Il 1823 è anche l'anno della lettura di Platone al cui idealismo Leopardi fu avverso. Ma Leopardi apprezzava lo stile non ispirato della prosa platonica e, soprattutto, il tono ironico-fantastico dei dialoghi. Nel 1825 traduce Epitteto e dalla lettura dei filosofi ellenistici Leopardi deriva negli anni 1823-27 la saggezza rassegnata di alcuni motivi delle
Operette morali. La ferma consapevolezza materialistica è accompagnata (dal 1823 al '29) a un diminuito interesse politico. Il progressismo politico-sociale di Leopardi è più vivo nel momento del pessimismo storico (democrazia repubblicana classica collegata con la credenza nella natura incorrotta, patriottismo come titanismo e risorgimento di virtù nelle canzoni patriottiche) mentre l'infelicità radicale di tutti gli esseri rende meno importante la necessità del progressismo. Si tratta di una relativa e temporanea atarassia (la morale di Epitteto e degli ellenistici) che trova il tono artistico nel piano ironico-lirico nelle
Operette. Queste prose sono intimamente legate al cammino mentale e biografico di Leopardi, espressione esplicita e artisticamente controllata del pessimismo e del materialismo radicali. Quasi tutte le
Operette sono dialoghi alla maniera di quelli greci di Luciano (venti furono scritte nel 1824, una nel '25, due nel '27, le ultime due nel '32; ventiquattro sono nell'edizione definitiva curata dallo scrittore). Leopardi nega speranze e illusioni, la possibilità di trovare la ragione dell'infelicità e per mezzo di miti, immaginazioni allontana temi e personaggi in modo da dare l'impressione di un pensiero oggettivo variato con l'ironia-lirica che svela l'indifferenza dell'universo e la pietà dell'autore per la sorte amara degli uomini. Il tema antichi-moderni (felicità del primitivo, razionalismo eccessivo della civiltà) è veduto ormai come piena sfiducia nella felicità degli antichi e «
i filosofi e i poeti-filosofi della Grecia antica sono ricordati nelle Operette per mettere in risalto non la differenza ma la sostanziale identità della condizione umana nell'evo antico e nel moderno
» (Timpanaro). La
Storia del genere umano è una storia di infelicità («
ciascheduno odierà tutti gli altri, amando solo, di tutto il suo genere, se medesimo
» e gli uomini diventano «
non meno vili che miseri
» e incapaci di rifiutare la vita infelice); nel
Dialogo d'Ercole e d'Atlante la terra è diventata leggera e inerte per l'inerzia degli uomini («al tempo mio combattevano a corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci»); nel
Dialogo di Malambruno e Farfarello Leopardi denuda al massimo la teoria del piacere: l'amore di se stesso, che è amore di felicità massima, non potendo essere soddisfatto, genera l'infelicità la quale «non può cessare per spazio, non che altro, di un solo istante» (sicché «il non vivere è sempre meglio del vivere»); il
Dialogo della Natura e di un'anima è un corollario del precedente: il tema è quello della maggiore infelicità delle anime grandi e un'anima destinata a essere «grande e infelice» («Tutto questo è contenuto nell'ordine primigenio e perpetuo delle cose create» appunto perché la maggiore «intensione» della vita genera maggior dolore) chiede alla Natura di accelerarle, invece, «la morte il più che si possa»; le ferree leggi della Natura-materia coinvolgono anche l'uomo nel
Dialogo della Natura ed un Islandese in cui la Natura («forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi») disinganna l'uomo dicendogli che tutte le forme di vita sono soggette a leggi di
produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il qual sempre che cessasse l'una o l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione
(la Natura è così indifferente a ciò che accade — «Un'«operetta» del 1827,
Dialogo di Plotino e di Porfirio, è la difesa del suicidio contro coloro che lo condannavano come contrario alla legge naturale e religiosa. Già nel
