18 - § 4
Il verismo e l'arte di Giovanni Verga
La tendenza al reale nasce come «verismo
» nell'ambito del positivismo, quale esperienza letteraria che ha bisogno di verità, di oggettività. Il verismo italiano si collega con la poetica naturalistica francese di Zola che ha come presupposti l'evoluzione scientifica, l'uomo come prodotto di fattori ereditari, di ambiente sociale e di momento storico.
Il romanzo naturalista rappresentava un aspetto della vita avente valore sociale, tutti gli strati della società vi trovavano posto con le loro fisionomie reali e lo scrittore, non più autobiografico, descriveva in modo oggettivo e impersonale. Mediatore tra i francesi Zola e Flaubert e l'Italia fu
Luigi Capuana1 (l839-1915) di Mineo il quale propone la discussione dei princìpi, dei mezzi tecnici adatti a descrivere il vero.
Allo scrittore verista si aprivano in Italia i temi offerti da territori (regioni o gruppi di regioni) assai differenziati tra di essi per antichità di formazione storica, per modi di vivere dovuti a diverse stratificazioni etniche, per mondi sociali (dalla campagna al mondo del sottosviluppo urbano, della borghesia, dell'aristocrazia, dei neoagrari).
Per la prima volta si aveva, dall'interno della borghesia, una letteratura che gettava l'occhio sulla vita popolare e ne denunciava degradazioni e miserie.
Per la prima volta dopo l'illuminismo le cose contavano più delle parole, l'oggettività più della sensibilità individuale, il genere letterario non era più la lirica ma la prosa, il romanzo non correva il rischio di sprofondarsi nelle medievalerie ma era una sorta di inchiesta sulle condizioni presenti di gruppi di uomini (pescatori, contadini, braccianti, campieri, artigiani, borghesi, finanzieri, politici, mondane etc.) vinti o seminatori di vinti nella lotta della vita.
Per la prima volta l'ambiente non era idealizzato ma studiato con occhio clinico e svelato nella sua realtà (feudo, latifondo, palazzo baronale, borgo marinaro, maremma, basso napoletano, borghese, aula parlamentare, studio di artista, masseria, cascinale, vicolo), i personaggi non erano i villici o i pescatori delle egloghe ma braccianti incerchiati dal lavoro sulle zolle, viziosi diventati tali nell'accidia, possidenti inferociti dal timore di rivendicazioni salariali, risaiole, lavandare, donne perdute, aristocratiche di classe viste nel loro contesto etc.
Le vicende non erano romanzate per amore di interesse artistico né colorite in rosa per evasione tardoromantica, l'amore non era idealizzato ma raccordato con la situazione ambientale. Infine il realismo veristico non ha nulla da spartire con la realtà dei romantici (occorre opporsi con vigore a quanti lo fanno derivare dal romanticismo che è sempre idealisticheggiante) perché si presenta come rappresentazione e denuncia di situazioni e problemi. I personaggi in quanto reali non si esprimono con un linguaggio letterario né edulcorato né autocensurato ma nella lingua parlata nei vari ambienti o almeno vicina a tali ambienti, con l'uso di termini regionali, locali, dialettali.
La poetica del verismo doveva oltrepassare il manzoniano fiorentino-popolare per le nuove necessità di creare una lingua popolare capace di rappresentare ambienti e luoghi diversi. Con ciò non vogliamo dire che tale letteratura fosse espressione del popolo, il quale era egemonizzato dalla borghesia, ma che costituiva un avvicinamento ai problemi della vita del popolo di cui, anzi, quella borghesia temeva il riscatto. Lo scrittore borghese ha considerazione dello stato delle classi popolari, ne prende atto, si piega sulle sofferenze ma non ha fiducia nel socialismo come realtà di classe anche quando egli esprime idee e sentimenti sociali. Il filantropismo non impedisce che in momenti di radicalizzazione di lotta lo scrittore si collochi su posizioni reazionarie. Pregiudizi di classe, mancanza di strumenti intellettuali d'indagine rendono assai vario lo spessore del realismo italiano che va dall'analisi di costume al bozzetto, al folklore, al documento, alla penetrazione nella condizione sociale.
