant'anni — finché non verranno gli stranieri in Italia — qualsiasi possibilità di evoluzione politica unitaria. Invece dello Stato nazionale si ha in Italia l'organizzazione della Chiesa come Stato assoluto con Alessandro VI, disfacitore degli altri Stati, inauguratore del prototipo di sovrano rinascimentale nepotista.
La signoria con la sua corte diventa il convegno degli intellettuali per i rapporti che essi hanno con il principe, il pubblico raffinato della corte è il pubblico a cui quegli intellettuali si rivolgono. Ma quali contenuti originali possono sviluppare gli umanisti italiani cortigiani quando ad essi, dipendenti del signore, è impedito di sviluppare le sovrastrutture di una società integrale, quando essi possono agire soltanto nell'ambito frazionato di una struttura che non può essere nazionale e popolare? I contenuti ideologici in forme politiche e filosofiche si possono sviluppare in Francia e Germania, i nostri umanisti rimangono dei virtuosi della vita intellettuale.
Tuttavia occorre sottolineare l'elaborazione di alcuni motivi pre-umanistici introdotti dal Petrarca e dalla sua cerchia veneto-padana: riscoperta del mondo greco-latino, consapevolezza di rinnovare la cultura medievale, studio critico e filologico delle opere classiche riconquistate, sentimento civile dell'umanesimo fiorentino.
Lo studio umanistico-erudito della classicità diventa esemplare, modello di vita, in un apostolo quale Coluccio Salutati1 (1331-1406) di Stignano in Valdinievole, cancelliere della Repubblica fiorentina, che scoprì le epistole di Cicerone Ad familiares, introdusse nelle sue lettere latine i motivi umanistici del Petrarca: umanità superiore, libertà, dignità.
Cominciano gli intellettuali a usare generalmente il latino come lingua dei nuovi gruppi dirigenti e dei dotti, a rappresentare l'uomo nella sua razionalità universale e nella sua spiritualità astratta (come la Scolastica aveva fatto nell'ambito teologico), rifuggendo dal concreto, dal particolare, dalla natura, in armonia con l'indirizzo esistente presso l'aristocrazia delle corti.
Scoperta dei classici (il più fortunato scopritore fu Poggio Bracciolini 2(1380-1459), cancelliere fiorentino, che portò alla luce opere di Quintiliano, Stazio, Cicerone, il De rerum natura di Lucrezio), critica dei testi mediante il confronto dei manoscritti, emendazione degli errori, eliminazione delle interpolazioni, commento dei testi furono i compiti preliminari. Il romano Lorenzo Valla3 (1407-57) fu maestro di istituzione filologica ma quando volle confrontare valori classici e cristiani non andò oltre l'epicureismo cristiano.
In qualche scuola (la nuova cultura, riorganizzandosi, mirava a creare un modello di uomo per le classi dirigenti) fu divulgato il principio che gli studi umanistici giovavano a educare l'animo e a creare il buon gusto che la vita sociale signorile richiedeva. Guarino veronese (1370-1460), lettore nello Studio di Ferrara, e Vittorino da Feltre (1378-1446) tennero scuole di greco e di pedagogia. Il greco venne introdotto a Firenze nel 1397 da Manuele Crisolora che fu chiamato a insegnare dal Salutati.
Due avvenimenti favorirono la conoscenza della cultura greca: il Concilio di Ferrara e Firenze (1438-39) per la riunificazione della Chiesa greca e romana e la caduta (1453) di Bisanzio che spinse in Italia Giovanni Argiropulo, Demetrio Calcondila, Costantino Lascaris. Per il concilio vennero in Italia Giorgio Gemisto, ammiratore di Platone, il Bessarione monaco basiliano di Trebisonda. A Firenze Cosimo dei Medici protesse Marsilio Ficino (1433-99) che tradusse le opere di Platone, scritti di neo‑platonici e nella sua opera Theologia platonica vagheggiò la conciliazione di platonismo e cristianesimo concependo l'anima umana intermedia, nella scala degli esseri, tra Dio e la materia.
Nella villa di Ficino a Careggi si creò una libera accademia di conversazioni a cui partecipavano Cristoforo Landino, poeta latino, commentatore di Dante e Giovanni Pico della Mirandola (1463-94).
