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Le opere minori
La Vita nuova è un «libello» giovanile in cui Dante raccoglie un gruppo di rime (venticinque sonetti, quattro canzoni, una stanza, una ballata) scritte intorno al 1293, dopo la morte (1290) di Beatrice. La genesi delle rime è spiegata dalle prose che le commentano. Gli avvenimenti narrati adombrano anche significati simbolici. Dante all'età di nove anni incontra Beatrice che rivede dopo nove anni ricevendone un dolcissimo saluto che gli fa toccare «tutti li termini de la beatitudine
». Per mantenere il segreto dell'amore verso Beatrice — un amore delicato in cui la donna è circonfusa di gentilezza, innocenza, onestà e sembra venuta «di cielo in terra a miracol mostrare
» — Dante finge di essere innamorato successivamente di due donne che fanno da «schermo
» all'amore. Ma la finzione inganna Beatrice la quale gli toglie il saluto e, anzi, in una festa nuziale, si beffa di lui. Dopo di allora Dante, per consiglio delle amiche di lei, invece di descrivere in versi le proprie pene esalta le virtù di Beatrice creatura sovraterrena.
La morte di Beatrice è preannunziata da un sogno in cui il poeta vede la donna amata salire al cielo in forma di nuvola. Qualche tempo dopo la morte di Beatrice «una gentile donna giovine e bella molto
» ha pietà del dolore di Dante il quale è combattuto tra il conforto che riceve da essa e il ricordo di Beatrice. L'amata riappare al poeta in una «mirabile visione
», nell'empireo di luce, la quale gli fece proporre «di non dire più di quella benedetta
» fino a che non avesse potuto «più degnamente trattare di lei
».
Il libello giovanile che traduce in arte il rinnovamento della vita del poeta per virtù di amore si svolge con i suoi simboli allegorici, con il codice stilnovistico della donna angelicata nella sovrastruttura cortese e feudale che si distende sulla cultura della borghesia comunale. Nel libello dantesco sono espunte le astrazioni, le elencazioni tratte dai repertori ma quasi costante è il processo di distacco dalla realtà attraverso le visioni, i sogni, le parole della Bibbia, il ricorrere del numero nove («la cui radice è solamente la mirabile Trinità
»). Con questa scelta Dante seguiva consapevolmente il codice borghese dell'amore e si portava oltre l'archetipo rituale, si avvicinava al doloroso sentimento che dell'amore aveva Guido Cavalcanti, ma nello stesso tempo reprimeva e conteneva — non senza qualche offuscamento di bellezza artistica — la libera espressione e i modi di comportamento di fronte alla donna.
Con diverse intenzioni artistiche e con diversi stati d'animo Dante dalla prima giovinezza agli anni dell'esilio compose delle Rime le quali rispecchiano la personalità multiforme del poeta. Dante vive in una società borghese comunale, partecipa da privato, oltre che da uomo politico, alle vicende attraverso le quali la borghesia si viene formando e come poeta egli esprime sia i momenti toscani, municipali, di quella realtà sia i tentativi di una cultura più aperta ma ancora fortemente condizionata dalle influenze della tradizione cortese, filosofica, dai modi espressivi di un'età che è in mutamento. Sicché la realtà ora è espressa con immediatezza di sentimento ora attraverso l'allegoria: le determinazioni artistiche sono tutte presenti nell'arte di Dante e se possono apparire sparse nelle singole rime hanno, invece, unità nell'insieme e adombrano i toni e i registri stilistici che si manifesteranno organicamente nel sistema e nella visione della Commedia.
Le Rime hanno origine da esperienze umane e stilistiche ma non possono essere ricondotte soltanto a repertori tecnici, stilistici perché in ogni aspetto estetico Dante rivela i caratteri di una personalità attiva e storicamente reagente alla realtà del suo tempo. Le Rime, scritte in diversi momenti della vita e del pensiero di Dante, si muovono tra il codice linguistico-sociale della tradizione e i tentativi di trovare espressione individuale. Alla giovinezza appartengono le «tenzoni
» con amici-avversari le quali, nella varietà dei temi (dalle questioni d'amore all'invettiva) indicano già le direzioni culturali del poeta. La più nota di queste tenzoni con Forese Donati (fratello di Corso e morto nel 1296), è uno scambio di tre sonetti per parte e ci riporta all'atmosfera della vita comunale. di una città in cui i protagonisti erano largamente conosciuti e caratterizzati per la loro personalità. La tenzone con Forese si svolge sul tono comico-realistico per dare rilievo espressionistico al mondo municipale in cui Dante e Forese vivono, per iperbolizzare vizi e difetti, segreti personali e familiari, per deformarli sì da rendere lo stile consono ai modi in cui per tradizione di vita comunale e locale avveniva lo scambio amichevole e pungente di vituperi.