Lo scrittore che con mezzi tecnici eccezionali interpreta il mondo subalterno e quello borghese della Sicilia è
Giovanni Verga1 (1840-1922).
La Catania in cui nacque Verga risente della tradizione illuministica del dialettale Domenico Tempio, della cultura di una fiorente accademia scientifica intitolata al naturalista Giuseppe Gioeni che viene studiando anche l'ambiente storico e umano, le condizioni di vita dei contadini e dei pescatori (i canti popolari relativi alla vita di questi lavoratori, raccolti da Giuseppe Pitrè, sono nella biblioteca di Verga). In questo ambiente vissero i coetanei di Mario Rapisardi, Capuana e, della generazione seguente, Federico De Roberto.
Verga non approfondì gli studi classici e i suoi primi romanzi (storici come I carbonari della montagna, Amore e patria, Sulle lagune) sono popolari alla maniera di Dumas; nell'inedito Amore e patria composto dall'adolescente (1856-57) si legge che «le virtù praticate negli abituri sono più eroiche di quelle sfoggiate sotto le volte dorate
». Nel 1865 si trasferisce a Firenze, capitale d'Italia, dove è amico di Dall'Ongaro e scrive Una peccatrice (1966) e Storia di una capinera (1871).
A Milano, dove visse per lunghi periodi tra il '72 e il '93, frequentò l'ambiente degli scapigliati, conobbe Tarchetti, De Marchi, Sacchetti, Giacosa, fu amico di Boito, De Roberto e, fraternamente, di Capuana, concepì il ciclo dei «vinti
» (in un primo tempo intitolato «la marea
»), diede alla luce Tigre reale (1873), Eva (1873), Eros (1875) e Nedda (1874). Dall'83 si dedicò al lavoro teatrale, nel '94 ritornò a Catania dove rimase fino alla morte senza completare il ciclo dei vinti iniziato con i Malavoglia (1881) e Mastro don Gesualdo (1888) e che avrebbe dovuto comprendere La duchessa di Leyra, L'uomo di lusso, L'onorevole Scipioni.
Mutati tempi e stile avrebbe dovuto crearsi un diverso impegno morale. L'uomo riservato, schivo, privo di vanità, fu geloso della sua libertà (non volle mai sposare Dina di Sordevolo), si pietrificò nella solitudine e nella convinzione che immodificabile è la condizione di coloro che dovranno essere vinti e non potranno essere liberati da alcun socialismo, che il progresso ha come conseguenza lo scacco individuale, che il Risorgimento era stato guastato dal parlamentarismo e dalla corruzione.
La lotta di classe insidiava l'unità della nazione secondo Verga il quale dopo la strage di Bava Beccaris (1898) non esitava a scrivere:
Più cara d'ogni libertà (e d'ogni legalità) m'è l'unità della patria e ho l'animo troppo conturbato dalla propaganda separatista e dall'opera pervicace di un pugno di retori e di forsennati che la misero a repentaglio.
Sabaudo, cavouriano, crispino, nazionalista, giunse anche durante la guerra a scrivere a Dina «
io son diventato socialista
» vedendo che «
le infime classi danno il più bell'esempio e il miglior sangue!
».
Le contraddizioni nascono da ciò che Verga era effettivamente e ciò che credeva di essere. Egli era veramente, in modo profondo, dentro la realtà non mistificata delle cose, nella loro crudezza, e tale condizione mentale e psicologica gli consentiva di vedere più chiaramente di altri i contrasti della società borghese
(Ho visto tante mostruosità rispettate, tante bassezze di cui si fa di cappello tante contraddizioni di quello che chiamate senso morale [Eva]),
e di demistificarli fin dalla giovinezza. Tale precocità etica era la sua realtà fin da allora, sicché non c'è uno stacco o una conversione dal Verga dei primi romanzi al verista. Ci fu l'incontro della poetica verista con i motivi della Sicilia ma già in
Eva la realtà scoperta e più vera di qualsiasi convinzione patriottica o politica:
Viviamo in un'atmosfera di Banche e di Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è la esuberanza di tal vita;
[...]
Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create — voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l'onore là dove voi non lasciate che la borsa.
Nella prefazione a
Eva esiste una tinta moralistica ma nel romanzo c'è l'indicazione del ruolo sociale dell'arte e in questo come nei primi romanzi di ambiente mondano, con personaggi velleitari, gaudenti, aristocratici, dilettanti di sensazioni, cupidi di oro, di ambizioni (usurai, artisti illusi, donne di lusso, aristocratici vanesi) si riflette la società borghese postunitaria in cui il capitalismo industriale deprime i valori della cultura e dell'arte. Questa società materialistica settentrionale viene fuori dal Risorgimento effettivo del quale Verga amava l'unità retorica. Ma in effetti egli estraeva da quel mondo il concreto come nessuno scrittore aveva fatto.
I personaggi sono già dei vinti non solo in quanto tardoromantici ma in quanto partecipi di una società di maschere corrose. Il mondo tardoromantico è negato nei superuomini e nelle superdonne dilettanti dei propri corpi e delle proprie anime. Lo stile è quello sentimentale del tempo, ma altro approfondimento non era possibile. La Sicilia dove il pittore dilettante va a morire, la ballerina che guarda senza schermi la realtà della vita sono i punti fermi di Verga, opposti alle «lodi e fama
» della società in maschera.
Il non avere illusioni, il guardare la forza dei fatti consente a Verga di scoprire da artista, con gli strumenti che possedeva, i guasti economici e morali (lo scrittore affina l'occhio del moralista, lo sdegno poi sarà più coagulato e denso, «quagghiatu
» sarà anche lo stile dirà a Capuana scrivendo dei Malavoglia) prodotti dell'industrializzazione nella parte più moderna della società.
Quel mondo, quella società gli fanno intendere i condizionamenti economici e materiali, gli danno la prima tensione al reale ma anche il senso del fatalismo e della sconfitta. Verga parte dalla Sicilia verso un mondo più aperto e moderno, scopre il «sistema
» economico-morale borghese settentrionale e lo condanna in assoluto ma attraverso il prisma di un altro sistema: quello della morale patriarcale della famiglia dei contadini e pescatori siciliani, delle «virtù praticate negli abituri
».
Il punto di riferimento lontano di tutti gli scritti di Verga, il mondo dei vinti della campagna siciliana, diventa tema di lavoro, scavo profondo in sé in Nedda quando la maturità culturale è maggiore e gli strumenti intellettuali più idonei. Con Nedda raccoglitrice di olive, sedotta e abbandonata, e con le novelle di Vita dei campi (1880), Verga porta in campo i valori positivi di sconosciuti, anonimi, vinti ma non toccati dalla storia (non le indefinite generazioni di popoli di Manzoni ma i singoli vinti da un determinato ambiente sociale), personaggi che forniscono al «poeta di duchesse
» (come egli si definirà con un po' di sprezzo e un po' di necessità) un organico punto di vista che diventerà unico e fondamentale sulla società e sulla cultura.
Quel mondo di personaggi che non contano, lasciati soli per legge, per costume, per morale pubblica (che non aveva motivo di darsi pena di loro) e che si sentono essi stessi chiusi in un irrimediabile destino («A che giova? Sono malpelo!
» dice Rosso Malpelo incapace di scolparsi, adolescente che giudica quasi da metafisico o da vecchio la sorte dell'asino piagato, morto, mangiato dai cani: «E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio
»), quei personaggi, respinti scopertamente, tacitamente e divenuti asociali, sono visti nel loro abbrutimento materiale.