Nell'ambito della riorganizzazione culturale ha grande importanza il mecenatismo dei signori i quali, padroni dello Stato, davano l'indirizzo alla scuola e alla politica e avevano bisogno di artisti e umanisti per le creazioni di arti figurative, di opere architettoniche, letterarie. I centri culturali, presso i quali si formavano scuole, biblioteche, erano le sedi delle Signorie; tra i principi che si valsero dell'opera di artisti e umanisti ricordiamo Filippo Maria Visconti, Alfonso e Ferdinando I di Aragona, Federico duca d'Urbino, Borso ed Ercole I d'Este, i Gonzaga, Cosimo e Lorenzo dei Medici. La Chiesa ebbe due pontefici umanisti, Niccolò V e Pio II: il primo fu il fondatore della biblioteca Vaticana, il secondo scrisse di varia erudizione e il De duobus amantibus.
Il canone fondamentale della poetica umanistica fu l'imitazione dei classici: Cicerone per l'eloquenza, Cicerone, Seneca, Plinio per le lettere, Virgilio, Lucano, Omero per l'epica, Ovidio, Properzio, Tibullo per la lirica furono i modelli. Tito Livio lo fu nella storiografia per Leonardo Bruni aretino (1370-1444) autore di una Historia fiorentina; Biondo Flavio (1392-1463) di Forlì intuì l'antitesi tra mondo medievale e classico e studiò le regioni italiane, la topografia e le istituzioni di Roma antica. Si avvicinò così all'archeologia il cui maggiore studioso fu Ciriaco dei Pizzicolli di Ancona. Indirizzo archeologico ebbe l'Accademia romana fondata da Pomponio Leto.
Epistole, orazioni, furono generi letterari adottati dagli umanisti per le esercitazioni ricche di citazioni, digressioni, esempi, le invettive nelle polemiche risentite e intolleranti contro gli avversari a proposito di questioni remote dalla realtà presente (come quelle del Filelfo con Bracciolini, di questi col Valla e col Guarino: l'ultima disputa era una questione di superiorità tra Giulio Cesare e Scipione l'Africano). Non mancarono poemi epici in favore di mecenati.
Numerosi furono i poeti lirici in latino tra i quali ricordiamo Tito Vespasiano Strozzi di Ferrara e Giovanni (o Gioviano) Pontano4 (1426-1503) di Cerreto nell'Umbria che diresse l'Accademia napoletana e fu segretario di Stato di Ferdinando I d'Aragona. Il Pontano scrisse trattati filosofici e dialoghi ma la sua vera vena è quella delle elegie De amore coniugali, dell'idillio Lepidina. Del Poliziano sono da ricordare soprattutto l'elegia per la morte di Albiera degli Albizi e il Rusticus; del Sannazaro le Elegie, gli Epigrammi, le Eclogae piscatoriae e il De partu Virginis.
Lo studio umanistico-erudito della classicità (della cui organizzazione abbiamo ricordato i principali elementi) fu proposto come modello di vita per quella società di uomini colti che costituì la nuova oligarchia intellettuale umanistica. Certamente non mancarono gli esaltatori dell'uomo (Giannozzo Manetti esaltò la perfezione e dignità del corpo umano, Pico della Mirandola la natura indefinita assegnata all'uomo perché questi se la potesse determinare col libero arbitrio, Marsilio Ficino la divinità della natura umana, Buonaccorso da Montemagno la nobiltà consistente nella virtù dell'animo) ma i contenuti esaltati erano lontani nel tempo e nella storia e si rivelarono fragili e inconsistenti alla prima verifica con la crisi politica ed economica della fine del Quattrocento. Resteranno «flatus vocis» astratti nella loro vaghezza etica indefinita.
Nel Quattrocento la natura — nel cui ambito l'uomo dovrebbe cimentarsi — è esclusa dalla ricerca filosofica. La riscoperta della classicità volle significare soprattutto coscienza storica di un'altra età (modello armonioso da ripristinare) e impadronimento di un nuovo ruolo degli intellettuali cittadini.
Non si può parlare, perciò, di rivoluzione e di creazione di un uomo nuovo, poiché tali risultati sarebbero stati in contrasto con le strutture accentratrici e autoritarie dello Stato signorile e il movimento umanistico per essere liberatorio avrebbe dovuto promuovere l'eguaglianza degli uomini e la lotta contro le differenze sociali. In realtà avvenne il contrario: gli intellettuali umanisti sono omologhi al potere politico e hanno fondamentalmente coscienza del distacco tra uomini di cultura e folla, della superiorità del «loro» universale culturale.
