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I pedagogisti del costume borghese: Carlo Collodi, Edmondo De Amicis
Proposta educativa di perpetuazione del costume e della morale dominante è quella di
Carlo Collodi1 (pseudonimo di Carlo Lorenzini) fiorentino (1826-90). Collodi scrive
Le avventure di Pinocchio (1883) venti anni circa dopo l'unità d'Italia, quando le idealità di rinnovamento del giovane combattente del '48 e del '59 erano cadute al contatto con una realtà tanto diversa da quella di allora. Ma il deluso Collodi raccoglieva il gruzzolo di idealità nazionali di lavoro, di operosità, di sacrificio necessarie alla vita dell'Italia giovane.
Era la prima volta che le regioni si incontravano e le delusioni del combattente risorgimentale si risarcivano, in una diversa situazione storica, nelle nuove credenze. L'espansione del capitalismo dell'ultimo quarto di secolo dettava la pedagogia del sacrificio, del lavoro, della famiglia. Anche nella Toscana postunitaria la borghesia terriera e industriale propone l'ideologia del primato della classe borghese, delle sue virtù, della sua dirittura morale (lavoro, operosità, possibilità di ascesa, di promozione sociale) che è più vigorosamente — cioè pedagogicamente — difesa quando comincia a sorgere la classe dei proletari che la critica e le si oppone organicamente. Dalle società di mutuo soccorso si comincia a passare alle organizzazioni bracciantili.
Collodi raccoglie allora da moderato in funzione nazionale l'ideologia borghese, pone ogni riuscita nella laboriosità, offre il successo anche a colui che, di origine più che umile (vegetale, il pezzo di legno), con il lavoro, l'obbedienza, il sacrifizio, si sappia fare avanti. Il Franklin toscano fa dire all'ombra del Grillo parlante: «Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che ti promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o sono imbroglioni. Dai retta a me, ritorna indietro
». Anche l'illusione di diventare ricco in fretta — cioè saltando il lavoro — può essere pericolosa, Il Pappagallo spelato rimprovera Pinocchio quando questi crede «che i danari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagioli e le zucche
» e ammonisce che «per mettere insieme onestamente pochi soldi bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll'ingegno della propria testa
». Nel paese delle Api industriose «le strade formicolavano di persone che correvano di qua e di là per le loro faccende: tutti lavoravano, tutti avevano qualcosa da fare
». Tutti «hanno l'obbligo di lavorare; e se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro
». All'antitesi di questo paese è quello dei Balocchi, dove non ci sono scuole, non c'è lavoro, abitato da bambini svogliati destinati a diventare ciuchi. A Volpe e Gatto il burattino ormai integrato ricorda i proverbi: «I quattrini rubati non fanno mai frutto
», «Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia
».
Esaltazione del lavoro e difesa della proprietà sono concetti dominanti nel libro di Collodi: esulano i motivi dell'organizzazione del lavoro e della produzione, del rapporto tra capitale e lavoratori. Inconsapevolmente Collodi, che non aveva pretese di innovazioni, accettava l'ideologia della saggezza, della dirittura morale della borghesia, l'assumeva a virtù generale e la compartiva ai ragazzi.
Egli ubbidiva alla necessità di dare ordine amministrativo e fare assumere all'Italia la struttura di uno Stato e di una società liberale moderna, di suscitare slanci, unire le forze in una prospettiva di progresso. Questa linea era interna alle ideologie moderate della tradizione toscana e a quelle della borghesia del tempo di Collodi: che si trattasse di progresso apparente —cioè non collegato alla reale evoluzione della società — e riguardante la borghesia come classe — e non l'intera società — Collodi non poteva vedere o almeno, nei limiti della propria visione, egli giustificava: gli mancava la fiducia nella lotta che le classi subalterne avrebbero condotta in nome di interessi generali e nazionali. Né era il solo a essere privo di tale fiducia.
Il rapporto familiare ragazzo-adulto riflette il rapporto sociale lavoratore-padrone: emergono i doveri del ragazzo lavoratore «in nuce
», il sistema degli adulti e dei padroni non è mai discusso: il mondo di Fatina e Geppetto è il modello. Il riferimento costante come degradazione da evitare è il vagabondo, il non inserito (Lucignolo, Gatto e Volpe, gli abitatori di Acchiappacitrulli, del paese dei Balocchi); chi non si inserisce in tempo è emarginato definitivamente senza possibilità di recupero (Lucignolo muore asino stanco). L'educazione all'obbedienza, ad essere felice di essere normale e di tale stato non è, come si è voluto dire da letterati e pedagogisti, una battuta distratta di Collodi: la «grandissima compiacenza
» con cui Pinocchio guarda il nuovo se stesso nell'ultima pagina del libro è un obiettivo pedagogico della società borghese del tempo.
