La poesia dialettale si sviluppa sulle tradizioni regionali e locali ma può avere una forte carica sociale o di contestazione. In questo caso è, naturalmente, clandestina. Il fascismo avversò la letteratura e il teatro dialettale forse perché vide nel dialetto uno strumento adatto a esercitare la satira.
Il romano
Trilussa1 (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri, 1871-1950) colse oggettivamente, dall'interno della piccola borghesia, i modi in cui il potere condiziona la vita e in cui si camuffa. Il poeta, che recitava nei salotti, nelle osterie, nei teatri, visse in una Roma che il trasformismo, il potere amministrativo avevano resa priva della fiducia nella verità.Trilussa è già consapevole che ragioni di classe, di mercato, di economia, di politica deformano i sentimenti e presenta personaggi deformati i quali hanno assunto come verità le maschere e le parole false. Nulla può scalfire il sistema di falsità e Trilussa scrive, con un dialetto vicino alla lingua parlata, con un sorriso che sembra ambivalente, la propria partecipazione alla limitatezza dei piccoli personaggi. Egli mette all'ordine del giorno la confusione ideologica ma senza creare drammi; avverte lucidamente il carattere quasi congenito del moderatismo e del conservatorismo del potere, la necessità dei compromessi e delle mediazioni ma un punto è centrale nella sua visione: la facilità con cui chi esercita il potere definisce valore ideale ciò che ha utilità pratica. La casualità sembra dominare gli eventi: al ladro che chiede la grazia giunge come risposta la nomina a cavaliere; nella statistica: «
la media è sempre uguale | puro co' la persona bisognosa
» perché se questa non mangia il pollo assegnatole dalla percentuale «
t'entra ne la statistica lo stesso | perché c'è un antro che ne magna due
».
I punti di vista sono diversi a seconda del potere che si possiede:
Quando che senti dì "cleptomania"
è segno ch'è un signore ch'ha rubbato:
er ladro ricco è sempre un ammalato
e er furto che commette è una pazzia.
Trilussa vive penosamente la mancanza di fede,
i camaleontismi, i compromessi politici, il connubio tra frammassoni e preti:
ne viè ch'er frammassone va ar governo,
ce trova er prete e ce rimane eguale.
Se sa, l'ambizzioncella personale
je strozza spesso er sentimento interno:
è un modo de pensà tutto moderno.
La guerra è il trionfo delle più spietate ambizioni:
Ninna, nanna! Tu non senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che si scanna
per un matto che commanna!
che se scanna e che s'ammazza
a vantaggio di una razza;
o a profitto di una fede
per un dio che nun si vede,
o che serve di riparo
ar sovrano macellaro!
Ché sto coro di assassini
che ci insanguina la terra,
sa benone che la guerra
è un giro di quattrini,
che prepara le risorse
per i ladri de le borse.
Nelle
Favole (1922), in
Nove poesie
(1922),
Lupi e agnelli (1922) la constatazione della mancanza di
principi suscita amare riflessioni:
Le trappole so' fatte pe li ricchi:
ce vanno drento li sorcetti poveri,
mica ce vanno li sorcetti ricchi!?
Delusione e scepsi generano le ambivalenze qualunquistiche di chi si ritira nel privato e giudica tutto sullo stesso
piano: per avere il potere occorre seguire la corrente politica, la politica è falsa, il commercio è la realtà («
nun ciò più che una fede: la bottega, | nun ciò più che un pensiero: la vetrina
»); l'eroe della guerra combatte al caffè («
Tre sere fa, pe' prenne er Montenero, | ha rovesciato er cuccomo del latte!
»); lo speculatore «
unisce sempre ne la stessa fede | la Madre Patria co' la Madre Panza
».
In
La gente (1927) Trilussa prende le distanze dai punti di vista del militarismo per virtù del quale «
è proibbito d'ammazzà la gente | senza er permesso de l'Autorità
» e «
chi sparlerà del Re de la Foresta | sarà mannato ar tajo de la testa
».
Nel
Libro n. 9 (1929) critica le novità (confino, tassa sul celibato, saluto romano) del fascismo persuasore: «
ma appena s'affermò l'idea fascista | fecero tutti un cambiamento a vista
».
In
Giove e le bestie (1932) Trilussa deplora la corsa al servaggio di cortigiani, adulatori, leccazampe che si incanalano
(còr solo scopo de rimane a galla,
e tira avanti co' la convinzione
d'avé servito la rivoluzzione
)
esaltando la museruola:
Te la figuri un'epoca imperiale
co' i gatti che aspetteno la trippa
e l'avanzi incartati in un giornale?
Nel
Libro muto (1935) e in
Acqua e
vino (1944) regnano il silenzio e la paura («
Più che le parole, | ho imparato a sta' zitto»; anche il pappagallo «invece de di' viva dice fifa
») del dittatore il quale quanto più «cresce de potenza e de valore | più sa' li zeri che je vanno appresso
».
Trilussa osservava la realtà distanziandosi dal qualunquismo politico ma notandolo nei personaggi che rappresentava: prendeva coscienza così della realtà e della caduta dei miti e delle illusioni, era realista in tono ironico-sentimentale sceneggiando in fiabe e apologhi amare mediazioni e mancanza di fede camuffate dalla retorica.