L'uomo nuovo veniva creato con gli elementi recuperati dal passato e non era una concezione liberatrice ma la determinazione dei caratteri del dirigente di classe. L'oligarchia umanistica era conservatrice perché tutta la società, con le sue strutture, diventava conservatrice e poco serve considerare — oggi — positivamente la Signoria soltanto perché è succeduta al Comune quando in realtà Signoria e umanesimo rappresentano una sorta di controriforma del mondo borghese comunale.
Anche il presunto paganesimo — distacco dalla religione tradizionale — degli umanisti non ci fu. Gli umanisti furono cristianamente devoti e interpretarono con una visione più critica l'eredità religiosa: senza cultura letteraria, scrisse Pier Paolo Vergerio, «non si può intendere la Scrittura, non le esposizioni e le tradizioni dei dottori, a mala pena comprensibili per i letterati» e aggiunge: «che forza avrebbe la lotta dei fedeli contro i pagani e gli eretici, se venisse a mancare quella cultura che si ottiene con la grammatica, la logica e la retorica?».
L'italianizzazione della Chiesa dopo l'esilio avignonese esercita influenza sugli umanisti (Salutati, Loschi, Bruni, Bracciolini, Vergerio e, per un certo tempo, anche l'Alberti) i quali si pongono al suo servizio per le garanzie economiche e di sicurezza che quello Stato forniva. Il Valla apre la via al conformismo religioso, alla conciliazione di elementi ideali discordanti: l'accettazione dei limiti diventa filosofia e prassi comune nell'umanesimo, l'etica umanistica si nutre delle dottrine dei padri della Chiesa e di Cicerone, Ficino sostituirà Platone ad Aristotele per nobilitare e armonizzare idealisticamente la realtà. Qui l'umanesimo fa da barriera contro l'eterodossia: la funzione rivoluzionaria e laica si ha in Francia con Rabelais e in altri paesi dell'Europa centrale.
Nella sfera politica gli umanisti passano dall'esaltazione delle libertà repubblicane a quella dei regimi signorili. Ma quando il Salutati celebra la libertà repubblicana fiorentina, intende celebrare la restaurazione dell'oligarchia aristocratico-borghese ritornata al potere dopo le sommosse popolari. Il Landino seguì il principio politico mediceo: il consenso attraverso il suo platonismo contemplativo che sublimava la rinuncia e lasciava ai governanti il potere di dirigere la vita pubblica. Il Filelfo si inquadra nella politica culturale del principe mecenate sviluppando, come altri faranno, ambizioni e ricerca di successo personale. Attraverso il Filelfo si dimostra la scarsa autonomia degli intellettuali di corte, il loro assorbimento da parte del Signore che unisce la cultura alla politica per governare lo Stato.
A Rimini Sigismondo Malatesta adoperò legisti e giureconsulti nelle ambascerie e nei consigli di Stato, artisti e letterati per celebrare il governo, la persona del principe e della sua donna, Isotta degli Atti: il Liber Isottaeus è l'elogio scritto da Basinio Parmense e Porcellio Pandoni che esaltano gli amanti e divinizzano la donna. Il compito dei letterati è la fabbricazione della gloria di Sigismondo il cui governo rappresenta l'età dell'oro.
Accanto agli umanisti di grido sono quelli che vivono in miseria, come Tracalo, consumato dagli usurai che assorbono il guadagno del lavoro di sua madre («et non può tanto guadagnare mia madre con le dita quanto se magna la usura»), il quale è in stato di miseria, senza calze né scarpe, e chiede una ricompensa per l'«opra volgare» che sta scrivendo per il Signore: «non conosco a verun cenno che ella ve sia accepta. […] Le fatiche del corpo voglion forza e quelle de l'animo losenghe». Le «losenghe» sono la richiesta di una vita più degna ed erano perseguite dalla girovaga turba degli umanisti poveri che non avevano stabilità economica.
Sulla sponda opposta a quella del versante economico di Tracalo, l'umanista sereno e che sa gustare la vita equilibrata (Alberti) discetta sull'arricchimento familiare come propizio al bene della città, sulla conservazione della ricchezza acquistata, sulla responsabilità del potere che spetta ai più ricchi. Il Filelfo compie una difesa accademica della povertà, sinonimo di distacco del saggio dai beni mondani ma riconosce che la condizione della povertà è l'emarginazione. Poggio Bracciolini biasima la scelta della povertà ascetica nel romitorio; gli umanisti più attenti all'organizzazione politica identificano il cittadino più capace di intervenire nella vita dello Stato con l'imprenditore facoltoso.
