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Ippolito Nievo. Modernità delle idee di Carlo Pisacane
La letteratura patriottica continua ad esprimersi nelle memorie dei fatti risorgimentali, a cui gli scrittori avevano partecipato, nelle pagine di Giovanni Ruffini (1807-81) e dei garibaldini. Ruffini, genovese, mazziniano ma poi monarchico, scrisse due romanzi in inglese, l'autobiografico Lorenzo Benoni (1853) e Il dottor Antonio (1855) sull'amore impossibile, per motivi sociali, tra un medico e un'aristocratica fanciulla inglese sullo sfondo dei processi del '50.
I maggiori memorialisti garibaldini sono Giuseppe Bandi (1834-1894) grossetano, ufficiale garibaldino, poi giornalista, autore di
I mille (1866) e
Giuseppe Cesare Abba1 (1838-1910) autore di
Da Quarto al Volturno (1880). Lo scrittore racconta, in un episodio, l'incontro, nella marcia da Calatafimi a Palermo, con un frate, padre Carmelo, che egli vorrebbe fare unire ai garibaldini. Ma il frate risponde che libertà non vuol dire pane e che i garibaldini non avrebbero mutato le condizioni dei poveri. Abba non trae le conseguenze dall'episodio, cioè che la questione agraria sarebbe stato il motivo per far muovere le popolazioni.
Invece popolani e contadini i quali si illusero, nel 1860, sul moto garibaldino e insorsero contro i baroni vennero fucilati; e nella novella La libertà Verga rappresentò la sua delusione col carbonaio incredulo e offeso che viene portato in galera: «O perché? non mi è toccato neppure un palmo di terra: se avevano detto che c'era la libertà!
». Per Bixio, repressore delle insurrezioni contadine nel catanese, la libertà-terra è da cancellare come ostacolo a libertà-unità della patria e gli insorti vengono fucilati. In questi episodi si toccano con mano i limiti del volontarismo (anche garibaldino), surrogato della vera partecipazione nazionale e popolare al Risorgimento.
Quest'ultimo problema, fondamentale nel rapporto tra la società e la cultura, venne affrontato dal padovano
Ippolito Nievo2 (1831-61) nel
Frammento sulla rivoluzione nazionale.
Per Nievo il popolo illetterato delle campagne ha sempre avuto diffidenza per il
- popolo addottrinato delle città, perché la nostra storia di guerre fratricide, di servitù continua e di gare municipali gli vietò quell'assetto economico che risponde presso molte altre nazioni ai suoi più stretti bisogni.
Le classi dirigenti per Nievo non hanno compreso che
mal si insegna l'abbicì ad uno che ha fame; mal si presenta l'eguaglianza dei diritti a chi subisce continuamente gli improperi del fattore.
Nievo proponeva «
oculate riforme economiche e politiche
» paternalistiche: raccomandava ai padroni di mantenere nel popolo il «
freno religioso […] promessa di una felicità eterna
» e ai contadini di stare lontani da «
quest'altra lebbra oltramontana
» che è il socialismo.
Nella sua breve vita Nievo, che partecipò alla guerra del '59, alla spedizione dei Mille e morì in un naufragio essendo colonnello intendente ai rifornimenti militari, scrisse versi, tragedie, racconti, romanzi. Un Novelliere campagnuolo — appartenente alla letteratura rusticale di Francesco Dall'Ongaro, Caterina Percoto, Luigia Codemo, Giulio Carcano, Carlo Ravizza — porta Nievo verso il mondo contadino di impronta arcadica. Nelle raccolte di Versi, Lucciole, Amori garibaldini l'esuberanza di sentimento rende tecnicamente inespressivo il fermento poetico che in Nievo c'era; ma i toni diversi (satirico, realistico, lirico etc.) male si combinano, il realismo minore raramente si fonde con la musicalità.
L'opera maggiore di Nievo è il romanzo postumo Le confessioni di un italiano in cui il protagonista ottuagenario, Carlo Altoviti, narra la sua vita dagli ultimi decenni del Settecento feudale al 1848-49. Il castello di Fratta è uno dei centri ideali del romanzo, della società veneta che si svolge attraverso la rivoluzione francese, la caduta di Venezia, Napoleone, il Risorgimento. Il romanzo ha come sfondo la storia ma è soprattutto sociale e psicologico, rappresenta la maturazione politica di Carlo attraverso nuove idee e nuovi rapporti ma anche la sua maturazione umana per l'amore della Pisana. Scritto tra il 1857 e il '58 e mai rielaborato dall'autore il romanzo, d'ispirazione mazziniana, riesce a collegare in modo organico i motivi amoroso e patriottico per l'impegno civile che non scade mai di serietà. Nelle altre opere (i romanzi Angelo di bontà e Il conte pecoraio, le tragedie Spartaco e I Capuani) c'è sempre uno stacco tra invenzione, novità di mondi e tradizionalismo di stile, un eccesso di sperimentalismo per cui non sempre i contenuti trovano le forme adatte.
Più solido nelle idee politiche, anche per avere criticato il misticismo democratico di Mazzini dopo il 1848, è
Carlo Pisacane3 (1818-57) di nobile famiglia napoletana, che fu allievo del collegio militare della Nunziatella che abbandonò nel 1847. Per motivi economici si arruolò nella Legione straniera in Africa settentrionale. Nel 1848 tornò a Milano dove conobbe Cattaneo che lo ebbe sodale nel rifiuto del moderatismo politico e nel repubblicanesimo. Nel 1849 conosce Mazzini, è capo di stato maggiore della repubblica romana dopo la cui caduta si rifugia a Londra. Nella
Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 è distaccato da Mazzini e nettamente socialista: la rivoluzione italiana non può essere che socialista con il concorso del popolo per abbattere il potere temporale e il dominio austriaco. Nei
Saggi storici, politici, militari sull'Italia sostiene la rivoluzione classista, con gestione collettiva dei prodotti agricoli e industriali, la democrazia diretta.