Storicizzata la situazione di Collodi diamo uno sguardo alle ideologie socioculturali del libro. Il burattino è nato con una natura ricca di fantasia, amante della libertà, itinerante per le contrade del mondo, è generoso e fiducioso, ama gli altri con moto spontaneo di affetto; è nato ridendo e desidera fare le sue esperienze. Il mondo degli adulti gli oppone il proprio modello e il proprio comportamento: lezioni di vita, disciplina educativa, morale degli adulti e meritocrazia.
Le istituzioni del sistema sono rette dalla saggezza, la vita istintiva del burattino dall'ignoranza. Pinocchio diventerà ragazzo quando si sarà assoggettato alla legge del lavoro e dello studio, quando avrà rinnegato la sua esperienza di burattino e avrà appreso le «lezioni di cose»; imparare a non essere diverso dagli altri, a non uscire dalla norma, ad essere diffidente, a ubbidire alla Fatina, a occuparsi dei fatti propri, a non essere inutile.
L'esperienza del sistema gli farà conoscere che chi non obbedisce finisce in carcere o in ospedale, che il mondo degli adulti è crudele (il Gatto e la Volpe sono degli imbroglioni che rappresentano l'alternativa al sistema vista dagli adulti), che gli uomini normali si fanno beffe degli altri (il vecchio che innaffia Pinocchio), che la generosità racchiude l'egoismo (il padrone del campo fa cucinare le faine e si proclama generoso; Mangiafoco appare altruista per il fatto che rinuncia a mangiare l'arrosto ben cotto risparmiando il burattino dalle fiamme), che il sadismo è una regola di vita (l'Omino mangia le orecchie dell'asino, il Gatto mangia il Merlo, Mangiafoco vuole bruciare i burattini come legna, il Pescatore verde vuole friggere il burattino, la Fatina fa venire i conigli in nero con la bara, coloro che hanno seguito il vagabondaggio sono orribilmente mutilati e storpiati nel paese di Acchiappacitrulli), che la Fatina lo aiuta se riceve qualcosa in cambio e lo ricatta affettivamente facendosi credere malata o morta, che lo rinnega in due momenti importanti (quando è impiccato, quando è straziato dalla fame) e lo accetta se egli diventa diverso e abbandona il suo essere se stesso.
Nel paese di Acchiappacitrulli Collodi mette in rilievo il contrasto fra padroni-rapaci-scaltri e vinti-mutilati ma non ne trae le conseguenze possibili: accattoni e malfattori vivono in simbiosi e, tutti insieme, rappresentano l'esempio alternativo per Pinocchio se non si inserirà nel sistema.
Chi si illude è derubato, chi è derubato è imprigionato, chi è imprigionato deve dichiararsi malfattore per uscire dal carcere. Pinocchio comincia a capire:
… da questa volta in là, faccio proponimento di cambiar vita e di diventare un ragazzo ammodo e ubbidiente…Tanto ormai ho bell'e visto che i ragazzi, a esser disobbedienti, si scapitano sempre e non ne infilano mai una per il suo verso.
Fervido di amore per il babbo e la sorellina, Pinocchio corre verso la famiglia ma per i «
morsi terribili della fame
» tenta di cogliere «
poche ciocche di uva moscatella
» e viene preso alla tagliola i cui ferri «
gli fecero vedere quante stelle c'erano in cielo
». La Lucciola gl'insegna che non si deve «
portar via la roba degli altri
» e che la fame «
non è una buona ragione per potersi appropriare la roba che non è nostra»; il padrone del campo che «chi ruba l'uva è capacissimo di rubare anche i polli
». «Più morto che vivo, a motivo del freddo, della fame e della paura
», col collare del cane «tutto coperto di spunzoni d'ottone
» e incatenato, Pinocchio capisce ancora che se fosse stato come gli altri non sarebbe stato sfortunato e che chi è diverso è punito:
Se fossi stato un ragazzino per bene, come ce n'è tanti, se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest'ora non mi troverei qui in mezzo ai campi, a fare il cane da guardia alla casa di un contadino
.