La condizione degli umanisti nei confronti della società è caratterizzata dalla loro, pretesa di indipendenza: di fatto, invece, nella loro mancanza di omogeneità sociale (vi sono alti funzionari, piccoli mercanti, maestri di scuola, precettori, segretari), devono andare alla ricerca di protezione, amicizie, lavoro, successo, onori. La loro vita è spesso raminga di corte in corte e in ogni luogo cercano la formazione di una pubblica opinione ad essi favorevole. Al primo formarsi dell'umanesimo presso le corti e le segreterie di Stato furono ricchi e colti mercanti, dotati anche di potere, i sostenitori dei gruppi di letterati. In seguito costoro ebbero stipendi o prebende o benefici e diventarono i panegiristi dei Signori dai quali dipendevano. A contatto, però, con i privilegi e le facoltà dei Signori dimisero l'etica stoica del saggio e cercarono di attuare la loro elevazione sociale. Per evitare di soggiacere ai grandi accademici di corte e agli uomini di affari si rifugiarono nella torre d'avorio, nel lavoro dell'officina letteraria, estraniandosi dalla vita sociale per timore di compromettersi, isterilendosi per tre interi secoli della storia d'Italia. Chiamarono indipendenza la loro indifferenza, universalità della cultura il loro generico spiritualismo, superiorità il loro distacco dalle moltitudini.
Fra le contraddizioni dell'umanesimo — che inizialmente si mosse per elaborare attraverso la cultura classica una visione più moderna — nella sua fase di sistemazione c'è il divaricarsi dallo slancio progressivo iniziale per considerare il volgare come un dialetto e privilegiare una lingua morta in funzione della sovranazionalità della casta degli intellettuali. In tal modo l'involucro culturale, il classicismo, aderiva alla cultura elitaria e non popolare. L'affermazione dei valori umanistici, inoltre, è fatta quando l'intellettuale che dichiara la dignità dell'uomo diventa cortigiano; lo spirito critico e il valore della gloria sono esaltati quando l'Italia è appartata dal processo di formazione delle monarchie nazionali e gli intellettuali si astraggono nel cosmopolitismo anazionale; l'ideologia umanistica del compromesso dei motivi ideali spegne i movimenti riformatori sia comunali sia ereticali anticipatori del libero pensiero: solo nel secolo seguente Machiavelli definirà l'autonomia della politica dalla fede.
Fenomeno a duplice indirizzo fu l'umanesimo in cui gli aspetti progressivi furono riservato dominio di una parte della società italiana mentre altri motivi verranno a maturazione nei secoli seguenti (rapporto tra scienza e fede, politica e religione, autonomia dell'arte dal fine dei contenuti).
L'umanesimo come concezione di vita matura in Matteo Palmieri5 (1406-1475) fiorentino, autore dei dialoghi Vita civile in cui è esaltato il progresso delle generazioni e del sapere, e in Leon Battista Alberti6 (1404-1472), nato a Genova da famiglia fiorentina, formatosi a Padova e Bologna, vissuto a Roma, Firenze, Ferrara, architetto sommo (facciata di S. Maria Novella e palazzo Rucellai a Firenze, tempio malatestiano a Rimini, S. Andrea a Mantova) che predilesse le forme monumentali di ispirazione romana, archeologo, teorico nel De re edificatoria in latino e in Della statua e Della pittura in volgare. In quest'ultimo l'Alberti vuol fare del pittore un uomo di cultura umanistica, nelle Intercoenales e nel Momus l'equilibrio umano, punto supremo della concezione albertiana, è offuscato dal prevalere della Fortuna cieca.
Ma nelle opere in volgare si possono cogliere le qualità principali dell'Alberti che si assommano nella concezione dell'individuo borghese (con i valori immanenti della giustizia e della ragione, col disprezzo dei beni provenienti dalla fortuna, col superamento delle avversità dell'esistenza) che si sviluppa nella società civile ma al di fuori dell'attività politica e che nei problemi intellettuali si affida alla Chiesa. Nei trattati Della famiglia (1437-1441) in quattro libri discute del matrimonio, dell'educazione dei figli, dell'amministrazione dei beni, della cura dell'anima e del corpo; nel Della tranquillità dell'animo (1442) indica nella ragione e nella rassegnazione gli strumenti per superare disgrazie, difficoltà economiche, malattie (casi avversi, questi, che l'Alberti dovette personalmente superare); nel De iciarchia (1470) tratta del governo della famiglia e dello Stato fondandosi sulla volontà e sugli ideali etici dell'uomo.