Prima di tentare l'impresa di Sapri riteneva che nell'Italia meridionale la situazione fosse matura per creare centri di sollevazione e un moto unitario non moderato, non sabaudo, non borghese. Egli si richiamava alla cultura illuministica e non alla religiosità ottocentesca nell'interpretare le direzioni culturali e le linee di azione per agire nel suo tempo. Pisacane unì in sé le concezioni politiche, culturali e militari ed espresse le proprie idee nel postumo (1860) Saggio sulla rivoluzione.
Il popolo come forza reale e la politica democratica sono le basi di un esercito nazionale (Pisacane seguiva il filone di esperienza politico-militare degli ufficiali napoletani); egli è il primo, dopo Filippo Buonarroti, ad avere una prospettiva socialista (eliminazione della disuguaglianza e del diritto di proprietà) come quadro della rivoluzione italiana; ma, ancor più, per lui i fatti hanno una matrice materialistico-economica:
Le sorti dei popoli dipendono pochissimo dalle istituzioni politiche. Sono le leggi economico-sociali che tutto assorbono, che tutto travolgono nei loro vortici.
Così il rivoluzionario oltrepassava il mazzinianesimo di impronta fideistico-religiosa, il moderatismo conservatore, il paternalismo nei confronti del popolo, interpretava per primo in modo unitario e popolare il metodo per collegare — con contenuti e programma sociali — le masse contadine meridionali, oppresse sulla terra dai neoagrari, al Risorgimento.
La grande figura e la profonda mente di Pisacane furono tenute in ombra dall'esito moderato del Risorgimento e dalla corrente fautrice di tale esito, avversa al materialismo, al socialismo, all'idea delle plebi agricole protagoniste della nuova Italia.
Anche l'eccezionale testamento (da leggere come una delle pagine più vere e antiveggenti del Risorgimento), consegnato alla giornalista inglese Jessie White fu tenuto in ombra. In esso Pisacane dichiara di credere a un socialismo non asservito, come in Francia, all'idea monarchica e «
avvenire inevitabile e prossimo dell'Italia e fors'anche dell'Europa intiera
», di rifiutare il progresso destinato «
ad impoverire le masse
» accumulando i mezzi «
in un piccolo numero di mani
», di rifiutare «
i rimedi temperati, come il regime costituzionale del Piemonte e le migliorie progressive accordate alla Lombardia
», ritardatrici dell'unità:
per mio avviso la dominazione della casa di Savoia e la dominazione della casa d'Austria sono precisamente la stessa cosa. Io credo pure che il regime costituzionale del Piemonte è più nocivo all'Italia di quello che lo sia la tirannia di Ferdinando II […]. Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle; ed il popolo non sarà libero perché sarà istruito, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero>.
Tutti i moderatismi venivano combattuti da Pisacane, compreso il subdolo motivo della mancanza di istruzione e dell'immaturità del popolo. Pisacane con il suo pensiero forniva di basi popolari la democrazia politica.
Anche il milanese Giuseppe Ferrari (1811-76) di tradizione illuministica e allievo di Romagnosi teorico del federalismo repubblicano, dopo il 1848 si venne distaccando da Mazzini. Egli sviluppò motivi di Pietro Giordani ma nelle sue opere (Filosofia della rivoluzione, 1851; Teoria dei periodi politici, 1874) mescolò vichianesimo e naturalismo galileiano, soprattutto nello studio delle scienze storiche. Favorevole a Foscolo (per influenza di Mazzini), divulgatore del Triregno di Giannone, specialista in questioni agrarie (studiò il fenomeno del bracciantato agricolo, il rapporto tra città e campagna), contrario ai moderati (nel 1872 in Parlamento dichiara che le cose d'Italia si erano fatte «a poco a poco, lentamente, per una serie di quasi
»), Ferrari giudicò talvolta gli avvenimenti italiani secondo una sua misura francese, quella di una nazione egemone e già avanzata, nonché in modo brillante ma astratto.
La linea antimistica del classicismo razionalista e progressista di Giordani costituisce prima e dopo l'unità d'Italia un argine contro il tardoromanticismo per merito dell'aretino Giuseppe Chiarini (1833-1908). Il cenacolo fiorentino detto degli «amici pedanti
» (1856-59) di cui facevano parte, oltre Chiarini, Giosué Carducci, Ottaviano Targioni Tozzetti, Giuseppe Torquato Gargani assunse la difesa dei classici contro gli scrittori «odiernissimi
» e Giordani parve ad essi esemplare non solo come stilista nemico delle vaporosità ma come coscienza patriottica e morale, «nemico — così Carducci — di tutti i vili del genere umano
».
La polemica degli «amici pedanti
» fu lotta contro la «mala moralità
» e l'arcadia tardoromantica, contro il buonsenso sonnolento; il classicismo attivo fu una scelta di salute, un'apertura verso le espressioni realistiche, satiriche, epiche ed elegiache che sopravviverà nel carduccianesimo di Severino Ferrari autore del poemetto Il mago (1884) in cui è messo in caricatura il falso misticismo di Lamartine e dei manzoniani.