L'ascesa politica del mondo popolare e la frantumazione di questo mondo (municipale, burgense, rurale etc.) compiuto dal neocapitalismo si riflettono nella letteratura dialettale. All'ascesa del mondo popolare sono legate le lotte per la terra, per le autonomie locali e, nella cultura, la polemica per un'arte neorealistica. In questa polemica non mancarono il facile populismo e la confusione tra dialettale e popolare: il favore dato in un primo tempo alla cultura dialettale costituì un mezzo per snaturarla e integrarla, per mascherare operazioni di letteratura astratta.
Il dialetto avrebbe potuto contribuire alla formazione, dopo la guerra, di una lingua nazionale in cui fossero entrati i valori sociali dell'originale cultura subalterna; ma la rinuncia politica a un grande confronto prima e il genocidio culturale attuato dai mass-media del neocapitalismo, dalle migrazioni interne dopo, hanno causato la frantumazione del dialetto. Oggi esiste un ritorno al dialetto: non riguarda il dialetto delle classi popolari ma delle classi medie e per usi più o meno convenzionali, non connessi con l'identità delle classi medie stesse.
Uno dei motivi della «difesa
» del dialetto è l'analogia con la lotta che conducono le minoranze etnico-linguistiche le quali, prendendo coscienza della propria individualità minacciata, rivendicano la liberazione dalla marginalità sociale. Queste minoranze avvertono la minaccia di essere cancellate come identità alloglotte dalla diffusione della cultura di massa, dalle comunicazioni standardizzate, dal modello capitalistico di società: quasi tutte queste comunità linguisticamente minoritarie vivono, infatti, in vallate, creste montane, zone agricolo-montane depresse. Tutelate sono soltanto le minoranze tedesche dell'Alto Adige, slovene della Venezia Giulia; ma i Greci di Calabria, pochissime migliaia di ultimi sopravvissuti, finiscono di esistere con la fine dei villaggi frananti (Roghudi, Corìo, Roccaforte del Greco, Gallicianò).
Delle altre minoranze (circa due milioni e mezzo di alloglotti compresi Sardi e Friulani) ricordiamo Valdostani, Ladini della zona dolomitica, Sloveni e Tedeschi delle vallate confinarie del Friuli, Albanesi di Calabria, Sicilia, Molise, Abruzzo, Greci del Salento, Franco-provenzali, Provenzali di Calabria, Zingari, Catalani di Sardegna, Serbo-croati del Molise etc. nonché minoranze di nuova formazione quali Arabi e Africani.
Difesa del dialetto e uso del dialetto per Pasolini (che cominciò a scrivere in friulano nel 1942 con Poesie a Casarsa) devono essere posti in rapporto con le strutture, non con le sovrastrutture:
Le classi subalterne — scriveva nel 1973 — parlano ancora in dialetto, ma è il dialetto italianizzato simile a quello della borghesia, ridotto a puro suono e privo di modelli culturali e corrispondenze affettive. Ha soltanto lo scheletro del dialetto perché il dialetto, questa lingua potenziale, ha perso espressività e non ha più il carattere gergale di una volta
;
Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto (e io proprio personalmente, sensualmente) in questi ultimi anni, c'è stata la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà
(1974).
Una parte della «seconda forma
» della Meglio gioventù, raccolta in La nuova gioventù (1975), rappresenta la coscienza della fine di un tempo rispetto alla «prima forma
» ricca di fiducia. La cultura antropologica italiana per Pasolini negli ultimi dieci anni della sua vita si è venuta completamente modificando: il vero pluralismo (cultura napoletana, friulana, romana etc.) è stato distrutto dal genocidio consumistico dell'italiano della televisione come il proletariato è stato distrutto, in quanto tale, dal consumismo economico.
Rapsodo moderno dei sentimenti popolari del mondo siciliano è Ignazio Buttitta (1899-1997) di Bagheria, autodidatta, condirettore nel 1927-28 di «La trazzera
», mensile dialettale palermitano. Nel 1954 pubblica Lu pani si chiama pani, poesie siciliane tradotte da Quasimodo. Certamente storico è l'incontro di Buttitta con il cantastorie Ciccio Busacca, diventato interprete del poemetto La morte di Turiddu Carnivali (1956) e di altre opere di Buttitta. Questo incontro ha dato un nuovo pubblico, popolare, di piazza, alla poesia di Buttitta tradotta in azione dal geniale cantastorie e diventata suscitatrice di emozioni di natura epica e drammatica.