In queste opere l'Alberti dà consigli per la formazione del borghese nella società civile (più tardi, nella società rinascimentale, il Castiglione si occuperà dell'educazione del cortigiano e dei rapporti tra cortegiano e principe) cercando di trasferire in questo ideale etico l'armonia umanistica di sentimenti ed atteggiamenti cementati da decoro, temperanza, moderazione. L'aurea mediocritas, la felicità come serenità dell'animo, l'equilibrio dei classici sono i motivi ideali dell'Alberti il quale mira a costruire l'individuo in un assetto economico ordinato: possesso fondiario più che attività commerciale, famiglia produttiva e risparmiatrice, cura estrema della masserizia e dell'economia sono i cardini dell'utile particolare, la cornice in cui possono sussistere i sentimenti etico-estetici equilibrati. L'istituzione fondamentale è la famiglia, la delega all'egemonia della Chiesa nelle grandi questioni non è neanche discussa perché l'Alberti riconosce ortodossamente la funzionalità attuale delle istituzioni all'ordine civile.
L'Alberti non è insoddisfatto dei modelli sociali (il suo pessimismo, quando c'è, riguarda l'uomo); il classicismo, il guelfismo politico e la concezione dell'uomo ordinatore della società civile gli impediscono di vedere le crepe del sistema. Il suo ideale è la costruzione:

architetto chiamerò colui che con metodo sicuro e perfetto sappia progettare razionalmente e realizzare praticamente, attraverso lo spostamento dei pesi e mediante la riunione e la congiunzione dei corpi, opere che nel modo migliore si adattino ai più importanti bisogni dell'uomo.

Senza architettura non ci sarebbe «focolare domestico», tutto deriva da essa (mezzi di trasporto, forni, orologi, acque sotterranee portate alla superficie, santuari, templi, taglio di rupi, traforo di montagne, livellamento delle valli, contenimento delle acque marine e lacustri, svuotamento delle paludi, costruzione delle navi, fabbricazione di ordigni bellici di offesa e di difesa etc.) e per questa plurivalenza dell'architetto è necessaria la padronanza delle più alte discipline. Euritmia e armonia costruttiva non consentono all'Alberti di vedere, come vedrà Machiavelli, gli elementi non nazionali del problema politico impostato dalla Chiesa. Non riformatore sociale e non apostolo — bisognerà aspettare l'Illuminismo perché sorgano la coscienza e le azioni politiche collettive — l'Alberti racchiude, come gli umanisti, il suo impegno nella scelta individuale.
Curioso di problemi scientifici, di problemi di ottica e meccanica, matematica, fisica e ingegneria nautica fu l'Alberti, ma mente universale nelle attività di pittore, scultore, architetto, ingegnere, anatomista, geologo, biologo, fisico fu Leonardo da Vinci7 (1452-1519). Soggiorno fiorentino (1468-82), milanese presso Ludovico il Moro (1482-99), a Mantova, Firenze, Venezia, Roma presso Leone X, in Romagna al servizio di Cesare Borgia, in Francia al servizio di Francesco I sono le soste e gli itinerari fondamentali di Leonardo che morì in Francia presso il castello di Amboise. Alla bottega del Verrocchio apprese l'arte della pittura ma anche i procedimenti tecnici della metallurgia, della tintura della lana, della lavorazione della carta e imparò a osservare la natura spinto da una eccezionale sete di conoscenza.
Leonardo fu profondamente avverso agli umanisti astratti, idealisti o sprofondati nella retorica culturale del passato, libreschi e incapaci di guardare gli elementi della realtà sulla quale poggiavano i piedi, privi dei loro occhi naturali e mentali in quanto impotenti a dedurre dalla natura i principi fondamentali per la loro attività intellettuale. Verso di essi ebbe sempre sentimenti di distacco e di disprezzo:

Fuggi i precetti di quelli speculatori, che le loro ragioni non son confermate alla isperienza;

So bene che, per non essere io litterato, che alcuno prosuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll'allegare io essere omo sanza lettere. Gente stolte! […] Diranno che, per non avere io lettere, non potere ben dire quello di che voglio trattare. Or non sanno questi che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienzia, che d'altrui parole; la quale fu maestra di chi bene scrisse, e così per maestra la piglio e quella in tutti i casi allegherò.

