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Vita e cultura di Giacomo Leopardi
Del romanticismo in quanto movimento idealistico e spiritualistico, incubatore del cattolicesimo della Restaurazione, avversario fermissimo fu
Giacomo Leopardi1 (1798-1837) il quale venne sviluppando il suo pensiero dal razionalismo illuministico giungendo, con lenta e chiara quanto disperata elaborazione, al materialismo pessimistico. La critica si è soffermata soprattutto sul poeta esaltando aspetti idillici e staccandoli dal pensiero, distruggendo il pensiero di Leopardi o vedendo, addirittura, il poeta — in quanto tale — negatore della propria filosofia.
Oltre la riduzione di Leopardi a «idillico» e a letterato la pietà per la malattia, la ricostruzione dell'ambiente della famiglia e di Recanati, molti altri elementi psicologici sono stati dei diversivi i quali hanno quasi eliminato dallo svolgimento della personalità il materialismo e il pessimismo che sono i cardini dell'arte e del pensiero.
Giacomo Taldegardo Leopardi nacque a Recanati da famiglia nobile e ligia al governo ecclesiastico. Il padre conte Monaldo (1776-1847), avverso ai principi moderni, personificava una reazione politica e di casta ben più chiusa di quella che sarà la Restaurazione e una cultura indubbiamente avvolta nel suo enciclopedismo ma reazionariamente illuministica nel senso che le strutture formalistiche dell'illuminismo venivano da lui adoperate per combattere i pericolosi principi di popolo e nazione. Nella biblioteca di quasi ventimila volumi, che nel 1812 dedicò «filiis, amicis, civibus», Monaldo oltre moltissimi libri di religione, di filosofia antica e moderna, raccolse anche quelli degli illuministi Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Condillac, Buffon, Beccaria, Pietro Verri, Gibbon, Filangieri, Lamettrie, Giannone, Maupertuis nonché Newton, Holbach, Locke etc. La madre di Giacomo, la marchesa Adelaide Antici (1778-1857), si occupava soprattutto dell'amministrazione dissestata dalle speculazioni del marito. Il figlio, che avrebbe dovuto essere avviato allo stato ecclesiastico e che nel 1810 ricevette la tonsura (più tardi lo zio Carlo Antici avrebbe voluto farne un campione della cultura reazionaria europea), fu istruito dall'ex gesuita messicano Giuseppe Torres e dal 1807 al 'l2 dal sacerdote riminese Sebastiano Sanchini:
Precettori non ebbe — dirà Giacomo di sé nel 1826 a Carlo Popoli — se non per li primi rudimenti che apprese da pedagoghi […] In quella biblioteca passò la maggior parte della sua vita, finché e quanto gli fu permesso dalla salute, distrutta dai suoi studi […] Appresa, senza maestro, la lingua greca, si diede seriamente agli studi filologici, e vi perseverò per sette anni; finché, rovinatasi la vista, e obbligato a passare un anno intero senza leggere (1819) si volse a pensare, e si affezionò naturalmente alla filosofia; alla quale, ed alla bella letteratura che le è congiunta, ha poi quasi esclusivamente atteso fino al presente.
In alcuni versi del 1810 la filosofia è guida alla Verità, rappresentata dal binomio Ragione-Religione: «per cui Ragion nel trono sublime un di si assida, — la Religion si avvivi, giubili il mondo e rida». Molto importanti sono le
Dissertazioni filosofiche (1811-12), cinque quadernetti manoscritti di studio introduttivo alla carriera ecclesiastica (
Institutiones philosophicae ad studia theologica di padre Jacquier,
Elementi di Metafisica, ovvero Preservativo contro il Materialismo, contro l'Ateismo e contro il Deismo dell'abate Sauri etc.), opere in cui gesuiti adoperano, modernamente, il razionalismo in funzione antimaterialistica: i quadernetti trattano di logica, metafisica, fisica, morale, sono un bagno nel razionalismo a fine apologetico ma il razionalismo diventerà per Leopardi il muro contro l'irrazionalismo romantico. In un primo tempo si tratta di un bagno indiretto poiché il fanciullo Leopardi conosce le dottrine degli illuministi attraverso le confutazioni fatte dagli apologeti cattolici e dai precettori domestici i quali o condannano sommariamente tutti i filosofi pagani o ne distinguono «
i filosofi spiritualistici, precursori del cristianesimo (Socrate, Platone, Aristotele inteso nel senso della Scolastica), dai materialisti (Democrito, Epicuro, Lucrezio) precursori dell'empia filosofia del secolo decimottavo
» (così Sebastiano Timpanaro al quale si devono l'inquadramento di Leopardi nel classicismo progressivo, gli studi su Giordani e le ricerche relative). Agli studi di filosofia e alla composizione di due tragedie (
La virtù indiana e
Pompeo in Egitto) seguono gli anni (1811-17) di studio filologico ed erudito «
matto e disperatissimo
» nella biblioteca paterna (traduzioni, commenti, dissertazioni su scrittori della decadenza greca e romana) durante ì quali compone anche due opere,
Storia della Astronomia dalla sua origine fino all'anno 1811 (1813) e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (scritto in due mesi nel 1815). «
Quasi senza avvedersene
» passa al culto delle «lettere belle», della poesia, del valore estetico, prediligendo in un primo tempo uno stile arcaico e puristico artificioso. La «conversione» letteraria del 1816 (anno in cui scrive