La presunta crescita umana di Pinocchio continua quando il burattino diventa cane fedele del padrone, rompe l'accordo del cane da guardia con le faine, aiuta il padrone a prendere le faine; servo del padrone del campo, onorato cane di guardia della proprietà
(Perché bisogna sapere che io sono un burattino, che avrò tutti i difetti di questo mondo, ma non avrò mai quello di accordarmi e di tenere il sacco alla gente disonesta
),
Pinocchio va verso il sistema e per il servigio reso è liberato dal padrone. Ma non finiscono le punizioni, quanto più generoso si rivela il burattino: invece della casa della Bambina dei capelli turchini trova la lapide che la descrive «morta di dolore — per essere stata abbandonata dal suo — fratellino Pinocchio
» mentre il povero Geppetto che ricerca il figliolo si è messo su una barca in mezzo al mare in burrasca. Nel paese delle Api industriose esiste solo il lavoro e Pinocchio ricorda che solo poveri e gli infermi possono chiedere: «Tutti gli altri hanno l'obbligo di lavorare; e se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro
». Anche la ritrovata Fatina, riapparsa in sembianza di mamma, avvia i discorsi di inserimento nel mondo del lavoro:
- … quelli che dicono così finiscono quasi sempre o in carcere o all'ospedale. L'uomo per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare….
La «vera strada
» porta alla mutazione da burattino a uomo: «se saprai meritarlo
», «ora dipende da te
». Pinocchio a scuola è schernito dai compagni perché burattino e diverso da loro ma con la forza (pedate negli stinchi e gomitate nello stomaco) ottiene il rispetto «la stima e la simpatia di tutti i ragazzi di scuola: e tutti gli facevano mille carezze e tutti gli volevano un bene dell'anima
». La prima deviazione dalla scuola è la visita al Pescecane che egli vorrebbe compiere sperando di ritrovare il babbo; nella lotta coi compagni ormai è «d'occhio svelto e ammalizziato
». Quando il compagno Eugenio è ferito egli lo assiste e paga la sua generosità con l'arresto: la lezione è che bisogna disinteressarsi degli altri. Quindi Pinocchio salva dalle acque il cane Alidoro aizzatogli contro dai carabinieri ma «non volendo fare a fidarsi troppo
» si getta nuovamente in mare. Allorché, scampato al Pescatore verde, raggiunge la casa della Farina ma è lasciato fuori dell'uscio affamato, impaurito e sotto l'acqua che viene giù e a catinelle», viene punito con la colazione finta, col piede conficcato nell'uscio finché sviene.
Alla fine è perdonato, si inserisce nel sistema di studio e lavoro e sta per diventare «un ragazzo per bene
». Il desiderio di libertà lo fa finire nel Paese dei Balocchi tra gli asini-bambini, anche lui diventa somaro. Quando ridiventa burattino perché mangiato dai pesci ed è inghiottito dal pescecane nel cui ventre ritrova il babbo, nella stupenda narrazione delle sue avventure che egli fa a Geppetto, vediamo che le motivazioni dei fatti accadutigli sono un riconoscimento di colpa e della saggezza che viene dall'esperienza.
Il mondo degli adulti non è più schernito, il dolore della Fatina e del babbo non è messo in secondo piano (ricordiamo le sue precedenti espressioni: «Per vostra regola, io non ho mai fatto il somaro, non ho mai tirato il candito!»; «E se la Fata ti sgrida? — Pazienza! La lascerò gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà
»). Pinocchio ormai rifiuta carità e perdono a Volpe e Gatto, parla loro citando proverbi, chiede perdono al Grillo parlante, lavora al bindolo grondando «sudore dalla testa ai piedi
» per cinque mesi, fabbrica canestri e panieri di giunco, costruisce un carrettino per portare a spasso il babbo nelle belle giornate, mette da parte i soldi per comprarsi un vestito nuovo, dona i soldi alla Lumaca perché li porti alla Fata pseudoammalata, aumenta il proprio ritmo di lavoro («invece di vegliare fino alle dieci, vegliò fino a mezzanotte suonata; invece di far otto canestri di giunco ne fece sedici
»).
Perfettamente inserito nella catena studio-lavoro-famiglia diventa «un ragazzo come tutti gli altri»: una «bella camerina ammobigliata e agghindata con una semplicità quasi elegante
», un bel «vestiario nuovo
», «un paio di stivaletti di pelle, che gli stavano una vera pittura
», quaranta zecchini d'oro restituitigli dalla Fata in luogo dei quaranta soldi di rame, il babbo ringiovanito («sano, arzillo e di buon umore
») e già al lavoro compensano Pinocchio, «ragazzino per bene
», della fatica sopportata per avere seguito la «vera strada
» dell'integrazione sociale.