Bruto minore Leopardi aveva esaltato il suicidio eroico come sfida contro gli uomini e la divinità; nel dialogo Porfirio afferma che la noia è l'elemento reale della vita umana, che la fede platonica nella felicità ultraterrena è inefficace dato che l'uomo sulla terra non può raggiungere la felicità e, infine, Platino pur riconoscendo la validità razionale del suicidio sostiene la necessità della fraternità degli uomini. Ha termine così la parentesi saggia di Leopardi il quale, dopo il «risorgimento» poetico dei canti pisani e recanatesi (1828-29), a contatto con l'ambiente moderato e cattolico-liberale soddisfatto e ottimista di Firenze e Napoli, risorge reagendo contro l'ideologia politico-religiosa romantica. Il pensatore che aveva oltrepassato il reazionarismo gesuitico-monaldesco nella prima giovinezza rifiuta adesso polemicamente l'ideologia di una egemonia moderata guidata dalla borghesia cattolica: Leopardi vede in questa ideologia l'ipotesi di una barbarie medievale, di un movimento non legato a una visione razionale e scientifica ma, anzi inglobante in uno pseudoprogressismo borghese «masse» infelici per natura e ottenebrate dall'oscurantismo. L'ultimo Leopardi riprende antagonisticamente contro il moderatismo pseudoprogressista i terni illuministici e materialistici affermandoli nella polemica antidogmatica, antireligiosa, antimitica. Individua nel progetto di un'organizzazione borghese moderata e liberale (affaristica, egoistica, mercificatrice dei valori, falsoumanitaria, pronta alle guerre di rapina e di concorrenza) l'ostacolo a un illuminismo per tutti (senza che giunga, però, all'idea di una rivoluzione sociale né alla divisione della società in classi né al rapporto borghesia-proletariato) ma la nemica prima è la Natura contro la quale invoca la fine delle lotte fratricide e il sodalizio di tutta l'umanità alleata. I principali documenti di questa lotta contro la Natura (intesa dal sensista-edonista Leopardi, così Timpanaro, come realtà fisico biologica) sono soprattutto il
Dialogo di Tristano e di un amico (1832), i
Paralipomeni, la
Palinodia al marchese Gino Capponi (1835) e
La ginestra (1836). In questa fase estrema della sua vita Leopardi nega ogni provvidenza e indica come solo progresso la lotta contro il nemico supremo ma solamente se gli uomini «
hanno scartato per sempre ogni ricorso a quelle speranze e a quei poteri (natura e provvidenza) e hanno riconosciuto nella loro crudele potenza il primo loro nemico e il primo fondamento polemico della loro unità nella lotta e nella protesta
» (Binni). Il
Dialogo di Tristano e di un amico è una sorta di testamento anzitutto intellettuale e morale di Leopardi, di documento dell'eroismo virile dell'uomo che non si aspetta nulla da persona o cosa e si oppone al destino che lo condanna (e non per sofferenze personali) all'infelicità. Nello stesso anno in cui componeva questo dialogo Leopardi rispondeva in una lettera al De Sinner alla critica (di tedeschi) che attribuiva il pessimismo delle
Operette alle infermità dell'autore («ci si ostina ad attribuire alle mie condizioni materiali ciò che si deve solo al mio impegno intellettuale»). Nel dialogo Tristano-Leopardi rifiuta le illusioni con cui i non ragionanti si consolano del mali ma rifiuta soprattutto la pedagogia dell'illuminismo spiritualistico che induce a «vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere e le più fondate del mondo» («rifiuto ogni consolazione e ogn'inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularsi nessuna parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera»). Basilari elementi del pessimismo radicale di Tristano sono il pessimismo degli antichi (a cui il «secolo decimonono» oppone la sua falsa «felicità della vita») e la debolezza della macchina fisica e biologica dell'uomo (
E il corpo è l'uomo […] tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corso, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui. E però anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili).
Alla filosofia spiritualistica dei moderati Leopardi oppone ancora la propria concezione materialistica e la propria lucida consapevolezza razionale sulla realtà dell'uomo: io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, e vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini […] Invidio i morti […] Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d'esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano. Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null'altro avessi sperato né desiderato al mondo.
Questo di Leopardi era il più netto antagonismo del tempo all'ideologia della borghesia moderata che cercava di conciliare tradizione e progresso; Leopardi afferma, invece, che la vera cultura con la quale occorre fare i conti è quella dell'illuminismo — il sensismo e il materialismo —, che dinanzi ai problemi scoperti dagli illuministi è inutile chiudere gli occhi proponendo spiritualistici trionfi mentre «
il corpo è l'uomo
», miserabile e caduco per «
forza
» di una natura contro la quale è necessario unirsi nella lotta.