Le rimembranze, compone l'
Inno a Nettuno che finge tradotto dal greco di un vecchio codice) fu rafforzata dagli scritti di Pietro Giordani apparsi in quell'anno stesso sulla Biblioteca italiana in seguito all'articolo della Staël Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni. Ma la conversione letteraria fu a poco a poco un problema che toccò tutta la personalità di Leopardi come tentativo di trovare la pienezza vitale, la totalità contrastata dalla separatezza intellettuale e sentimentale a cui era stato costretto dalla famiglia. Essa è un aspetto della presa di coscienza, da parte di Leopardi, del proprio stato, di conoscenza della realtà che lo circondava. Il dolore è, anzitutto, strumento di conoscenza e di approfondimento dei rapporti privati, familiari, sociali, rimozione di pesi e inibizioni; la malattia mette Leopardi in diretto rapporto con la fragile macchina biologica e fisiologica umana, gli fa comprendere l'innaturalità della propria vita e cercare un compenso all'infelicità nella natura primitiva e semplice, nello stato in cui si trovavano gli antichi. Costoro non avevano avuto bisogno di modelli perché in essi immaginazione e pensiero si svolgevano naturalmente mentre i moderni, sostiene Leopardi nella
Lettera ai compilatori della «Biblioteca italiana»; (del 18 luglio 1816, ma che la rivista non pubblicò), non riescono a fare a meno dei modelli sicché «quasi tutti gli scritti nostri sono copie di altre copie, ed ecco perché sì pochi sono gli scrittori originali». In questa lettera Leopardi è vicino ai classicisti in quanto vede la letteratura italiana affine alla greca e alla latina ma è contrario all'imitazione (sostenuta di classicisti). L'antitesi natura-ragione gli fa vedere vicino alla natura il mondo antico (eroico, pratico, animato da grandi sentimenti nascenti dal repubblicanesimo laico) e dominato, invece, dalla filosofia, dal razionalismo, dall'ascetismo il mondo moderno. Il grande male è consistito nell'allontanamento dell'uomo dalla natura per mezzo della filosofia: alla virtù, passione magnanima, la filosofia ha contrapposto l'incivilimento distruttore. Tuttavia la filosofia antica non è per Leopardi rovinosa come la moderna: in essa il parziale razionalismo consente la presenza di fantasia e sentimento. Ma qualche anno più tardi Leopardi scoprirà il pessimismo anche nell'antichità che non gli sembrerà più l'età dell'eroismo e della virtù. Nel febbraio del 1817 ha inizio la corrispondenza di Leopardi con Pietro Giordani il quale aveva ricevuto, come Vincenzo Monti e Angelo Mai, la traduzione del secondo libro dell'
Eneide compiuta dal giovane. A Giordani — che nel settembre del 1818 soggiornerà cinque giorni a Recanati — Leopardi apre il proprio animo, per la fiducia che gli ispirano la mente e la coscienza del classicista piacentino. Nella prima sua vera lettera (30 aprile 1817) Leopardi, deformato nel fisico dall'anno precedente, esprime la propria condizione e il proprio disagio di dover vivere a Recanati (che chiama «
tana
», «
caverna
» e altre volte «
sepolcro di vivi
», «
Tartaro
», «
soggiorno disumano
»} dove «
tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità
», dove
unico divertimento è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia […] Non m'è possibile rimediare a questo né fare che la mia salute debolissima non si rovini, senza uscire di un luogo che ha dato origine al mal e lo fomenta e l'accresce ogni dì più.
In altra lettera dello stesso anno comunica a Giordani lo stato di costretta solitudine al quale è ridotta, la storia di un'anima, come è stata chiamata, e che è storia soprattutto di un pensiero che dal blocco gesuitico-monaldesco della cultura apologetica cattolica e dall'ideologia legittimistico-restauratrice (in seguito alla sconfitta di Murat a Tolentino Leopardi aveva scritto una
Orazione, nel 1815, esortando gli Italiani a respingere gli inganni della libertà e dell'unità) arriva a ripudiare il cristianesimo, a opporsi al romanticismo irrazionale, ad aprirsi al sentimento di patria. Nel 1817 comincia a segnare le sue riflessioni e letture nello
Zibaldone. L'anno seguente compone il
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica che doveva essere una risposta a Di Breme e che Leopardi non pubblicò mai (vedrà la luce nel 1906). All'idealismo e allo spiritualismo dei romantici Leopardi oppone il sensismo anche come poetica, come sensorialità di immagini e di parole, come suscitatore di diletto nella poesia. Purismo per Leopardi voleva dire ritorno alla natura alla quale l'età più vicina era quella degli antichi sicché non i classicisti che all'autenticità originaria della natura si ispiravano ma i romantici esaltatori dell'incivilimento portato dalla ragione sono gli imitatori, i pedanti moderni perduti dietro stravaganze. I classicisti non dovevano imitare gli antichi ma ispirarsi al sentimento vitale, patetico, quello che dalla natura promana. Leopardi al pari dei romantici condannava le regole, i canoni letterari ma faceva derivare dalla natura — con una tinta rousseauiana — la caratteristica del sentimentalismo resecando, però, ogni spiritualismo.
