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La narrativa fra tradizione e sperimentalismo
Uno degli aspetti caratteristici successivi alla cultura della neoavanguardia è, dopo il mescolamento di generi, stili, strutture, tendenze, la sofisticazione letteraria. La letteratura ha perduto fissità e specificità che ancora aveva ed ha acquistato dall'assimilazione dei linguaggi della psicanalisi, dell'antropologia, della sociologia etc.
una sensuosità imprecisa e ricercata, ancora in via di formazione; industria e mass-media, inoltre, ne hanno alterato le strutture (ma su questo ritorneremo più avanti). Le metamorfosi che opere antiche assumono per opera di adattamenti, travestimenti, tagli, manipolazioni sono di solito prive di motivazioni, non rispondono a esigenze culturali.
Il muovere - spesso, nella critica - dalla contemporaneità per misurare il passato senza averlo storicizzato ha per conseguenza l'abnormità di certe interpretazioni. Ma anche questi fenomeni si accompagnano a ciò che è in fieri nella storia e nella cultura. Accanto alla letteratura che cerca i modi in cui svolgersi nella società di oggi, abbiamo la letteratura che si svolge dai suoi
precedenti involucri.
Ricordiamo tra i narratori Mario La Cava (1908-1988) di Bovalino Marina che dalla vena di moralista di Caratteri (1939) è venuto acquistando misura di narratore sociale con I fatti di Casignana (1974) che narrano l'occupazione di un bosco da parte dei contadini poveri della Calabria jonica e l'intervento sanguinoso delle squadre fasciste; Mario Tobino (1910-1991) di Viareggio, autore di La brace dei Biassoli (1956) e di un romanzo sulla Resistenza, Il clandestino (1962); Dante Troisi (1920-1989) di Tufo (Avellino), vigoroso moralista nel Diario di un giudice (1955) e in I bianchi e i neri (1956) e narratore umano, problematico in La gente di Sidaien (1957), L'odore dei cattolici (1963); Mario Pomilio (1921-1990) di Orsogna, scrittore cattolico di romanzi in cui peccato e colpa non hanno possibilità di redenzione ma autore anche di La compromissione (1965), romanzo che sottolinea l'abuso del potere inteso come privilegio e l'incapacità dell'opposizione; Guglielmo Petroni (1911-1993) di Lucca, autore dell'autobiografico Il mondo è una prigione (1949) sulla detenzione nelle prigioni fasciste di via Tasso, di La morte del fiume (1974) testimonianza della fedeltà dello scrittore al mondo di Lucca; Giuseppe Bonaviri (1924-2009) di Mineo il quale dal Sarto della stradalunga (1954) a Martedina (1976), attraverso una serie di romanzi originali, è venuto sviluppando una sua visione cosmica e fantastica, poetica e sovrareale in cui è il riflesso esistenziale di un mondo distrutto dalla tecnologia; Antonio Meluschi (1909-1977) di Vigarano Mainarda, autodidatta che ha avuto Gorkij quale modello e la Resistenza come tema fondamentale (La morte non costa niente, 1946; Adamo secondo, 1952; La fabbrica dei bambini, 1955).
Possiamo soltanto accennare ancora a Nino Palumbo, Lucio Mastronardi, Luigi Santucci, Luciano Bianciardi, Giuseppe Cassieri, Silvano Ceccherini, Enrico Emanuelli, Fausta Cialente, mentre Elsa Morante (1912-1986) di Roma tende a un affascinante «romanzesco
», un mondo di passioni, di allucinazioni quasi melodrammatiche, il quale ha valore per il significato che racchiude e non per la sua realtà. Così è in Menzogna e sortilegio (1947) in cui il romanzesco è costituito dai sogni di grandezza e di amore, di passioni masochiste a cui si sono abbandonati i parenti di Elisa mentre in L'isola di Arturo (1957) simboli e miti accendono il rapporto di Arturo con l'isola di Procida, l'ammirazione verso il padre prima che ne scopra i vizi.