Intorno al 1296 Dante compose un altro gruppo di rime che chiamò «
pietrose
» perché scritte per una donna dal cuore di pietra («
la bella petra
»). All'amore sensuale e violento per la donna insensibile riluttante («
questa scherana micidiale e latra
») corrispondono linguaggio aspro e immagini vigorose:
- S'io avessi le belle trecce prese,
- che fatte son per me scudiscio e ferza[…]
- farei com'orso quando scherza […]
- ché bell'onor s'acquista in far vendetta.
In questi componimenti (due canzoni, una sestina e una sestina doppia) Dante oltrepassa l'esperienza dello stilnovismo del «cor gentile
» e, sulla scorta del provenzalismo di Arnault Daniel, adopera tecniche poetiche complesse, antitesi violente, rime cupe per rendere la passione d'amore alla quale corrisponde una visione della natura inasprita in paesaggi uniformi e impenetrabili di gelo, pioggia, rocce, nella stagione invernale: «Similmente questa nova donna | si sta gelata come neve a l'ombra».
Il poeta, il quale ad un'inchiesta di Dante da Maiano sul maggior dolore amoroso aveva risposto che esso consiste nell'amare senza essere riamato:
- a mia coscienza pare,
- chi non è amato, s'elli è amadore,
- che 'n cor porti dolor senza paraggio
si richiama qui agli aspetti fisici, fenomenici della natura:
- Versan le vene le fummifere acque […]
- e l'acqua morta si converte in vetro
- per la freddura che di fuor la serra
per indicare il proprio patire per la «crudele spina
» e il proprio perdurare nell'amore:
- per ch'io son fermo di portarla sempre
- ch'io sarò in vita, s'io vivesse sempre;
[...]
-
Saranno quello ch'è d'un uom di marmo,
- se in pargoletta fia per core un marmo.
Da questa fermezza derivano le immagini dell'amore: «
barbato ne la dura petra | che parla e sente come fosse donna
»;
del desiderio di vedere nuda la donna amata:
- mi torrei dormire in petra
- tutto il mio tempo e gir pascendo l'erba,
- sol per veder do' suoi panni fanno ombra;
la passione della vigorosa lirica Così nel mio parlar voglio esser aspro.
Il tema dell'amore è dominante nel poeta il quale in un sonetto a Cino da Pistoia scrive di essere stato «
con Amore insieme — da la circulazion del sol mia nona
» e di sapere per esperienza che, spenta una passione, un'altra ne può sorgere violenta. Questo motivo dell'amore-signore è prevalente anche nella canzone
Tre donne intorno al cor mi son venute composta nei primi anni dell'esilio, allegorica, in cui le tre donne sono la Giustizia divina, l'umana e la Legge. Ma l'allegoria si fonde nel sentimento drammatico dell'esule il quale trae forza dalla propria rettitudine per sopportare l'esilio:
- l'essilio che m'è dato, onor mi tegno:
- ché, se giudizio o forza di destino
- vuol pur che il mondo versi
- i bianchi fiori in persi,
- cader co' buoni è pur di lode degno.
Un accenno all'esilio è anche in altra canzone detta «montanina
» dal luogo, il Casentino, in cui fu composta: «forse vedrai Fiorenza, la mia terra, — che fuor di sé mi serra, —vota d'amore e nuda di pietade
».
Nelle Rime, quindi, che non furono raccolte da Dante ma dai posteri, si riflettono molteplici interessi culturali e non pochi componimenti sono collegati con la biografia e con la vita morale dell'uomo, con la storia della formazione e della maturazione culturale. In questi versi sparsi sono le tracce rilevanti dell'allargarsi degli orizzonti danteschi dall'involucro del feudalismo cavalleresco a una realtà storica percepita personalmente in modo risentito sia nelle fratture che nella necessità di una ricomposizione. La filosofia è l'approdo dallo stilnovismo attraverso l'inglobamento del travaglio morale ed espressivo di Guittone: l'allegorismo delle canzoni filosofiche è la possibilità di creare spazi unitari ai motivi dell'amore, della speculazione (dell'esperienza di Cicerone e Boezio), della vita morale. Dante è ormai cantore di rettitudine e la donna-filosofia gli consente di accentuare, al di là del giovanile stilnovismo, l'unità dei temi alti e centrali. Al pubblico Dante si rivolgeva ormai, esperto di vita politica, delle disgrazie d'Italia, della disgregazione sociale, non soltanto come «fedele d'Amore
» ma come esule e filosofo che, vedendo bandita la virtù nello sfacelo della vita comunale, cerca una sintesi politica, culturale e umana nuova. La sintesi egli riuscirà a creare, nel rapporto con il passato ideologicamente unitario, nella Commedia.