Quegli umanisti erano per lui ripetitori («trombetti e recitatori delle altrui opere»), i loro principi di imitazione gli erano del tutto estranei perché la sua concezione scientifica si fondava sull'esperienza e le metafisiche di Platone e Aristotele appartenevano a una cultura antropologica che aveva principio e fine nella mente, erano fuorvianti, non consideravano l'uomo ma si aggiravano intorno all'idea che essi avevano dell'uomo: «in tali discorsi mentali non accade esperienzia, senza la quale nulla dà di sé certezza». La vera sapienza è figlia dell'esperienza: Leonardo anticipa, nel mare dell'umanesimo letterario, motivi della scienza moderna di Galileo, Bacone, Newton, è sulla linea parallela di Machiavelli («Le buone letture so' nate da un bono naturale; e perché si de' più lodare la cagione che l'effetto, più lauderai un bon naturale senza lettere, che un bon litterato senza naturale»).
Contrario, quindi, al letterato idealista campato in aria, Leonardo è il primo e geniale inveramento dell'umanesimo che propone di sviluppare le abilità intellettuali dell'uomo, di studiare la natura che circonda l'uomo. Il suo umanesimo è lontano dalla contegnosità, dal sussiego dell'uomo astratto e superiore che finisce con lo specchiarsi nei classici — e in quanto singolo —, che si aggira nei cieli delle lettere senza sapere chi è, che cosa rappresenta, dove è diretto. Esso studia le leggi della natura, proclama l'esperienza «madre di ogni certezza», afferma «nessuna umana investigazione potersi demandare scienza s'essa non passa per le matematiche dimostrazioni» («La esperienza non falla mai, ma sol fallano i nostri giudizi», «La scienza è il capitano e la pratica sono i soldati», «La natura è costretta dalla ragione della sua legge», «Il moto è causa d'ogni vita», «Il moto è creato dal caldo e dal freddo», «Il caldo dell'universo è generato dal sole», «Il sole non si move»).
Leonardo inizia la scienza moderna e compie la prima formulazione del metodo sperimentale, rimove dall'esperienza e dà un posto privilegiato alla tecnica: inventa apparecchi per la misurazione della pressione del vento e dell'acqua, tenta la costruzione di una macchina che permetta il volo umano richiamandosi ai modi di volare degli uccelli, progetta sistemi di trasmissione del moto, macchine scavatrici per costruire canali, lo scafandro, carri coperti e armati per rompere le difese, studia l'anatomia dando una precisa figurazione della colonna vertebrale etc. La tecnica è l'applicazione delle leggi matematiche mediante le quali la natura può essere conosciuta dagli uomini e per vantaggio degli uomini: «l'acquisto di qualunque cognizione è sempre utile allo intelletto, perché potrà scacciare da sé le cose inutili, e riservare le buone».
L'umanesimo letterario italiano è poco avventuroso, come la borghesia quattrocentesca che da mercantile diventa fondiaria e reddituaria. La concezione dell'uomo è tenuta per mano dall'imitazione degli antichi. Leonardo muta orizzonti, collega la conoscenza delle leggi naturali con la scienza delle costruzioni e nel collegamento interdisciplinare incontra le difficoltà insite nella obiettiva condizione di una Italia divisa o frammentata, sicché il suo cosmopolitismo rappresenta una ricerca di committenti moderni che gli consentano di sviluppare la sua grande ingegneria. A Ludovico il Moro Leonardo propone di aprire i propri segreti di costruttore di macchine belliche dichiarandosi «paratissimo ad farne experimento in el parco vostro, o in qual loco piacerà».
Con la sua meravigliosa attività di pittore e di scrittore (una immensa quantità di scritti, appunti, abbozzi, pensieri, discussioni, apologhi, favole) Leonardo rompe la monotonia dell'imitazione, il quietismo dell'ossequio all'autorità e presenta la natura generante nel suo farsi e disfarsi, nel nascere come forza viva della terra da rocce e caverne, nel suo equilibrarsi nella realtà dagli infiniti aspetti che viene componendo.
Leonardo apre il cammino alla «filosofia naturale», alla scienza moderna come caposcuola e protagonista di genio. Simbolo di questa visione progressista è la descrizione, da lui stesso fatta, della «bramosa voglia […] di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura» e della scoperta di una gran caverna di fronte al cui mistero è assalito da due sentimenti: «paura e desiderio: paura per la minacciosa e scura spelonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa».

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