Capitolo

13

L'Illuminismo: metodo scientifico e letteratura


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13 - § 9

Il classicismo illuministico (lotta antitirannica, eroismo libertario) di Alfieri e la riforma della tragedia


L'Illuminismo, abbiamo visto nelle forze che lo compongono e nella diversità anche contrastante delle forme politiche e sociali, non è, come non lo è nessun fenomeno, un blocco di elementi compatti e unitari. Fondamentale è, però, la coscienza che gli intellettuali ebbero di appartenere a un'età propizia ad una migliore organizzazione del mondo, ad uno sviluppo senza precedenti delle facoltà umane. Il travaglio intellettuale di quell'età fu una funzione della maturazione delle forze borghesi, della loro volontà di costruire un mondo in cui esse fossero egemoni.
Sul piano culturale e su quello economico-sociale la borghesia, che ha diverso spessore nei vari Stati italiani, costruisce un nuovo edificio congruente con gli interessi della sua ascensione: il diritto naturale, il metodo scientifico, la mentalità individualistica connessa con la pratica mercantile, l'economia del mercato, la libera concorrenza, la dissoluzione dei vincoli gerarchici delle corporazioni, l'utilitarismo morale, il sensismo in estetica, l'uomo filosofo etc. Tutti questi interessi sono antitetici agli interessi e ai gusti dell'Alfieri che pure incarna in modo assai personale alcuni motivi fondamentali dell'Illuminismo.
Per la mentalità illuministica i nuovi eroi erano il borghese, il mercante, il filantropo, lo scienziato, i personaggi liricizzati da Parini nelle Odi con accensioni pindariche. La tragedia tradizionale del Settecento rimase un genere da tavolino per opera di Pier Jacopo Martello (che scrisse in doppi settenari rimati a coppia, detti da lui «martelliani»), di Gravina che si invetustò in una abnorme imitazione del dramma greco, di Varano terribiloquente, di Zaccaria Valaresso che nel suo Rutzvanscad fa morire ironicamente tutti i personaggi (i Mameluc, i Muezim, le Culicutidonie), di Ippolito Pindemonte i cui personaggi sono privi di vita interiore. L'unica eccezione, la Merope (1713) di Scipione Maffei, dovette la sua grande fortuna proprio alla mancanza di affetti tragici, alla compostezza serena. In luogo della tragedia trionfavano la commedia realistica, la lacrimosa, trionfava il teatro di Goldoni.
La tragedia di Vittorio Alfieri1 (1749-1803) nasce da una esperienza umana e psicologica non comune ma unica e originalissima, dalla spinta all'estremo degli illuministici desideri di libertà e lotta contro il concetto di tirannide. Queste posizioni, innestate su un temperamento proteso alla ricerca dell'autenticità esistenziale e in continua polemica e travaglio, si articolano nella crisi e nelle contraddizioni che sono nell'età sua: la lacerazione tra natura e sentimento, il contrasto tra la volontà di staccarsi dal mondo originario aristocratico e l'incapacità di accettare attivamente un altro costume.
Come uomo dell'età illuministica è avverso alla vita militare sperimentata in Piemonte e aperto al cosmopolitismo che lo porta, in virtù di un temperamento irrequieto, a viaggiare per l'Europa ma rifiuta, d'altra parte, il dispotismo illuminato costretto a sovrapporre il dirigismo centralizzato alle esigenze liberistiche economico-politiche delle forze borghesi locali.
L'illuminismo rousseauiano gli è congeniale nell'affermare il proprio libertarismo che è assoluto anche sul piano politico (contro il tiranno, l'aristocrazia, la plebe), ma la prospettiva centrale in cui si colloca Alfieri è quella del classicismo illuministico.
Abbiamo visto che in Italia il classicismo dell'umanesimo e del Rinascimento ha costituito le travature del grande edificio del rinnovamento e che da esso è derivato l'orientamento diventato metodo scientifico nell'Illuminismo. Si è visto anche che per Cesarotti il classicismo illuministico non è una formula sintetica ma soprattutto è la concezione di una poesia grande e primitiva, legata nel suo valore esistenziale e solenne alla «natura» illuministica e avente nel suo interno proprie regole di unità e di armonia e perciò classiche (ma non classicistiche che significherebbe appartenenti a scuola).