Dante quando scrive il Convivio (1304-1307) è l'esule il quale, avendo sperimentato i disaccordi, le faziosità dei cittadini e dei fuorusciti, si trova a contatto con una realtà italiana diversa da quella della sua prima giovinezza. Il quadro politico dei Comuni e delle corti è disgregato, Dante vede la devastazione degli istituti e dei costumi, l'avarizia del clero e dei mercanti ma i punti che il filosofo fissa per potere riorganizzare la società sono: la cultura organica filosofico-scientifica della Scolastica, la fiducia in un rinnovamento palingenetico del mondo corrotto.
Il Convivio (spirituale banchetto in cui vivande sono le canzoni e pane i commenti) è un'opera dottrinale che cerca di razionalizzare culturalmente la realtà al di là dei dissesti evidenti. L'opera, un'enciclopedia delle scienze la quale avrebbe dovuto comprendere un trattato di introduzione e altri quattordici in forma di commento ad altrettante canzoni, rimase interrotta al quarto trattato, tre dei quali commentano le canzoni Voi che intendendo il terzo ciel movete, Amor che nella mente mi ragiona, Le dolci rime d'amor ch'io sona. Il trattato, perciò, non nasce nel chiuso delle mura di Firenze ma dal contatto con «innumerabili
» uomini che non avevano potuto avvicinarsi al sapere ed esprime la fiducia nella cultura e nella scienza, è il segno dell'ottimismo della volontà di Dante e della sua capacità intellettuale di organizzazione. Gli «innumerabili
» sono uomini colti che non conoscono la lingua latina e per i quali la scienza espressa in lingua volgare «sarà luce nuova, sole nuovo
» («darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce
»).
L'esilio come maturazione di personalità e conoscenza del reale, come avvicinamento doloroso a un mondo più vasto è presente sullo sfondo dell'opera:
… per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si estende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contro mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade.
L'opera scientifico-didascalica era indirizzata a un largo pubblico della società comunale e cortigiana e la sua struttura rispondeva pienamente ai canoni della cultura medievale. Destinazione e metodo, quindi, richiedevano l'uso del volgare, disprezzato dai depositari della cultura latina e da quanti «
commendano lo volgare altrui
» (provenzale e francese).
Una sorta di missione illuminatrice guida Dante nell'esporre i suoi temi a
principi, baroni, cavalieri e molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte […] volgari e non letterati.
I temi trattati sono collegati al concetto che della funzione della società e della cultura aveva Dante: l'interpretazione delle scritture secondo quattro sensi (letterale, allegorico, morale, spirituale), il numero e il sito dei cieli, gli ordini delle creature angeliche, l'esaltazione della filosofia (veduta come donna in cui discende la virtù divina), la nobiltà derivante dalla virtù e non dalla nascita, il desiderio di possedere come nemico della pace e dell'amicizia. Quest'ultimo punto è capitale per intendere l'ideologia politica e religiosa di Dante, l'Impero e il papato come istituzioni perenni attraverso le quali opera la Redenzione. Indispensabile all'eliminazione di guerre e discordie fra regni, città, famiglie è la
Monarchia, cioè uno solo principato, e uno prencipe avere […] si che pace intra loro sia, ne la quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s'amino, in questo amore le case prendano [soddisfino] ogni loro bisogno, lo qual preso, l'uomo viva felicemente: che è quello per che esso è nato.
L'elezione di tale monarca è stata affidata dalla Provvidenza al «popolo santo
» della «gloriosa Roma
». Il Convivio è opera pienamente medievale: la teologia e la fede risolvono i problemi metafisici ma anche la ragione, aiutata dalla filosofia, può contribuire, con gli scienziati e i filosofi, a ricercare la verità. Il filosofo più autorevole è Aristotele armonizzato con Tommaso d'Aquino. Un aspetto del carattere medievale del trattato è il metodo scolastico dell'esposizione procedente con esattezza sillogistica, risalente sempre alle cause prime delle cose e richiamantesi al sistema organico e chiuso (che, cioè, non consente deviazioni) della dottrina e dello spiritualismo certi e perenni del cattolicesimo medievale. Realtà e cultura sono indirizzate, in questo sistema, alla felicità dell'uomo religioso sulla terra, alla felicità eterna nel ritorno dell'anima a Dio. La dottrina è, anche qui, animata dai sentimenti personali di Dante e dall'espressione della vita interiore dell'uomo che colorano l'esposizione talvolta arida e minuziosa.