Coralmente siciliana ed epica è la poesia di Lu trenu di lu sali (1963) in cui è cantata la vicenda di Turi Scordu, zolfataro di Mazzarino, analfabeta che muore nella miniera di Marcinelle nel Belgio. Senza lavoro (la fami lu circava | cu li carti di l'usceri; ), carico di famiglia, è il simbolo dei lavoratori meridionali che vanno all'estero per lavorare tra indicibili sofferenze. Buttitta dà tono epico alla partenza della famiglia per raggiungere Turi:
quannu fu supra lu trenu,
nun sapeva s'era ncelu...
si tuccava lu tirrenu.
Lu paisi di luntanu
ora acchiana e ora scinni;
e lu trenu ca vulava
senza ali e senza pinni.
Ciò che Buttitta tocca diviene canto geniale per i grandi sentimenti che suscita, sia che ricordi le devastazioni piratesche operate a Palermo dagli speculatori o il danaro corruttore della vita:
Ma l'amuri nun s'accatta,
nun si 'mpresta, e nun si vinni:
ogni matri nni lu duna
cu lu latti di li minni;
o le disuguaglianze sociali o la mafia.
Nella Vera storia di Salvatore Giuliano c'è la mimesi del sentimento popolare accompagnata, però, da un giudizio morale e politico netto e preciso per quanto riguarda il bandito. Il poemetto, vero capolavoro d'arte neorealista, intreccia la verità del movimento
separatista formato «di agrari, di patriotti, di rivoluzionari e mafiusi
» e il dolore umano che si leva dall'eccidio di Portella delle Ginestre:
lu cantastorie la vucca s'attuppa [la bocca si tappa]
supra lu focu ci metti la nivi;
ma si lu focu nivi la squagghia,
lu cantastorii metti ligna e pagghia! [e paglia]
cantando epicamente il trionfo della morte conseguente agli inganni compiuti dagli inganni «
di carta e di 'nchiostru
» e dei quali Giuliano è lo strumento:
La contralanza di la morti fannu,
'mbriacati di sangu, dilirannu [...]
Ma la morti camina e nu trova portu,
lu sangu chiama sangu e sangu agghiunci [aggiunge];
l'odiu passa senza passaportu
e la vinnitta o prima o doppu junci [giunge].
In questo poemetto su tutto domina il sentimento nazional-popolare di una Sicilia-madre, dignitosa e onesta, offesa da secoli da «mafia e baruna» e protesa a «rumpiri sti catini arrincitusi! [arrugginite]
». Buttitta coi suoi versi cerca il dialogo con gli uomini attraverso l'«esecuzione
» (la recita e il canto) della poesia: così il noto Sariddu lu Bassanu di La peddi nova (1963), I fratelli Cervi, I monaci di Mazzarino, le «storie
» di La paglia bruciata (1968) e di Il poeta in piazza (1974), esempi di vera cultura popolare.
Nel singolare (diverso dagli altri dialetti lucani) dialetto di Tursi, un paese del basso materano dove è nato (1916-1995), scrive Albino Pierro, le cui prime raccolte di poesie sono state in lingua. In queste raccolte sono i temi di quel mondo preistorico di cui il villaggio è per il Sud antichissimo un «sinolo»: anzitutto il paesaggio argilloso, tutto precipizi e burroni, poi il paese stesso, sfasciume e miseria flagellati dal vento, dalle piogge, impietrati nei riti millenari, nei silenzi notturni rotti solo dal parlare delle fontane, dall'urlare dei cani e dei lupi. Nulla di più antirealistico di questo paese di Pierro in cui castello diruto, lampada del convento, cimitero, case «distese come cadaveri
», veglie funebri, povere vite disperse sono simboli di una rovina e di un dolore esistenziali, di una cupaggine fatale da cui non c'è scampo. Un risolino assurdo e sardonico percorre l'aria e le cose, è nelle radici di quell'esistenza che si manifesta fenomenicamente come friabilità, polvere, fumo, acquitrino, arsura.
Il punto di partenza è il villaggio della memoria: «Coloro che non hanno radici, — scrisse Ernesto De Martino nella sua «testimonianza
» a Il mio villaggio (1959) — che sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell'umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l'immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l'opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale
».
Ciò ha fatto, appunto, Pierro con la sua apparentemente improvvisa opera poetica in dialetto tursitano 'A terra du ricorde, 1960 [La terra del ricordo]; Metaponto, 1963; I 'nnamurète, 1963 [Gli innamorati]; Nd'u piccicarelle di Turse, 1967 [Nel precipizio di Tursi]; Eccà 'a morte?, 1969 [Perché la morte?]; Ponine dorme, 1971 [Fammi dormire]; Curtèlle a lu sòle; Nu belle fatte, 1975 [Coltelli alla luce del sole; Una bella storia] — che in sostanza è la continuazione di temi e motivi già esistenti nell'opera in lingua.