Alfieri rivive non come tradizione ma come cultura contemporanea il classicismo degli eroi di Plutarco, dei difensori della repubblica contro Cesare cantati da Lucano; la base dei suoi sentimenti libertari e antitirannici è eroica e i personaggi antichi sono modelli umani. Essi sono gli esemplari di grandezza, di dignità, di sacrificio assoluti, tanto più vicini quanto più esistenzialisticamente sentiti e interpretati e quanto più diversi dagli eroi del mondo contemporaneo disgustosi per la loro piccolezza.
La sublimità, ossia il vertice esistenziale della condizione umana, si raggiunge con la lotta a oltranza e disperata, titanica, contro il tiranno o contro la volontà superiore a quella del tiranno: l'elemento classico del Fato comporta l'intervento di forze sovrumane che agiscono in modo ineluttabile e irrefrenabile sulle passioni degli uomini.
La rivolta di Alfieri contro il Fato o la divinità ha radici nell'etica dell'eroe (non filosofo, non stoico, non cristiano, ma uomo-eroe in quanto libertario) del classicismo, nel comportamento di chi si scioglie dai vincoli pratici e dalla vita stessa per affermarsi libero in contrapposizione alle forze superiori costringenti.
Radici classiche, creazione nell'atmosfera della libertà illuministica ma esito non razionale, non storico, non borghese ha il titanismo di Alfieri. Titanismo è pessimismo nel tragico scrittore ed è legato al nodo esistenziale: questo sviluppo di lucida e insieme appassionata, agonistica opposizione (che è negazione del superiore intervento ma affermazione dell'individualismo) da Alfieri penetra nell'Ottocento italiano in cui non è da confondere con i molto più tenui — carichi di compromessi — motivi romantici, costituisce una delle più potenti nervature di Leopardi.
Per le implicazioni che ha con la crisi illuministica, ma anche per le conseguenze che la sua posizione sviluppa in tutto l'Ottocento, Alfieri non è un «poeta puro» o estraneo a ragioni letterarie (sarebbe impossibile ed egli ha una precisa poetica, una ideologia letteraria) né è più atipico, nella sua età, di altri poeti che per motivi di religione creano, come il Parini, originali equilibri etico-culturali.
Alfieri è sciolto da condizionamenti di stato e interpreta —certamente in modo più originale e diverso, non avendo avuto piede o mano in Arcadia (un piede, diceva Carducci, Parini lo ebbe) ma avendo esperienza di un'età di rivoluzioni — assai personalmente crisi e contraddizioni.
Il suo personalismo (al quale taluno chiede, senza causale, «più indulgente tenerezza» e altri la colloquialità che aveva Goldoni) risalta nella vita in cui hanno particolare rilievo: la lettura di Plutarco fra un «trasporto di grida, di pianti e di furori», fatta nella prima giovinezza e congeniale al desiderio di indipendenza e di grandezza eroica; gli irrequieti, lunghi viaggi alla ricerca di se stesso e non degli altri, della corrispondenza fra i pensieri eroici e la realtà (viaggi, perciò, in cui si maturano le negazioni e le opposizioni: al «contegno giovesco» del re di Francia, alla «universal caserma» della Prussia di Federico II organizzatore di eserciti stanziali strumenti di tirannide, alla «musa appigionata» di Metastasio alla corte di Vienna, a Caterina II di Russia «Clitennestra filosofessa»); l'entusiasmo, durante i viaggi, per i paesaggi scandinavi desolati e selvaggi, dominati da «lagoni crostati», «cupe selvone», «vasto e indefinibile silenzio» evocatore di «idee fantastiche, malinconiche e grandiose», e per i paesaggi deserti dell'Andalusia percorsi a cavallo leggendo il Don Chisciotte; la scoperta della vocazione tragica e il rifiuto della ammuffita letteratura accademica; l'amore per Luisa Stolberg di Albany, moglie di Carlo Stuart pretendente al trono d'Inghilterra; la prima stampa delle proprie tragedie iniziata a Siena nel 1783; il «pellegrinaggio poetico» alle tombe di Dante, Petrarca e Ariosto; lo scoppio della rivoluzione che lo coglie a Parigi e per la quale scrisse l'ode Parigi sbastigliata; il disgusto per le conseguenze della rivoluzione, per la «prepotenza militare» e la insolenza avvocatesca» dei rivoluzionari; la fuga da Parigi (1792) e la permanenza a Firenze.