Dalla fame all'agiatezza, da burattino a «bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con un'aria allegra e festosa come una pasqua di rose
» Pinocchio ha percorso la strada pedagogica accettando il sistema di ricatto e repressione, imparando le lezioni degli adulti.
Collodi sapeva osservare le contraddizioni della realtà ma restava fermo al gioco umoristico, alla diversità delle apparenze e amaramente vi scherzava sopra: «tutti gli — osservava a proposito della commozione di Mangiafoco — quando si sentono impietositi per qualcuno, o piangono, o per lo meno fanno finta di asciugarsi gli occhi
». Esprime il suo scetticismo sulla falsa scienza medica, sulla giustizia asservita ai malandrini, sulla sommarietà di esame intellettuale da parte dei pubblici poteri, sull'impossibilità del cittadino di difendersi di fronte alle ingiustizie ma le profonde discrepanze sono viste, per lo più, come pericoli che corre l'anormale, il solitario, il vagabondo Pinocchio e che cesseranno quando egli si sarà inserito nel sistema, nell'ordine, nella razionalità sociale che dovrebbero essere garantiti proprio da coloro per opera dei quali ha subito ingiustizie e oppressioni.
Anche
Edmondo De Amicis2 (1846-1908) di Oneglia, autore di raccolte di bozzetti (
La vita militare,
La carrozza di tutti) e di libri di viaggi (
Olanda,
Spagna,
Marocco,
Costantinopoli), scrittore assai popolare per le facili conciliazioni di filomilitarismo e socialismo (ma come tale fu contro la politica africana), cristianesimo e massoneria, nel
Cuore (1886) propone un galateo sociale, morale, sentimentale peri giovani figli delle famiglie borghesi. Tali giovani egli vede come i primi futuri nuovi dirigenti dell'Italia unita da istruire eticamente al progresso moderato nell'amore dell'esercito, della famiglia, della scuola, del lavoro, della pace tra le classi sociali.
L'età umbertina vi è rappresentata attraverso la vita di una scuola elementare torinese in cui si trovano ragazzi anche di altre regioni e delle diverse condizioni. Non pochi dei problemi trattati erano scottanti: analfabetismo, dissidio conseguente alla repressione del brigantaggio effettuata dai «feroci
» piemontesi contro i «barbari
» siciliani e calabresi (in una delle sue novelle De Amicis parla delle torture da un carabiniere per opera dei briganti in Sicilia), problema sociale, problema meridionale etc.
Anche nel Cuore il sistema borghese è salvaguardato nella sua superiorità: l'etica socialpatriottica equipara i «bravi soldati e forti lavoratori
» (i calabresi) come dignità, ma non come stato, alle classi dirigenti; l'educazione al sacrificio non è per tutte le classi (dignità laica dell'operaio), il «signore
», paternalista, benevolo, che si scusa, fa sentire «diverso
» il carbonaio; l'atto individuale di carità sostituisce il rimedio sociale; il muratorino è caritatevole visto come il giullare del benestante; il fabbro ferraio disadattato alcoolizzato è rifiutato e si pensa di denunziarlo alla questura; la carità impegnativa non è esercitata nei confronti di Franti che, espulso dalla scuola, finirà in galera; la società ipotizzata da De Amicis, di lavoratori, soldati e proletari, deve essere felice in quanto sana e normale guardando lo stato dei minorati ed emarginati. Quest'umanitarismo e questo sentimentalismo sono espressioni piccolo-borghesi che conservano lo stato sociale nelle condizioni in cui si trova.
Ma c'è un altro De Amicis "disconosciuto e frainteso", quello socialista. È il De Amicis che è stato fatto conoscere da Timpanaro e che è degno di "molta attenzione" ideologicamente e letterariamente.
Intorno al 1890 De Amicis opera la propria trasformazione da borghese a socialista per mezzo dello studio dei testi marxisti, proprio nel decennio di maggiore crisi degli intellettuali di formazione borghese. Il romanzo Il primo Maggio (edito postumo nel 1980) racconta il caso di un insegnante, Alberto Bianchini, un borghese che passa alla causa del proletariato a costo di contrasti familiari che, stravolgono la sua vita.
In questo romanzo De Amicis è convinto dell'esaurimento della funzione storica della borghesia e dell'avvento del Quarto Stato. Si è convincentemente fuori dal socialismo sentimentale, dagli ideali patriottici e militaristici ai quali abbiamo accennato; invece c'è la comprensione delle ragioni, pur tanto diverse, dell'anarchismo.
Questo romanzo attende ancora di essere storicizzato e valutato oggettivamente.