La prosa volgare di Dante vigoreggia nel modo in cui domina la materia dottrinale ma anche nei toni profetici, nelle allocuzioni ai lettori, nelle ammonizioni. Dietro quella prosa sono i maestri della dimostrazione (Cicerone, Quintiliano, Isidoro, Tommaso d'Aquino) ma in essa è, soprattutto, il desiderio di comunicare i motivi della virtù e della ragione nel quadro di una esperienza viva e sofferta sostenuta da una cultura cortese e unitaria.
Negli stessi anni del Convivio, e come esso rimasto interrotto, il De vulgari eloquentia esprime la consapevolezza critica di Dante di storicizzare la propria cultura nei confronti della tradizione e di essere presente nella cultura contemporanea. Le due opere nascono durante l'esilio e all'esilio si contrappongono come prodotti della rettitudine (nella nuova opera Dante cita se stesso come modello di poeta della rettitudine). Il De vulgari eloquentia è un trattato in latino rimasto interrotto al capitolo quattordicesimo del secondo libro (dei quattro che erano stati progettati). L'opera è scritta in latino perché indirizzata a un pubblico specializzato di dotti italiani e stranieri ai quali si rivolge con il metodo sillogistico e deduttivo, caratteristico degli scritti scientifici del tempo. Nel primo libro tratta dell'origine del linguaggio, della varietà delle lingue come conseguenza, secondo la tradizione biblica, della confusione seguita alla distruzione della torre di Babele.
Delle lingue che si parlarono in Europa Dante esamina quelle romanze di Francia, Provenza e Italia, diversificatesi per evoluzione naturale, per diversità di luoghi, per mutevolezza degli uomini. Alla loro variabilità come lingue volgari parlate Dante contrappone la grammatica, cioè le regole, norme fisse che consentono l'identità, la durata, l'inalterabilità della lingua come è avvenuto per il latino. Occorre, per chi scrive in volgare, perciò, far diventare grammatica ciò che è vario e mutabile. Dante si occupa della ricerca della lingua letteraria adatta alla poesia alta, problema che era stato anche dei poeti lirici che lo avevano preceduto. Nella ricognizione dei principali dialetti parlati in Italia Dante esamina quattordici dialetti che giudica tutti municipali, locali, non degni di essere assunti a veste dell'alta poesia d'amore. Quei dialetti erano adatti a esprimere la realtà quotidiana da un orizzonte determinato. La lingua dell'alta letteratura — che in sé riassuma i profumi che in ciascun dialetto si trovatici — non esiste nell'uso ma nei poeti d'arte i quali danno regolarità grammaticale al volgare. Sicché tale lingua ideale, illustre, che sarebbe la lingua di una corte di una nazione italiana, avrebbe anche la funzione di guidare nella loro evoluzione i linguaggi locali.
Prossima a questo ideale è la tradizione stilnovistica da Guinizzelli allo stesso Dante. Nel secondo libro si tratta dell'uso del volgare illustre nella poesia e nei soli argomenti per i quali è proponibile, data la sua elevatezza: amore, armi, rettitudine e stile tragico la cui forma più adatta è la canzone. Il trattato dantesco (tradotto e commentato da Gian Giorgio Trissino nel 1529) ha avuto grande importanza nelle discussioni sul problema della lingua ma, al di là di queste discussioni, è un documento insostituibile per lo studio dello stile della lirica del Due e del Trecento. Con esso Dante cercava di fissare delle norme stilistiche ideali (con il rischio dell'astrattezza e dell'aulicità) tenendo lo sguardo all'unità di lingua e cultura: posizione teorica importante che comportava un atteggiamento etico con l'evoluzione dallo stile dell'amore cortese a quello dell'esaltazione della virtuse dei temi nobili e tragici. Era una scelta razionale e collegata con la storia poetica di Dante stesso: non era la sola scelta possibile in quanto la linea della poesia popolaresca e di quella locale ne erano escluse e venivano considerate senz'altro subordinate e secondarie.
