Capitolo

4

La letteratura tra la società dei comuni e le signorie


PREMIO ANTONIO PIROMALLI
PER TESI DI LAUREA MAGISTRALE O DOTTORATO DI RICERCA

- CENTRO INTERNAZIONALE SCRITTORI DELLA CALABRIA
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4 - § 3

Lo scrittore in latino e l'umanista


Scrivendo in latino (non in lingua accademica o specialistica) il Petrarca si rivolgeva a un pubblico di dotti di elevata cultura e nelle raccolte epistolari (Familiares, Seniles, Variae, Sine nomine, Metricae) esponeva problemi morali, religiosi, dava sfogo ai sentimenti, lamentava la corruzione della chiesa. Lo scrittore proponeva anche un ritratto ideale di sé o quale voleva apparire ai contemporanei. Si dichiarava nemico del danaro «perché detestavo la preoccupazione e le seccature che sono compagne inseparabili dell'essere ricchi» ed esprimeva la disposizione ad evadere dal tempo presente per rifugiarsi nella quiete del mondo antico:

Tra le tante attività, mi dedicai singolarmente a conoscere il mondo antico, giacché questa età presente a me è sempre dispiaciuta, tanto che se l'affetto per i miei cari non m'indirizzasse diversamente, sempre avrei preferito d'esser nato in qualunque altra età; e questa mi sono sforzato di dimenticarla, sempre inserendomi spiritualmente in altre.

Parla del proprio io, delle perplessità, dell'accidia che lo governano, della «instabilità comune a tutti gli affetti umani», della catena dell'amore:

Fu già nella mia vita passata una donna, chiara di molte virtù e nota per l'illustre sangue, cantata e resa dappertutto famosa dai miei carmi; […] ella, sebben ferita, protendeva la mano sul fuggitivo suo servo e dolorosa lo inseguiva, volgendo a lui gli occhi soavemente splendenti e allettandolo con i celati ardori e le dolci armi; […] spesso anche, oh maraviglia!, per la chiusa porta irrompe nella mia camera nel cuor della notte, sicura di riprendere il suo schiavo; le membra mi si gelano e da tutte le mie vene improvvisamente il sangue corre a proteggere la rocca del cuore; […] mi sveglio tremando e versando un fiume di lacrime.

In un'altra lettera scrive che nulla ha presa sul suo animo quanto gli esempi degli uomini famosi:

Come infatti gravemente m'infastidisce la vista dei contemporanei, così il ricordo degli antichi, le loro famose gesta e gli illustri nomi mi riempiono di una gioia incredibile, immensa, che se fosse nota a tutti, susciterebbe stupore del fatto che io mi diletti a stare coi morti piuttosto che coi vivi.

Petrarca disdegnava il volgare e riteneva che i posteri lo avrebbero riconosciuto poeta epico come autore dell'Africa, poema in esametri incompiuto che esalta Scipione e deriva dalla narrazione liviana. Il poeta rende astratti i Romani, troppo perfetti, e i Cartaginesi troppo malvagi. La natura del Petrarca si esprime solamente nei passi elegiaci dell'amore di Sofonisba e Massinissa e nel lamento di Magone prossimo a morire che piange sulla sorte degli uomini e sulla caducità della vita.
Più interessante degli scritti eruditi (De viris illustribus, Rerum memorandarum) o allegorici (Bucolicum carmen) è il Secretum (1342-43), dialogo in cui sono interlocutori l'autore e Agostino: il vescovo di Ippona indica i difetti di Petrarca (superbia, lussuria, accidia, incapacità di superare con la volontà le incertezze) e la vanità dell'amore terreno

(Colma pure la tua piccola donna di quante lodi vorrai, […] la sua grande virtù non gioverà minimamente a scusarti dell'errore; […] certamente quando ricordi che ella ti ha irretito in infinite fatiche, questo sì, che è vero).

L'opera è assai importante per il modo in cui Petrarca rappresenta l'introspezione dell'animo e il rapporto di valori umani e religiosi che lo scrittore pone. Alla tranquillità dell'animo che si raggiunge con la solitudine e la vita monacale sono dedicate le operette ascetiche De vita solitaria (1346) e De ocio religiosorum (1347): è una tranquillità dell'animo che consente il godimento degli studi nella libertà dalle cure familiari e politiche, non è fuga dal mondo e dai valori terreni. Anche nel De remediis utriusque fortunae l'ascetismo — che è soprattutto contrizione e contemplazione dei propri errori — non riesce a soffocare le inclinazioni verso i diletti mondani. Dell'avversione del Petrarca alla scienza e alle scuole del suo tempo sono documento le Invectivae contra medicum (1355) e il De sui ipsius et multorum ignorantia (1367) contro giovani filosofi i quali a Venezia lo avevano definito «virum bonum, immo optimum, eundem tamen illitteratum prorsus et idiotam». Quest'ultima opera è contro l'averroismo. La filosofia di Petrarca — che ebbe scarsa facoltà speculativa — è quella di Platone (conosciuta attraverso Cicerone e Agostino) che egli accosta al cristianesimo. Era una preferenza psicologica in cui egli rifletteva le incertezze, le perplessità dell'animo, la sua voluptas dolendi, lontane dalla rigida sistemazione della filosofia scolastica quanto dalla dialettica del pensiero.
Al desiderio di riconquistare una cultura autonoma mira il Petrarca cultore di studi classici, scrittore di lettere a Cicerone, Quintiliano, Seneca, Orazio, Virgilio, Omero, nel cui mondo si sentiva trasferito. Era il mondo dei valori di saggezza stoica, non in disaccordo con i valori cristiani. Tuttavia Petrarca comprese la necessità di cancellare le interpretazioni errate che nel medioevo si erano date della cultura classica, gli atteggiamenti di cavalieri medievali che erano stati imposti a Cesare, Achille. Rivendicò anche la poesia contro la condanna di Platone e le riserve dei moralisti cristiani, preferì la bellezza formale dei classici alla monotonia dei salmi di David, inaugurò la critica diplomatica per dimostrare false epistole pretese di Cesare e Nerone. Nella cultura classica, alla quale si accostava non come erudito, il Petrarca vedeva un ideale di spiritualità aperta, una comunione di sentimenti con le proprie tendenze.

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