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Neoclassicismo e purismo. La questione della lingua e la moderna posizione di Monti nella «Proposta»
Con il neoclassicismo l'artista moderno si serve delle forme dell'antichità classica in quanto linguaggi spirituali e con esse tempera e misura la propria espressione individuale. La forma classica è intermediaria tra la natura e l'artista il quale ha per ideale estetico la grazia.
Gli esiti possono essere, a seconda dei procedimenti, freddamente formalistici o ricchi di sensibilità ma in ogni caso si tratta di un filtro, di un mezzo troppo ideale perché la letteratura possa essere in contatto con la società, le arti con il popolo. Si aggiunga il fatto che l'esperienza artistica neoclassica per le scelte stilistiche stesse che compiva aveva un carattere aristocratico.
I motivi giacobini, ad esempio, versati in un modello neoclassico risentono del travestimento anche se le forme antiche servono a esaltare le nuove lotte, i nuovi compiti, non certamente — ha scritto Marx — a rimettere in circolazione fantasmi.
Nuovi contenuti e affetti, cioè, sono rivestiti di forme di bellezza antica. In quanto forma il neoclassicismo è uno stile interscambiabile, può essere temperamento del realismo, smorzatura di toni, giusto mezzo, filtro delle malinconie ultramontane, nonché veste di contenuti illuministici, sensistici, rivoluzionari, analogia di purismo linguistico.
Non sulla base di Pietro Giordani (di ritorno al primitivo) ma su quella di un arcaismo puramente linguistico propose l'imitazione della lingua toscana del Trecento il padre Antonio Cesari (1760-1828), veronese, nella Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana (1809). Il trecentismo cesariano s'inquadrava in una rivalutazione della semplicità e della pietà popolari che il veronese proponeva insieme con il purismo linguistico come fece nella Vita di Gesù (1817), nelle Novelle (1810), nel volgarizzamento dell'Imitazione di Cristo (1785).
Il purismo, che ha un momento importante con Basilio Puoti (1782-1847) napoletano, maestro di De Sanctis, sopravvisse fino alla fine dell'Ottocento attraverso una varietà di «esempi», «esercizi», crestomazie, florilegi di bello scrivere, edizioni di testi dei primi secoli e manifatture di vocabolari della lingua toscana. Il purismo nato nel Veneto alla fine del Settecento s'inquadra nella cultura classica (linguistica, archeologica, epigrafica) veneto-romagnola, giunge fino alle Marche e si prolunga nel tempo al Carducci e al Pascoli: biblioteche, accademie, seminari furono le sue sedi e anche nei piccoli centri (da Faenza a Cesena, a Savignano, Rimini, Pesaro) purismo e classicismo, con diversi indirizzi, furono intesi come strumento di italianità della lingua e di patriottismo; ma quel patriottismo, quando si volse al passato unicamente in funzione antilluministica e antifrancese, fu retrogrado.
Ben diversa da quella di Cesari — né giova creare conciliazioni posticce — è la posizione che nella questione della lingua assume Vincenzo Monti con la Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca (1817-26) che muove dalle Giunte del Cesari alla ristampa veronese, accresciuta e corretta, del vocabolario (1806-11). Occorre dire fin da principio che la Proposta (per la quale Monti ebbe come collaboratori Giulio Perticari e il filologo Amedeo Peyron) è un eccezionale documento dell'importanza culturale di Monti illuminista moderato, seguace di Cesarotti e avverso alla «dogana» del toscanesimo trecentesco.
Fin dal 1813 Monti, nemico del municipalismo chiuso, aveva cominciato a irridere sul «Poligrafo» taluni errori del vocabolario della Crusca che era risorta nel 1808, con decreto di Napoleone, come parte dell'Accademia fiorentina. Nella preparazione del vocabolario la Crusca, accademia indipendente dal 1811, aveva negato la collaborazione al milanese Istituto di scienze lettere ed arti di cui era gran parte Monti. Questi passa in rassegna nella Proposta esempi e definizioni della Crusca e di Cesari con osservazioni, dialoghi lucianeschi, apologhi, facezie, ironie, con stile brillante, pungente, contrapponendo al toscanesimo la lingua nazionale «mondata degli arcaismi e de' vani fronzoli, arricchita e pronta a sempre più arricchirsi dei termini scientifici e delle buone novità messe innanzi da scrittori anche non toscani, docile strumento al pensiero vivo ed operoso
».