A Parigi aveva iniziato (1790) a scrivere la Vita, documento autobiografico della vocazione tragica, ritratto degli ideali della giovinezza anelante a un'esistenza eroica. L'intellettuale libero e indipendente domina, nella solitudine che si crea intorno, incarnazione dello scrittore, che si specchia nei modelli eroici del passato, già prefigurato nel trattato Del principe e delle lettere.
Dominano anche nella Vita gli affetti malinconici e i furori («e sempre fantasticando, delirando, piangendo e tacendo, arrivai finalmente soletto in Parigi»), il disprezzo per chi non sa essere libero («codesti schiavi dominanti francesi» e «i loro schiavi serventi»), per le carte burocratiche (i passaporti sono le schiavesche patenti»), per i popolani francesi di guardia al passaggio della frontiera («manigoldi della plebe, scamisciati, ubriachi e furiosi», «scimiotigri»): vi dominano in quanto simboli di un modo di sentire esemplarmente teso verso la grandezza e sprezzante di ciò che è diverso.
Le Rime confermano nell'imitazione del Canzoniere di Petrarca il ritratto eroico, quasi tragico («pallido in volto, più che un re sul trono») di Alfieri, la malinconia che lo spinge in luoghi solitari in mezzo alla grandezza della natura (fra «orridi massi», «nere selve», «cupi abissi» che sono intorno alla certosa di Grenoble).
Alfieri muove dalla concezione filosofica dell'Illuminismo, dal sensismo e dal materialismo (conosciuto attraverso gli scritti di Voltaire, Montesquieu, Helvétius, Rousseau) ma viene svolgendo individualisticamente quei principi. Politica delle riforme, umanitarismo, spiriti utilitari e borghesi gli sono estranei e l'esito delle sue idee è pessimistico.
Nel trattato Della tirannide (1777, pubblicato nel 1789) considera la natura della tirannide che si serve di nobiltà, religione, milizia per esercitare il potere, «facoltà illimitata di nuocere». Tiranno e suddito si temono a vicenda e l'uomo si può mantenere libero col suicidio, con la solitudine sociale, col tirannicidio. L'avversione di Alfieri al dispotismo del sovrano coinvolge oligarchie e democrazie in cui potere esecutivo e legislativo sono uniti. Negli ultimi anni Alfieri, deluso per gli avvenimenti francesi e italiani, ammiratore della costituzione inglese, vagheggiò una sorta di monarchia costituzionale in cui il potere legislativo appartenesse a un'assemblea di nobili. Delle rivoluzioni Alfieri amò solitamente l'ardore insurrezionale e subì la delusione del riflusso in un ordine determinato (così anche per la rivoluzione americana per la quale scrisse le odi di L'America libera).
Il trattato Del principe e delle lettere (1777-86) in tre libri delinea la figura del libero scrittore che assolutamente indipendente riesce a «essere quasi che un Dio». Del libero scrittore è caratteristico «l'impulso naturale», cioè «un bollore di cuore e di mente […], una sete insaziabile di ben fare e di gloria». Il Panegirico di Plinio a Traiano (1785) s'immagina tenuto da Plinio per persuadere l'imperatore a ristabilire la repubblica.
Gli altri scritti minori documentano la personalità dello scrittore: le Satire in terza rima sono scritte da un Alfieri «or fremente ed or sogghignante», contro la mancanza di libertà e ciò che egli disprezzava della società del suo tempo (re, commercio, pedagogia, plebe, ceti medi, umanitarismo); gli Epigrammi e il Misogallo (1793-99), quest'ultimo scritto in odio ai Francesi e per esaltazione dell'Italia che «inerme, divisa, avvilita, non libera ed impotente» sarebbe un giorno risorta «virtuosa, magnanima, libera ed una»; le commedie in endecasillabi sciolti di cui quattro (L'uno, I pochi, I troppi, L'antidoto) sono dirette a svelare i danni di tirannide, oligarchia, democrazia e a proporre una monarchia costituzionale aristocratica e due (La finestrina, Il divorzio) di satira morale.
L'urto dell'individuo-eroe con i limiti della realtà genera in Alfieri passione, furore, malinconia:
  1. Sperar, temere, rimembrar, dolersi;
  2. sempre bramar, non appagarsi mai;
  3. dietro al ben falso sospirare assai;