La Morante sente che la realtà è avversa e non conoscibile e le romanzesche invenzioni della scrittrice sono i tentativi di rendere oggettivo e coordinato ciò che è irreale e franto. Perciò allucinati sono certi aspetti della realtà descritti nei racconti dello Scialle andaluso (1963) mentre in La storia (1974), che descrive le vicende durante e dopo la seconda guerra mondiale di una famiglia romana composta da una donna, un ragazzo, un bambino e due cani, la scrittrice esprime la sua sfiducia nella storia («tuta la Storia — dice Davide — l'è una storia di fascismi più o meno larvati... nella Grecia di Pericle... e nella Roma dei Cesari e dei Papi [...] sèmpar e departut i liberi e gli schiavi... i ricchi e i poveri... i compratori e i venduti
») e la violenza che cade sui poveri da una «forza che non conoscono e che li falcia spietatamente, presentandosi eternamente, a tutte le generazioni, con il volto enigmatico di una sfinge
» (Luciana Martinelli).
L'esperienza della vita siciliana alimenta la narrativa di
Leonardo Sciascia1 (1921-1989) di Racalmuto fin dalle
Parrocchie di Regalpetra (1956) e
Gli zii di Sicilia (1958) in cui è una visione pessimistica intorno alla giustizia e alla ragione fondata sul passato. Nel
Giorno della civetta (1961) il giovane ufficiale settentrionale esperimenta la sua fede umana in strutture sociali scoraggianti mentre nel
Consiglio d'Egitto (1963) il borghese illuminato crede in un futuro migliore, contro l'aristocrazia e anche se lui stesso sarà giustiziato. Al libro «
giallo
» si richiamano
A ciascuno il suo (1964),
Il contesto (1971),
Todo modo (1975): il colpevole, però, sfugge sempre alla giustizia. La malavita siciliana, le degradazione della politica e della società, il «
contesto
» di responsabilità e di mafia che svolge chi comanda hanno creato in Sciascia un sentimento di pessimismo che nasce dalla ragione.
Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia (1977) non ha la struttura del libro «
giallo
» né deriva dalla storia ma dal testo letterario di Voltaire.
Il linguaggio narrativo della tradizione è dissolto nelle sue strutture sentite come inadatte da Antonio Pizzuto (1893-1976) di Palermo (funzionario della Interpol, questore, dotato di larga cultura, traduttore di Kant e classici antichi), fautore di una lingua «continua
» e di una misura narrativa corrispondente al ritmo di continuità che è nel flusso dell'esistenza. La narrazione di Pizzuto, con i suoi strumenti stilistici e formali e con l'abolizione di tante forme tradizionali è una sferzata sperimentale che dà una brusca impennata alla prosa. Questa, perdendo parecchi guarnimenti secolari, appare più lucida e metallica, arieggia la prosa dei futuristi. L'operazione di Pizzuto (in Signorina Rosina, 1956; Si riparano bambole, 1960; Ravenna, 1962; Paginette, 1964; Sinfonia, 1966; Testamento, 1969) è ritenuta da taluni critici un artificio privo di motivazioni e di finalità.
Dallo sperimentalismo di «Officina» passa alla narrativa (dopo essere stato poeta, funzionario dell'industria capitalistica di Olivetti e Agnelli) l'urbinate Paolo Volponi (1924-1994). La fabbrica è il motivo del romanzo Memoriale (1962) in cui il nevrotico Albino Saluggia riesce a sottrarsi allo spaventoso condizionamento sociologico e psicologico, a non farsi calamitare dall'alienazione che risucchia nel sistema e può organizzare la rivolta che, in quanto isolata e ideale, è una sconfitta. Nella Macchina mondiale (1965) Anteo Crocioni inventa una macchina che dovrebbe rimettere in ordine il mondo impazzito ma il romanzo è freddo, costruito più che rappresentato. Il Corporale (1974) racconta la crisi ideologica e la delusione storica di un ex dirigente d'industria ed ex comunista, Girolamo Aspri, mentre in Sipario ducale (1975) la strage di piazza Fontana del 1969 è osservata da un angolo di provincia quale è Urbino.
Il punto di vista di Volponi nello scrivere della fabbrica è quello della problematica borghese mentre l'operaio metalmeccanico calabrese Vincenzo Guerrazzi (1940) di Mammola, che lavora all'Ansaldo di Genova, vive drammaticamente, con linguaggio ironico e scatenato («Signori Bocca, Cederna, Moravia e Montale, Montini e Montanelli, e tutti gli altri, io, operaio metalmeccanico [...] da oggi mi ritiro dalla produzione, non ho più voglia di produrre per voi...visto che lavorare stanca ed è fatica immane, ho pensato di fare anch'io il vostro mestiere e da oggi mi dedico all'arte dello scrivere
») la propria condizione e rappresenta l'alienazione operaia in Nord e Sud uniti nella lotta (1974), Le ferie di un operaio (1974) e nell'inchiesta collettiva L'altra cultura (1975).