Nella polemica contro il «valentuomo
» Cesari, che vede nei trecentisti solo «oro purissimo», Monti considera che le lingue seguendo «le vicende dei popoli e l'avanzamento delle cognizioni, col mutar de' costumi e col crescer delle idee mutano e crescono anch'esse le loro fogge di dire
» e che «non pe' morti, ma pe' vivi si ha da scrivere
». Se sul «sacro capo
» degli antichi riposa la riconoscenza degli uomini saggi, gli antichi, tuttavia, si inchinerebbero davanti alle «cognizioni progressive
» dei moderni, alla ricchezza della lingua derivante dal «grande raffinamento dello spirito sì nelle arti della civiltà e del ben vivere, come in quella della ragione e dell'immaginazione
». Cesari è definito il «Noè dell'italiana letteratura» il quale grida alla correzione altrui e intende salvare nell'arca solamente se stesso e la sua «piccola famiglia».
Nella Proposta Monti comprese anche due opere di Giulio Perticari (1779-1822) di Savignano, Degli scrittori del Trecento e de' loro imitatori e Dell'amor patrio di Dante e del suo libro intorno al volgare eloquio (1820), in cui Perticari ripropone la dottrina dantesca del volgare illustre che appare in tutti i secoli della letteratura e non consiste in alcuno. Perticari era meno illuminista di Monti le cui idee sulla lingua, di origine classicista-illuminista, sono più moderne di quelle manzoniane sul fiorentinismo.
Di pathos patriottico nei discorsi magniloquenti e del tono declamatorio di chi si rivolge a un pubblico senziente si anima la prosa classicistica dello storico
Carlo Botta1 (1766-1837) di S. Giorgio Canavese, autore della
Storia della guerra dell'indipendenza degli Stati Uniti d'America (1809), della
Storia d'Italia dal 1789 al 1814 (1824), della
Storia d'Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789 (1832). Queste opere, colorite e stilisticamente elaborate, accolgono più gli spiriti della letteratura morale che i concetti storici. L'autore era stato medico nelle armate repubblicane, nel 1804 deputato a Parigi di un Dipartimento piemontese e sostenitore dell'indipendenza italiana.
L'intento civile e morale di Botta si trova anche in
Pietro Colletta2 (1775-1831), napoletano, generale murattiano, liberale, scampato alla reazione del 1799 e nel 1821 relegato dall'Austria in Moravia. Qui egli concepì la
Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825 che scrisse a Firenze dove visse gli ultimi anni tra gli amici Leopardi, Giordani, Niccolini. La sua storia, viva e appassionata, è un'accusa contro lo spergiuro re Ferdinando ed è sostenuta dal sentimento civile e dalla fede nel progresso.
La vita delle popolazioni del Reame è descritta con passione da Colletta nella loro soggezione alle giurisdizioni baronali, nelle disgrazie telluriche (soprattutto il terremoto del 1783 in Calabria), nelle vendette contro i repubblicani compiute da Ferdinando IV nel 1799: «non vi ha città o regno tanto ricco d'ingegni che non avesse dovuto impoverirne per morti tanti e tali» scrive Colletta commentando le morti di Cirillo, Pagano, Ciaia, Russo, Baffi, Logoteta, la Sanfelice, la Pimentel e altre centinaia mentre il cardinale Ruffo diventava luogotenente del Regno, i briganti Fra Diavolo, Mammone erano nominati colonnelli e arricchiti «di pensioni e terre». Nella storia di Colletta manca, però un'idea direttiva e il maggior rilievo è dato alle scene tragiche della fine di Gioacchino Murat e dell'impiccagione dell'ammiraglio Caracciolo.