Sconosciuto in vita fu il milanese Delio Tessa (1886-1939) autore di L'è el dì di Mort', alegher! (1932) e delle postume Poesie nuove ed ultime (1947). Il suo dialetto non ha niente a che fare con il provincialismo, è un modo espressionistico per rappresentare un mondo in
dissoluzione (Milano che attende dopo Caporetto l'arrivo degli austriaci) gravato da un incubo.
Il triestino Virgilio Giotti (pseudonimo di Virgilio Schonbeck, 1885-1957), trasferitosi a Firenze, autore di un Piccolo canzoniere in dialetto (1914), Caprizzi, canzonete e storie (1928), ha un'esile
e delicata vena poetica, ritratta nella sua malinconia:
Ma a noi, quel che 'na volta
se ga sintì, godù,
no' poi dàrnelo più
de novo nissun marzo.
Poeti di affetti domestici sono Biagio Marin (1891 - 1985) di Grado e Giacomo Noventa (1898-1960).
Vann'Antò2 (pseudonimo di Giovanni Antonio di Giacomo, 1891-1960) di Ragusa cantò in Voluntas tua (1926) la vita dei contadini
e minatori ragusani. Il retroterra di Vann'Antò era il mondo derelitto dei lavoratori
che conservava usanze pagane e paleocristiane, che si affacciava all'umanitarismo
socialista. La guerra accentuando dolori e patimenti chiarì le contraddizioni
della loro vita e Vann'Antò interpretò i motivi del lavoro e della guerra in un
dialetto difficile, forte, dittongato, popolare, che esprime in battute, scene,
dialoghi, motti, sarcasmi la tensione drammatica:
Quannu parrunu amurusi […]
la patria manna la benedizioni
a li fanti cciù miégghiu e valurusi
[quando i superiori sono benevoli e la patria
benedice i fanti migliori e più valorosi] è segno che la strage si avvicina;
[...]
Ci happi a 'ssiri grannissima
scunfitta!
Uocci nisciuti, bucchi sfracellati
vidu, piezzi ri testa…
[ha dovuto esserci grande sconfitta! Vedo occhi
fuori dalle orbite, bocche sfracellate, pezzi di testa].
Trent'anni dopo Vann'Antò in U vascidduzzu («Il vascello d'argento
», 1956) si trovò in prima linea nella lotta contro una nuova guerra in un impegno totale:
mmarditta verra, sempri stu nfiernu
stu municipieddu apiertu addumatu!
pi n'aternu cunnannatu
[maledetta guerra, sempre quest'inferno, questo Mongibello aperto, acceso! condannato eternamente a gettare fuoco].
Il dialetto è usato in funzione politica nei canti che nascono nelle prigioni fasciste, in qualche satira pubblicata su «Libera
stampa
» di Lugano.
Espressione potente e rude della vita contadina repressa dal
fascismo è la poesia contestativa di Pasquale Creazzo (1875-1963) di Cinquefrondi
(Reggio Calabria), interprete dei lavoratori della Piana di Rosarno e di Palmi.
Fin dai primi anni del Novecento Creazzo venne organizzando sezioni socialiste
e contadini. Cresciuto in una società contadina ridotta all'estremo di miseria
e all'emigrazione, aiutò i contadini a ritrovare la propria identità scissa e
alienata. Studiò il dialetto come strumento di conoscenza della vita contadina
per trovare la capacità di dare forma artistica alla volontà di una popolazione.
Attraverso le antitesi rivelatrici della divisione della società in classi e
attraverso l'uso di una lingua espressionistica, canzonatoria e agitatoria
riuscì a creare un'arte dialettale come arma culturale perché il popolo potesse
liberarsi dalle catene.
Comunista nel 1921, perseguitato e incarcerato durante
il fascismo, fondatore di un gruppo marxista rivoluzionario nel secondo dopoguerra,
Creazzo è stato creatore di una cultura rivoluzionaria di massa, un poeta
dialettale nuovo in tutti i suoi livelli espressivi. Pubblicò in fogli volanti,
opuscoletti i versi dei quali non esiste una raccolta»; molti versi ebbero circolazione
clandestina. Nel 1927 zappatori, braccianti, contadini della Piana ripetevano a
memoria Lu zappatori, un grande canto aspro anche per le molte rime
cupe, insistente sul contrasto di classe fra padrone e zappatore, disperato e amaro
nella constatazione delle abnormi disparità, canto di denunzia, di disperazione
rabbiosa, di rappresentazione del mondo dei padroni delle terre e degli ulivi:
Lu mpernu è fattu pe' li cafuni,
lu paradisu pe' li riccuni.
Pe' penitenza staju abbuzzuni [chinato]
fin'a chi campu cu stu zappuni!
Ma sù vedhanu, sù tamarruni,
sù pedhi [pelle] tosta, niru cafuni.
Il dirigente rivoluzionario fornisce con i canti elementi di lotta al proletariato; fornisce miti geniali interpretando in
senso rivoluzionario la tradizione religiosa secondo la quale santi-guerrieri
diventano protettori e difensori delle misere popolazioni afflitte da guerre,
pestilenze, terremoti, carestie. La lotta tra S. Michele Arcangelo e il Demonio
diventa nell'interpretazione di Creazzo la lotta tra proletariato e borghesia e
l'Arcangelo è trasformato in simbolo della rivolta dei poveri contro gli sfruttatori:
si ribedharu
li servi seculari
e spézzanu catini,
Mitra, Curuni e Artari!
Arcangialu di paci!
Sdarrupa [travolgi e
fai rovinare] Satanassu!…
Tu si' lu Socialismu;
Idhu [lui] lu riccu grassu!…