Il 1819 è l'anno del tentativo di fuga da Recanati e della svolta dalla letteratura alla filosofia:
La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, — scrive nel 1820 nello Zibaldone — seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819, dove, privato dell'uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose […] a divenir filosofo di professione (di poeta ch'io era).
Nel mese di luglio il tentativo di evadere da Recanati ottenendo un passaporto per Milano fu casualmente sventato dal padre («fui scoperto e impedito, non dalla forza che non valeva, ma con le preghiere
»). In una lettera al padre sottolineava la mancanza di libertà, la «differenza di principi, che non era in verun modo appianabile
», il desiderio di liberare il padre «dal continuo fastidio della sua presenza
», l'annullamento che di lui e delle sue inclinazioni avevano fatto il padre e la famiglia che non si erano presa alcuna cura della sua persona e del suo avvenire, del suo valore riconosciuto da «uomini stimabili e famosi
».
Da questa cognizione del dolore deriva la crisi del pessimismo storico del 1819 in cui è radicata l'origine alfieriana, un titanismo che si oppone al clima depresso della Restaurazione, si colora di 'eroismo politico, di repubblicanesimo classico. Da allora in poi lo stato di salute rende consapevole Leopardi della potenza della natura, gli fa scartare qualsiasi conforto religioso, spinge a fondo la critica intorno alle credenze, alla stessa organizzazione sociale, fa trovare inerme e debole l'uomo di fronte alla natura. La scoperta dell'infelicità individuale gli fa scoprire quella universale e il pessimismo radicale (o cosmico) dal 1823-24 gli fa considerare che la natura, immaginata fonte di vita primitiva e alimentatrice di sentimenti eroici, poi velatrice, con le illusioni, dell'infelicità umana, non era pietosa né materna ma nemica creatrice dell'ineliminabile infelicità umana, della corruzione del corpo, dei mali fisici, della morte. Neanche l'antichità, immune dal tarlo del razionalismo, si salvava dal pessimismo. L'uomo era minima parte della materia (più soggetta delle altre la materia fisica dell'uomo a soffrire per la sua costituzione sensoriale di piacere-dolore) infinita destinata a perire nel cieco ritmo produzione-conservazione-distruzione come tutti gli esseri, compresi quelli che sono strumento di conservazione. La conclusione del pessimismo materialistico permanente leopardiano è che «è meglio assoluto ai viventi il non essere che l'essere». Dopo i moti del 1821 e soprattutto dopo la scoperta del materialismo e del pessimismo radicale Leopardi (che dal novembre del '22 all'aprile del '23 si reca a Roma presso lo zio Carlo Amici dove visita con commozione il sepolcro del Tasso, conosce il Niebuhr) desiste dall'impegno patriottico. Gli anni 1824-27 (dal, luglio del 1825 è a Milano invitato dal libraio Antonio Stella per un'edizione delle opere di Cicerone, a Bologna dove conosce la marchesa Teresa Corniani-Malvezzi, a Firenze dove ritrovò Giordani, conobbe Colletta, Manzoni, Capponi, Vieusseux) sono quelli della maggior parte delle Operette morali (1824) e delle parentesi rassegnata, occupati nello studio di Luciano, di Platone, di Epitteto e della filosofia ellenistica. Dopo un soggiorno a Pisa e a Recanati (qui nel novembre del 1828 lo accompagna Vincenzo Gioberti) nel quale continua la composizione dei «canti» il Colletta gli procura i mezzi (venuto meno l'assegno dello Stella per l'impossibilità di Leopardi di lavorare per le condizioni di salute) per vivere per un anno. Nel 1830 è a Firenze, Alessandro Poerio gli fa conoscere Fanny Targioni Tozzetti, conosce il filosofo svizzero Luigi De Sinner, rivede Antonio Ranieri, un giovane napoletano al quale si lega di fraterna amicizia. Ottenuto un assegno mensile dalla famiglia, nel '33 con Ranieri si reca a Napoli dove conosce Augusto von Platen, dal '36 abita fino alla morte con Ranieri in una villa fra Torre del Greco e Torre Annunziata: «filologo ammirato fuori d'Italia — scrittore di filosofia e di poesie altissimo — da paragonare solamente coi Greci
» scrisse per lui Pietro Giordani sulla lapide della chiesa di S. Vitale a Fuorigrotta di Napoli.