Al «Gruppo 63
» appartenne Luigi Malerba (1927-2008) di Berceto (Parma), antirealista, alla ricerca sperimentale, inventiva e bizzarra, di nuove vie espressive. Taluni esiti surreali e ironici rompono le strutture narrative tradizionali mentre i temi più recenti di Malerba (dopo Il serpente, 1966; Salto mortale, 1968: Il protagonista, 1973) tendono a vedere nel Potere una assolutezza metafisica incontrastabile (Rose imperiali, 1974).
Anche Stefano D'Arrigo (1919-1992) nei folti diverticoli di Horcynus orca (1975) in cui si distorce l'unità del romanzo getta la sua sperimentazione lessicale e sintattica, strumento della visione tragica unitaria che lo scrittore riesce a ricomporre anche attraverso miti antichi e moderni.
Estraneo alle mode e attento, invece, a scavare nella cultura del mondo meridionale e nei problemi meridionali con progressivo arricchimento artistico è Saverio Strati (1924) di S. Agata del Bianco (Reggio Calabria). Strati comincia a scrivere nel 1952 dopo essere stato muratore, autodidatta, allievo di Giacomo Debenedetti all'Università di Messina. Il tema del calabrese misero ed errante domina nei suoi romanzi, perciò i personaggi hanno accenti velati: il ragazzo di La Marchesina (1956) si meraviglia del mondo che viene scoprendo e reagisce con sensibilità in episodi teneri e delicati.
In La teda (1957) c'è la rappresentazione sociale di uno sperduto paese jonico in cui la gente vive tra le capre, in tuguri affumicati, nutrendosi di castagne: in quel paese alcuni muratori risvegliano la coscienza sopita dei contadini predicando la ribellione in nome della giustizia sociale.
Ma l'uomo di Strati, uomo del popolo, vuole entrare nella storia, compiere la sua esperienza, con la lotta contro il paese, il padrone, il costume familiare retrivo; è il simbolo delle popolazioni meridionali che prendono coscienza dopo essere rimaste per secoli soggette a stranieri, tiranni, pregiudizi e superstizioni. Strati accompagna la narrazione con la sua pietà umana, con la tenerezza di solidale, partecipe di dolori e affanni. Da un tempo all'altro — da qui la sua storicità — Strati contrappunta la via della speranza, di lotte, di sconfitte dei poveri della Calabria. Così dal Nodo (1965) a Gente in viaggio (1966), a Noi lazzaroni (1972) Strati osserva che il Sud si viene modificando nelle strutture ma che le vecchie ideologie sopravvivono, che i cambiamenti sono avvenuti in modo sbagliato: nella regione sono entrate cose e ne sono partiti uomini. Partenza dalla regione e miseria della regione sono collegate all'incapacità della dirigenza politica nazionale.
Gli uomini di Strati aspirano ad una vita civile ma ne sono continuamente ricacciati indietro. Lo scrittore non si rifugia nel mito alvariano di una necessaria realtà contadina ricca di valori, egli sa che se qualcosa è mutato con la fine del fascismo i «lazzaroni» emigranti dal Sud continuano a pagare per colpa di altri. Sulle vicende Strati distende un velo di accorato dolore non rassegnato che è la nota più viva della narrazione calabrese di questi anni. In tutte le sue narrazioni lo scrittore fa circolare, con strumenti linguistici anche dialettali idonei, l'ostinata volontà di trasformazione della realtà. Nel Selvaggio di Santa Venere (1977) i mali del Sud (emigrazione, clientelismo, mafia) sono confrontati con la vita delle città del Nord: protagoniste di questo capolavoro sono tre generazioni (il nonno, il padre Leo, il nipote) con la loro epopea tragica e negativa in cui si rispecchiano la brutalità della mafia con i suoi rituali e il suo codice e il desiderio di liberazione da un mondo violento e disumano.