  4. [...]
  5. ira, vendetta, libertade, amore,
  6. suonava io sol, come chi freme ed ama.
Sono questi alcuni dei nuclei tragici che esaltano l'individuo nel suo desiderio di libertà. Il presente mediocre, intricato e caliginoso, ostacolo alla manifestazione della volontà eroica, sospinge lo scrittore a sentire il classicismo come cultura contemporanea.
Nell'affermazione eroica è un titanismo tragico nella sostanza, un sentimento vergine e primitivo che dilata ed esalta le zone sentimentali della fine del Settecento. Per tale condizione umana generatrice di pessimismo, in cui si annega l'urto contro i limiti posti dall'uomo con le leggi della società e da una volontà superiore con i decreti del Fato, Alfieri prepara gli stampi eroici della nuova generazione. Inoltre non trova difficoltà a riportare la tragedia alle primitive forme classiche, sfrondando gli elementi francesizzanti e osservando le tre unità in quanto la tragedia rappresenta l'acme delle passioni e la catastrofe.
Dalla prima (Filippo, 1775-76) all'ultima (Bruto secondo, 1786-87) le diciannove tragedie furono composte in tre momenti: ideazione (distribuzione della materia in atti, scene, personaggi e schema delle loro parti), stesura (dialoghi scritti in prosa fino ai pensieri accessori), verseggiatura (composizione in versi eliminando l'accessorio e curando lo stile).
Il vigore della prima ispirazione scendeva così nel reticolato lirico e gli effetti da cui la tragedia era animata insegnavano agli uomini ad essere «liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d'ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei propri diritti e in tutte le passioni loro ardenti, retti e magnanimi».
L'umanità rappresentata ha i tratti del modello ideale e del sublime perché possa servire come utile esempio, i personaggi sono tratti dalla grande storia greca e romana (Antigone, Virginia, Agamennone, Merope, Sofonisba, Mirra etc.) o ebraica (Saul) o sono figure di re e principi (Filippo, Maria Stuarda, Rosmunda, Don Garzia etc.). L'azione è semplificata, i personaggi sono pochi perché i sentimenti scendano impetuosi e violenti, lo stile sia denso e conciso, i versi duri, spezzati, incisivi, con grande effetto lirico.
Quest'organismo tragico presenta un mondo di eroi e di maestà, il Fato che domina sulla volontà umana, i delitti del dispotismo, il conflitto fra l'amore per la libertà e la tirannide, la lotta di due volontà avverse. Dall'incombenza del Fato può derivare un'apparenza di inverosimiglianza psicologica ma l'oltranza fatalistica è necessaria a creare la sublimità e il palpito esistenziale nei personaggi.
Più eloquenti sono i caratteri di alcune tragedie della libertà (Bruto primo, Bruto secondo, Ottavia, Virginia), le quali esaltano il sentimento di patria che con la Rivoluzione e con le repubbliche francesi comincia a serpeggiare per l'Italia. Esse furono proibite dai governi dispotici e costituirono, invece, i modelli del teatro «patriottico» giacobino del quale alimentarono anche le rappresentazioni di vita contemporanea.
Il Saul (1782) e la Mirra (1786) sono le tragedie artisticamente meglio riuscite. Fonte del Saul è la Bibbia alla cui lettura Alfieri si era infiammato del «molto poetico» che da essa può nascere.
Saul titano prende coscienza del proprio fallimento, e con il sentimento e la volontà urta contro la ragione e i limiti. Egli vive nel contrasto fra le ambizioni e la realtà e la sua condizione perpetua è di chi vuole affermare la propria personalità ed è consapevole che gli sforzi finiranno nel nulla che egli invoca e desidera affrettare.
Il re ha l'individualità energica e dominatrice dei tiranni e degli eroi; David, Gionata, Micol sono gli affettivi, Achimelec e Abner i politici del sentimento religioso ma tutti costoro vivono nella tempesta di Saul, sono raggiunti dalle onde procellose.
Saul corre verso la morte in combattimento ma quando la morte gli sarà preclusa, perché è sopraggiunta la sconfitta, e quando i suoi figli saranno morti combattendo, egli si darà la morte contro la forza superiore e per affermare la propria libertà e il proprio eroismo.
Nel protagonista, titano sconfitto, l'individualismo ha una nota di tragica fatalità. Mirra innamorata del padre lotta contro se stessa e invano cerca di resistere alla passione che sente colpevole e peccaminosa. Il conflitto interno, nascosto a forza, è rivelato dopo lunga angoscia e la donna si uccide con la spada del padre stesso, in una disperazione che cerca la libertà nella morte.

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