Nel trattato politico Monarchia in tre libri, scritto in latino perché rivolto a principi e uomini colti di diverse nazioni, Dante riprende motivi dell'ultima partizione del Convivio per definire caratteri e natura dell'Impero, sua discendenza da quello romano e suoi rapporti con la Chiesa, Probabilmente il trattato fu composto negli anni 1312-13. Nel primo libro Dante dimostra che il fine supremo del genere umano è lo sviluppo dell'intelletto nella conoscenza e nella pratica e che tale sviluppo può avvenire sotto la guida di un monarca universale libero dalla cupidigia, in quanto unico e universale, e perciò capace di osservare la giustizia da cui derivano pace e libertà. La cupidigia è per Dante il peccato più grave: essendo la giurisdizione del monarca limitata soltanto dall'oceano vengono meno in lui desideri e passioni.
La tesi del secondo libro è il pieno diritto del popolo romano all'Impero. Le ragioni addotte sono letterarie (virtù di Enea, miracoli ricordati dagli storici romani e attestanti l'aiuto ricevuto dalla divinità, fondamento giuridico dello Stato romano arante di pace), filosofiche (vittorie militari intese come giudizio di Dio su chi debba comandare e chi essere governato), religiose (Cristo volle nascere e morire suddito di Roma della quale riconobbe l'autorità).
Il terzo libro contesta la tesi ecclesiastica della subordinazione dell'Impero al papato e rivendica l'origine divina dell'autorità imperiale. Per Dante il papato non può dare all'Impero ciò che dell'Impero è la specifica essenza, l'autorità temporale. Le due autorità derivano ciascuna direttamente da Dio e sono indipendenti l'una dall'altra pur mirando a dare agli uomini, in sfere diverse, la felicità. In un impianto completamente medievale fondato sull'assoluta riduzione all'unità Dante trasferisce in quest'opera le conseguenze della contesa tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello nonché quelle dell'affermarsi dello Stato e le speranze riposte in Arrigo VII del ristabilimento della giustizia e della pace. I presupposti assoluti e generalissimi di Dante — l'Impero universale con un solo monarca — negano lo Stato monarchico (avverso all'Impero), il particolarismo dei Comuni (contrastante con l'unità dell'Impero), la teocrazia e l'invadenza del papa nella vita dei Comuni.
La Monarchia è rigorosamente scolastica nella sua astrazione che, tuttavia, è collegata con le idee dei movimenti rinnovatori: di fronte alle scissioni, alla corruzione, all'avarizia Dante rifluisce sempre in un principio assoluto, unitario, morale, incorruttibile che nel trattato è la monarchia universale sede di quella giustizia che i movimenti rinnovatori auspicavano da una totale palingenesi.
Nel trattato tace il dolore dell'esule che era attentissimo, invece, nelle sue peregrinazioni agli avvenimenti politici che avrebbero potuto domare l'ingiustizia dei fiorentini, le prepotenze del papa, riportare la concordia in Italia. La condizione di Dante è quella di un esule, vinto e non ascoltato, che spera in un risanamento e in una mutazione. Le sue epistole in latino sono, in parte, dei manifesti politici in favore di Arrigo VII che nel 1310 veniva in Italia per essere coronato imperatore a Roma e per portare pace tra le fazioni nemiche. Una prima epistola è indirizzata (1310) ai principi e popoli d'Italia perché accolgano Arrigo come un redentore, una seconda (1311) è contro i fiorentini «scelleratissimi
» che ad Arrigo si oppongono, una terza (1311) è per Arrigo affinché si affretti contro la città ribelle. La morte improvvisa di Arrigo (1313) a Buonconvento fece cadere le speranze di Dante di tornare in Patria. Quando nel 1315 agli esuli fiorentini fu concesso di tornare in patria purché pagassero una multa e fossero offerti al santo patrono della città, Dante scrisse un'epistola a un amico per dire che non era quella la via del ritorno in patria. Altre epistole importanti sono quelle indirizzate a Cangrande della Scala (con la dedica del Paradiso), ai cardinali italiani alla morte di Clemente V (1314) perché eleggano un pontefice che riporti la sede papale a Roma, a Cino da Pistoia, al marchese Moroello Malaspina, a Margherita di Brabante, ai conti di Romena etc.
In esametri latini sono le due Egloghe con le quali Dante negli ultimi anni ravennati rispose al maestro bolognese di retorica Giovanni del Virgilio il quale lo aveva invitato a scrivere in latino e a dimettere l'uso del volgare. Dante nei due componimenti esprime la speranza che l'opera in volgare lo faccia incoronare poeta in Firenze e rifiuta l'invito di recarsi a Bologna per timore dell'ira dei guelfi. Infine si ricorda come documento della capacità di argomentazione filosofica di Dante una trattazione in latino, Quaestio de aqua et terra, tenuta a Verona nel 1324, in presenza del clero, per dimostrare che l'acqua non può essere più alta della terra emersa.