Per la prima volta nella nostra letteratura moderna i personaggi-plebe non sono incatenati all'idealismo bucolico, al paternalismo ipocrita; Verga entra in essi con la sua seria moralità che ne comprende il coraggio e le sofferenze. Con il pastore Jeli comprende l'impossibilità di rapporto tra l'individuo autentico e la società, con Rosso Malpelo comprende che le cose sono perché sono e nulla può cambiarle (l'unica comunanza con le persone è il rapporto di sangue, l'amore verso il padre). Ma comprendere quella realtà (come fa lo stesso Malpelo) significa entrare nell'infelicità sociale, nel pessimismo, nucleo centrale della concezione di Verga. Religione della famiglia, valori patriarcali sono i supporti dell'eroismo che tiene legata (tra tifo, colera, malannate, burrasca che spazzano il «brulicame
») la povera gente (così in Fantasticheria, novella in cui sono motivi della poetica verghiana) lasciata cadere su uno scoglio di pescatori dalla fortuna che «seminava principi di qua e duchesse di là
».
Siamo ormai alla poetica della maturità, la ricerca di verità che stringe Verga al verismo e avvicina lo scrittore al mondo popolare. Anche qui Verga, che sta preparando i
Malavoglia, in una lettera a Capuana nel 1879, contrappone ai «
bisogni fittizi
» e alle «
passioni turbinose e incessanti delle grandi città
» «
l'impronta di fresco e sereno raccoglimento
» del borgo marinaro. Nella prefazione alla novella
L'Amante di Gramigna Verga annuncia che si tratta di un «
fatto nudo e schietto
» e si ritrae impersonalmente dietro un fatto vero, cioè «
storico, un documento umano»:
Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l'efficacia dell'esser stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne.
Nella prefazione ai
Malavoglia (1881) stringe intorno alla poetica veristica la propria ideazione del ciclo dei vinti: nel romanzo è
lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere, e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
La «
fiumana del progresso
» suscita una lotta che in quel romanzo è ancora «
pei bisogni materiali
» ma che in
Mastro-don Gesualdo «
diviene avidità di ricchezze
», «
vanità aristocratica
», ambizione, bramosia complicata negli altri romanzi. Chi guarda alle conquiste del progresso non si sofferma sulle «
contraddizioni
» e non guarda
ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani.
Chi guarda lo spettacolo — l'artista che si ritrae un istante per studiare «
senza passione
» la lotta — «
non ha il diritto di giudicarlo
», deve soltanto «
dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere
».
Nei
Malavoglia i personaggi sono pescatori di Acitrezza che cercano di sopravvivere nello stadio elementare della loro vita fusa in quella del villaggio ma quando uno di essi (il giovane 'Ntoni che ha conosciuto da militare la vita del continente mentre i suoi familiari vanno in rovina: Bastianazzo muore in una burrasca, il carico di lupini acquistato a credito è perduto, la barca fracassata, Luca muore a Lissa, la Longa di colera, Lia si perde nella città. Mena rinunzia a sposarsi) volle staccarsi dai suoi per desiderio di
ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo, da pesce vorace ch'egli è, se lo ingoiò, e i suoi prossimi con lui.
Il narratore non orienta, fa vedere quello che la realtà (morti, disgrazie) diventa per il paese, attraverso gesti, proverbi che sono sintesi di una tradizione di vita familiare incontrastabile di sofferenza e di sconfitta, di espiazione per chi rompe i limiti della propria condizione, proverbi che nella loro assolutezza sono leggi cristallizzate e accoratamente accolte. In questa atmosfera di immutabilità, di immodificabilità vivono gli umili eroi che non hanno coscienza della loro grandezza e che Verga guarda con dolcezza virile: da padron 'Ntoni a Maruzza, all'ineffabile storia di Mena
(Ora sono vecchia, compare Alfio — rispose — e non mi marito più […] e così ella era salita nella soffitta della casa del nespolo, come le casseruole vecchie, e s'era messo il cuore in pace, aspettando i figliuoli della Nunziata per far la mamma).