Nel 1959 Pierro scopriva che per mezzo del dialetto poteva identificarsi con un mondo trapassato e immobile nella sua arcaicità, simbolo dell'essere che soffre. L'identificazione lo metteva in rapporto diretto, anche, con una forza di natura, col frammento di essere che è Tursi ma in quanto ricordo, mito, simbolo di un'esistenza agitata da un vento eterno, da cadute di frane, da gridi riecheggianti in burroni senza fine.
Il mondo tragico di Pierro ha in Tursi la fonte (realtà, forza di natura) e lo strumento (miti e dialetto). Tursi è l'Essere tragico che si diffonde dovunque, lo stesso paese è « nu ggihòmmere nivre di paise | ca stè pirenne e parète nd'u fosse | un morte-accise
» [un gomitolo nero di paese | che sta perendo e sembra nel fosso | un morto-ammazzato].
La fenomenologia dell'Essere (inconsapevole; nessuno sa il perché « e manche u Pataterne, mbàreche
» [e nemmeno il Padreterno, forse] ) è la morte delle persone, i giorni « sciancati
» (« sti iurne scianghète
»), «'a mazze | di nu furgère, | ca [...] | ti sciòllette ncolle
» [la mazza | di un fabbro | che [...] | addosso ti crolla], la mano che di notte « m'ancàppete di capille | e mi scutunnìtte forte forte | com'a nn'àrbere sicchète
» [mi afferra per i capelli | e mi scuote forte forte | come un albero secco], i rumori «ca pàrene accettète | nda un cascione vacante
» [che sembrano colpi di accetta | in un cassone vuoto], le mani «ca fène a stozze u soue
» [che fanno a pezzi il sole], pietre che « notte e ghiurne, mi fischene nturne
» [notte e giorno, | mi fischiano intorno], « u porc ca scamàite| cch'i grire c'arrivàine a la Pullère
» [il porco che strepitava | con le grida che arrivavano alla via Lattea] etc..
Questa innumerevole fenomenologia tragica è dialettizzata nel rapporto vita-morte in immagini anche di iridata bellezza con un costante accrescimento di rime e assonanze fino a
Nu belle fatte, un canzoniere d'amore-passione che non ha l'eguale, per impeto e struggimento, nella nostra lirica.
Anche qui la fonte della vitalità, dell'angoscia e della gioia è la primordialità etnica, ctonia del Sud, fisica e metafisica, al di qua del mondo della storia:
e tutte quante ti suchére, u sagne,
nda na vìppeta schitte e senza fiète
[e tutto quanto te lo succhierei, il sangue, | in una sola bevuta senza prendere fiato];
Ci ha' stète averamente, e ferme,
addi mi,
com' 'a pétre nd' 'a càvece
[Ci sei stata veramente, e ferma, | da me, | come una pietra nella calce].
Le immagini di questa poesia pietrosa sono espressionistiche anche nella tenerezza: la donna per la quale i sassi della strada sono specchi in cui dondola con le foglie di papaveri: «
cchi frunne d'i scattabotte »; la donna che è piuma rosata sopra il fiato del braciere: « si' na pinna rusète supr'u fiète d'u vrascére
».
In tutte le sue raccolte di versi Pierro denuncia virilmente l'assurdo, il dolore dell'essere, e attraverso il lamento funebre di Tursi giunge a una visione dell'esistenza insidiata, mancante, maniaca. Il protostorico dialetto tursitano, isolato residuo espressivo di un mondo abituato alla privazione, diventa strumento poetico e letterario di un'arte che solleva il negativo e il magico a significati storicamente emblematici del tempo nostro.
I componimenti di Tonino Guerra (1920) di Santarcangelo di Romagna (I scarabocc, 1946; La s-ciuptèda [La schioppettata], 1950; raccolti in I bu [I buoi], 1972), narratore e sceneggiatore cinematografico dei registi Antonioni e Fellini, portano alla luce, in un dialetto aspro, fortemente dittongato, la vita pesante di un «presente invecchiato
» (Gianfranco Contini). Tra fiaba e realtà crepuscolare di poveri, animali, inverni piovosi, botteghe con
quatar vasétt in mostra
s'un po' 'd pastéini d'orz
tachèdi
[quattro barattoli in mostra | con delle pastine di orzo | appiccicate];
matti vestiti da ciclisti, matti che fanno il verso ai gatti sugli alberi, lavoratori che non rimediano nulla
E' mi nonu e féva i madéun
e' mi ba e féva i madéun
mè a faz i madéun; os-scia i madéun!
