Capitolo

21

Dalla Resistenza ai nostri giorni


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21 - § 6

La contestazione giovanile e la sua filosofia


Fortini, lo sperimentalismo, la neoavanguardia in modo assai diversi esprimono la reazione contro la fine del fronte della Resistenza e il dilagare della meccanizzazione in tutti gli aspetti della società e della vita. Il «sistema» industriale è condannato nella sua globalità, per gli effetti globali distruttivi che essa produce, dalla generazione del '68 e del '69 mediante la «contestazione». Tale generazione rifiutava il presente alienante, la storia che aveva generato quel presente accumulando mostruosità e banalità, ottimismi e distruzioni ma perpetuando il sistema. I giovani di quella generazione derivarono le loro idee da Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse e Walter Benjamin, da una scuola francofortese pseudomarxista, antimaterialista, velata di religiosità. I primi due comprendevano il mondo capitalista e quello socialista in una unica organizzazione sociale disumanante per il suo industrialismo. La sola protesta possibile contro la disumanizzazione dell'arte è la rivelazione della falsità della comunicazione. Perciò la protesta non può essere nei contenuti ma nel caos formale distruttivo della comunicazione normale, l'unico impegno consiste nel rendere note le negatività del reale. La protesta era indiscriminata e mirava a cancellare le ideologie dello storicismo e del capitalismo ma essa colse nel segno quando fece vedere che società dei consumi e democrazia non possono essere la stessa cosa, che il grande realismo non è esclusivo del solo naturalismo e che ogni poetica può esprimere in arte le tensioni di un momento sociale anche deformando il reale.
I molti «slogan» che accompagnarono la contestazione esaltarono l'immaginazione, contrastarono i falsi unanimismi (è di Franco Fortini la frase; «Sul Vietnam non ci si unisce, ci si divide!»), le figure criminalizzate dalla società (banditi, ribelli) vennero considerate nella potenzialità rivoluzionaria che poteva sussistere anche in momenti oscuri di rivolta; l'«orgia consumistica», sportiva di massa, la scuola perpetuatrice di certi «valori inutili», cinema, teatro, letteratura, strumenti di massa ideologizzati subirono pertinaci e puntuali contestazioni. Parve ai giovani di quegli anni di avere superato la scissione fra teoria e prassi e di essersi riappropriati della politica. Essi muovevano alimentati da grandi speranze ma sottovalutarono — nel loro necessariamente eccessivo ideologismo — il potere e l'organizzazione, non ebbero cura dei ceti medi che spesso in Italia sono determinanti, diedero peso (certamente per indicare un modello di costume opposto all'autoritarismo) più al permissivismo libertaristico che all'organizzazione del nuovo, combinarono malamente marxismo, psicanalisi e strutturalismo, dispersero il modo illuministico di fare politica, si consumarono in gruppetti preoccupati dell'autoconservazione. Al di là degli inevitabili limiti il movimento del '68 fu assai positivo: operò grandi cambiamenti nella società e nella cultura rimuovendo tradizionalismi, patriarcalismi e sessuofobie e, soprattutto, costituì la premessa delle battaglie civili delle donne, dei giovani e dell'avanzamento generale di qualche anno più tardi. Infatti il movimento diede coscienza dei limiti, della negatività del modello di sviluppo capitalistico italiano e dei suoi legami e integrazioni con quello internazionale.

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