Il pessimismo di Verga, che aveva rifiutato la spietatezza del processo economico nei primi romanzi, ha un significato storico come negazione del suo tempo ed è (al di là delle convinzioni politiche dello scrittore) oggettivamente positivo in quanto scopre, contro le mistificazioni trionfalistiche borghesi, i valori della vita della povera gente e li fa coincidere con il vero, con il reale, pur non assegnando ad essi alcuna speranza di riscatto.
In questo rifiuto di illusione di progresso e di socialismo sembra che per Verga le cose abbiano in sé la loro condanna e che i personaggi siano murati nella loro sconfitta. Ma Verga è, appunto, il poeta della grandezza tragica della gente sconfitta. Tagliata fuori da ogni provvidenza e risorgimento questa gente è esclusa, non immagina neppure di potere partecipare ad alcunché; sa che se partecipasse avrebbe la peggio come nell'episodio di Bronte.
In Mastro-don Gesualdo lo sconfitto è un capomastro arricchito che cerca l'ascesa sociale imparentandosi, attraverso un matrimonio, con i duchi Trailo. Triste è il matrimonio, la «roba
» dell'artigiano è dissipata dal genero e Gesualdo Motta muore nella solitudine del palazzo ducale di Palermo e nell'indifferenza («Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa
»).
Verga in questo romanzo riuscì a vedere, oltre i miti, le forze economiche e operanti nella società. Mastro don Gesualdo nel 1820 è sulla Piazza grande del grosso paese, in un mare di teste di villani minacciosi («
sembrava un alveare di vespe in collera
») i quali richiedono la divisione delle terre comunali. Nuovo borghese fondiario, Gesualdo si fa assegnare come affittuario unico tutte le terre che riesce a strappare all'asta ai baroni ed entra fra i carbonari con gli altri borghesi. Ma nel 1848, di fronte alla più forte minaccia dei contadini, e della legge che abolisce il fitto annuale delle terre e sancisce la censuazione ai più poveri, i più gagliardi sono i baroni che propongono di anticipare ad artigiani inesperti il danaro occorrente per avere a censo la terra, per poi vederli fallire e perdere la terra. Solo schierandosi con la rivoluzione, la libertà e Pio IX, i baroni riusciranno a gabbare villani e affamati:
I villani e gli affamati stavano in piazza dalla mattina alla sera, a bocca aperta, aspettando la manna che non veniva, si scaldavano il capo a vicenda, discorrendo delle soperchierie patite, delle invernate di stenti, mentre c'era della gente che aveva i magazzini pieni di roba.
La lingua di Verga nei due romanzi e nelle novelle siciliane è antiletteraria e antisentimentale, consona al movimento democratico dei tempi, modellata nella sintassi e sui vocaboli del dialetto in modo da potere esprimere in esso veristicamente le voci dei personaggi del mondo contadino e, nel
Mastro-don Gesualdo, diversi livelli linguistici attraverso la coloritura siciliana.
Dopo questo romanzo Verga (che già aveva pubblicato una raccolta di racconti ambientati a Milano, Per le vie, 1883), scrisse le novelle di Vagabondaggio (1887), Don Candeloro e compagni (1894), e un romanzo Dal tuo al mio (1905) derivato dal dramma dello stesso titolo e in cui descriveva un sindacalista operaio che, sposata la figlia del padrone, cambia bandiera.
Già nemico della borghesia finanziaria e industriale, Verga quando vede l'ascesa organizzata del movimento socialista e dei lavoratori si chiude nell'idea di un ceto di piccoli proprietari che avesse funzione economica e politica intermediaria tra l'industrialismo ormai conquistatore di mercati e il mondo contadino. Siamo così, nell'involuzione di Verga, col protagonista di Dal tuo al mio, al precursore del beltramelliano cavalier Mostardo che da libertario diventa fascista legalitario. Ma Verga lirico-narratore, artista interprete delle plebi subalterne, poteva dire, proprio in Dal tuo al mio; «io ho fatto la mia parte in pro degli umili e dei diseredati da un pezzo
».