Méla, disméla, al muntagni ad madéun
a mè la chèsa gnént
[Mio nonno fabbricava mattoni | mio padre fabbricava mattoni | anch'io faccio mattoni, ostia i mattoni! | Mille, diecimila, montagne di mattoni | ma a me niente casa],
si avverte un mondo disarticolato, smembrato, in cui la presenza umana, intimisticamente o bizzarramente sentita, accentua la penosa capricciosità che lo sorregge.
Negli anni Sessanta il capitalismo industriale sviluppato irrompe — dopo lo sfruttamento della forza-lavoro e la repressione degli anni Cinquanta — modificando le strutture provinciali residue della vecchia Italia. L'irruzione è accompagnata dall'istruzione scolastica, dall'informazione culturale dei «mass-media
» che ha raschiato la cultura caratteristica della piccola e media borghesia lasciando questi ceti in balia del frastornamento di televisione, pubblicità, rotocalchi. L'alluvione industriale portava via quella cultura di scarso ethos civile e vi sostituiva, tutto travolgendo, il discorso astratto e spezzettato, fatto di «slogan
», interviste, tavole rotonde, luoghi comuni, formule gergali, enunciati non motivati etc. , finalizzati al consumismo. La lingua italiana ne era stravolta come stravolta era la società degli anni Settanta nella quale le riforme mancate e il distorto sviluppo del capitalismo preparavano l'organizzazione del caos neofascista.
Negli Scritti corsari (1975) Pasolini denuncia la rivoluzione antropologica originata dal potere consumistico transnazionale, la cultura di massa legata direttamente al consumo, la sostituzione della cultura interclassista a quella di classe, la fine della religiosità della campagna, la libertà sessuale ufficiale in funzione dell'edonismo, la nascita di un nuovo fascismo industrial-consumistico non meno pericoloso del primo fascismo. La sua visione del consumismo era quella di un «cataclisma antropologico
» che accentuava in lui la «forza centrifuga eretica
», la disperazione attiva di lottare contro lo status quo, contro la falsa tolleranza distruggitrice, il falso laicismo, il falso razionalismo del potere consumistico e permissivo. Una lacerazione apocalittica era cominciata per lui dieci anni prima, quando scomparvero le lucciole dai campi e con quel tempo caddero le virtù popolari contadine e religiose nonché la borghesia paleoindustriale di origine contadina; furono allora in breve tempo omologati popolo, borghesia, operai e sottoproletari, finirono le minoranze e le diversità, i modelli di felicità e il sorriso, le culture particolari, l'espressività della lingua (impoveritasi e diventata tecnicistica e funzional-comunicativa).
Da questa lacerazione derivano i rimpianti di Pasolini per l'immenso universo contadino e operaio del presviluppo, per il mondo della povertà che sentiva sacra la vita umana, deriva la lotta contro lo Sviluppo capitalista perché si torni indietro per evitare l'avvento di un «potere borghese ormai destinato a essere eterno
». In La recessione (versi in dialetto friulano tradotti dallo stesso poeta in La nuova gioventù, 1975) Pasolini si augurava che non ci fossero più motori, i lavoratori tornassero da Torino o dalla Germania nei paesi, le città fossero piene di gente che va a piedi, le fabbriche cadessero «sul più bello di un prato verde, nella curva di un fiume, nel cuore di un vecchio bosco di querce [...] un poco per sera, muretto per muretto, lamiera per lamiera
». Pasolini parlava per paradossi per fare scoppiare le contraddizioni ma la sua visceralità si esprimeva in un quadro lucido, organico, animato dall'assolutizzazione, dal sentimento tragico, dalla sofferenza personale. Nel dicembre del 1974 Pasolini annunciava che era «nato l'italiano come lingua nazionale
», quella della tecnica, e che aveva come centri creatori non le università ma le aziende delle città del Nord dell'asse Torino-Milano. La tecnica era il fatto «spiritualmente nuovo nell'uomo e nell'italiano
».
La nuova borghesia italiana si accompagnava all'avanzamento del capitalismo europeo, diventava neocapitalistica e tecnocratica, il suo linguaggio era «brutalmente tecnocratico
». In Volgar'eloquio (1976, postumo) — ultimo vasto intervento organico prima della morte — Pasolini sostiene che la falsa tolleranza concessa dal consumismo genocida è alla base del conservatorismo effettivo che mantiene il dialetto sotto la coltre ufficiale della didattica della scuola media dell'obbligo dopo che è stata spenta la matrice popolare dialettale sicché il dialetto non è più una realtà culturale ma una sopravvivenza. Le parole del consumismo hanno distrutto le parole dialettali che il fiorentino letterario non aveva potuto distruggere perché le parlate locali lo ignoravano. C'è stata anche la distruzione dell'equilibrio psicologico e umano sottoproletario che si esprimeva nella «felicità
» inventiva e creativa degli abitanti delle borgate i quali ormai soffrono per l'impossibilità di realizzare il modello piccolo-borghese loro offerto.
Il nuovo potere produce rapporti sociali tendenti a creare non cittadini ma benestanti-consumatori; ma nonostante questa situazione Pasolini afferma l'esigenza di lotta, da parte dei giovani «esistenzialmente
» consapevoli, contro «l'accentramento linguistico e culturale del consumismo
». Non c'è drammatizzazione in queste parole ma in ogni caso la drammatizzazione del negativo mirava in Pasolini a suscitare reazioni di scandalo, a condannare gli orrori dell'universo capitalistico, ad avvalorare la necessità di ricostituire in modo diverso i rapporti umani.
Pasolini, nel quale si riflettono diverse contraddizioni del suo tempo, preannunzia la riduzione del cittadino a consumatore. Non è il solo. Anche Calvino si accorge che è in opera una mutazione del vivere e della visione del mondo da umanistico-letteraria a scientifica e vuole trarne le conseguenze letterarie.
Le mutazioni politiche e sociali sono state universali negli anni Ottanta. La caduta del muro di Berlino, la dissoluzione del mondo sovietico, la rinascita delle lotte per le nazionalità e le etnie hanno avuto profonde conseguenze culturali. In Italia la fine del regime democristiano che aveva avuto i suoi sostegni in alleati di comodo ha messo in luce le false ideologie che servivano da paravento a interessi affaristici.
La narrativa successiva alla morte di Pasolini non ha rivelato la sensibilità profetica di lui. Gli scrittori snodano dalla loro storia anteriore, come è naturale, le vicende; così dall'ultimo Bacchelli dalle grandi ambizioni di classificazione storica al Landolfi della scansione teatrale, al Pomilio della valorizzazione dei fermenti attivi della tradizione, alla dispersione dei piccoli fatti di Ottieri, al poema pedagogico di Primo Levi, al controllo critico di Chiara, al coro del mondo contadino di Bonaviri, alla scrittura storica a chiocciola di Console, all'attività narrativa di tanti nuovissimi.
La reazione a ciò che è accaduto nel mondo è scarsa o inesistente. C'è il tentativo (favorito dall'industria culturale) degli scrittori di uscire dal terreno consueto per essere visti, letti (secondo la perversa legge del mercato), di diventare attori (o vittime) dei processi di orientamento del consenso. Non vale la pena di soffermarsi sui casi numerosi in cui scrivere vuol dire esibirsi, perché l'esibizione è prevaricazione antidemocratica e anticulturale. La telecrazia politica al governo della nazione è antiegualitaria.
Importa sottolineare la caduta delle ideologie e delle poetiche quali strumenti capaci di scavare nel razionale. Il risultato è un imperante manierismo, una pasticceria di termini impropri, non pertinenti, astorici e di pseudo concetti. Le contaminazioni delle angosce senza dramma, delle ambiguità, dei rovesci avvengono in un clima di consapevole putrefazione e di stanchezza. La passione ideologica non dà calore al verbo delle avanguardie, la lingua della letteratura è quella piatta della comunicazione quotidiana, le lingue laterali hanno perduto vigore perché la vera passione minoritaria dei valori e delle radici è caduta.
Prevale in tutto il combinatorio, prevale la struttura con moduli di vario colore (intrigo, tempi e luoghi diversi, storia lontana, letteratura raffinata, biblismo etc.): così è stato per Il nome della rosa di Umberto Eco. C'è un pubblico della società di massa che attende nella sua varietà la quota parte di abilità letteraria dello scrittore che gli è dovuta (come una confezione di un mercato aziendale) ma ciò non avverrebbe se il pubblico del manierismo di massa fosse educato all'impegno civile, morale e non, invece, all'ossequio verso una politica industrial-consumistica in cui tutte le maschere trovano posto.
Questo gioco con le parole è il vecchio gioco del letterato formalista che salta sempre sul carro del vincitore, vecchio gioco che si rinnova in grande con i mezzi di comunicazione ridondanti e violenti. Una delle linee della storia letteraria da noi tracciata è quella che indica i trasformismi del vecchio letterato; l'altra è quella che indica ed esalta (chi scrive per la scuola non può non additare, con la forte mente, "il forte animo") gli intellettuali le cui ragioni sono anche nella costanza dei sentimenti verso l'umanità.