Capitolo

13

L'Illuminismo: metodo scientifico e letteratura


PREMIO ANTONIO PIROMALLI
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13 - § 2

Gli illuministi italiani: idee riformatrici ed estetiche


Anche l'Italia partecipò al movimento illuministico nel quale per la prima volta con l'intervento degli intellettuali progressisti nella cultura scientifica e nelle riforme si riprendeva la linea del naturalismo rinascimentale. Le dottrine empiristiche e sensistiche consentono di polemizzare contro le sopravvivenze del Seicento, della controriforma, contro le leziosaggini dell'Arcadia esaurita e bamboleggiante.
Ma l'illuminismo è un movimento complessivo, non soltanto letterario e perciò i suoi intellettuali individuavano le contraddizioni esistenti in Italia per il permanere di abusi feudali, di privilegi dell'aristocrazia e del clero, della «manomorta» ecclesiastica formata dalla proprietà terriera inalienabile costituita da censi, donazioni. Pur essendo il movimento italiano inferiore a quello europeo (che scaturiva da una vigorosa borghesia), ci fu in Italia la consapevolezza del collegamento con i problemi economici, politici e culturali e con la linea di pensiero rinascimentale interrotto dalla controriforma e sopravvissuta solo nel metodo galileiano.
Gli illuministi italiani furono delle punte avanzate, delle minoranze nei confronti della vecchia cultura rappresentata in tutti i centri da vecchi letterati, arcadi, eruditi, sostenitori resistentissimi di idee controriformistiche. Questa cultura fu tenacissima nella conservazione della tradizione più logora accresciuta, come in altri paesi d'Europa, dalla grande paura della Rivoluzione francese che generò in quell'ambiente un riflusso reazionario, poi sanfedistico, borbonico, ostile nell'Ottocento allo sviluppo del Risorgimento.
Il legame, invece, delle punte avanzate dell'Illuminismo con la politica delle riforme matura gli intellettuali che proprio dalle idee della Rivoluzione elaborano i motivi che sono alla base del concetto risorgimentale di nazione libera e indipendente. I rami delle dinastie straniere trapiantati a Firenze, Parma, Napoli si slegano dai tronchi di Vienna e Madrid, si trasformano in dinastie italiane. Non è più l'Italia della plebaglia ignorante dell'età della controriforma e della decadenza, i suoi grandi centri accolgono i germi dell'avvenire.
A Napoli la nuova generazione erede di Giannone e Vico sviluppa le proprie idee sotto il regno di Carlo III di Borbone (1738-59), riformatore assistito dal ministro Bernardo Tanucci, e di Ferdinando IV. Il regno soggiaceva ai privilegi dei nobili e del clero, all'inefficienza delle amministrazioni locali, alla mancanza di strade e comunicazioni: terribili furono la carestia del 1764 e il terremoto che devastò la Calabria e Messina nel 1783.
Le opere principali del filosofo ed economista Antonio Genovesi1 (1712-69) di Castiglione (Salerno) nascono polemicamente nella consapevolezza delle contraddizioni strutturali del Regno e grandissima fu l'influenza del suo insegnamento di etica ed economia nelle città e province in cui gli allievi portano voci di cultura e di rinnovamento.
Fu allievo di Vico e insegnò metafisica nell'università di Napoli ma dopo avere conosciuto Bartolomeo Intieri, un toscano napolitanizzato fautore delle riforme giurisdizionali e agrarie, dalla prima cattedra europea di economia politica venne divulgando — per la prima volta in lingua italiana — le teorie economiche collegandole con la necessità di una riforma che abolisse i privilegi dei baroni, le ingerenze cattoliche nel potere temporale.
Illustrava la distanza infinita che esisteva fra gli uomini colti e le masse contadine, tra i grandi proprietari e gli affittuari senza terra, i compiti che spettavano agli uomini colti nella diffusione dei lumi dell'istruzione.
Le sue Meditazioni sulla religione e sulla morale e le Lezioni di commercio lo resero un caposcuola; nel Discorso sul vero fine delle lettere e delle scienze (1753) esaltò le nuove idee illuministiche:

L'Europa cambiò faccia. Ciascuna delle generose sue nazioni ebbe un Ercole uccisore de' mostri che la infestavano, e dimostratore delle vie del vero sapere. L'Italia […] all'antica gloria del saper militare, della politica, delle belle arti, aggiunse quella di aver prodotto Galileo, una di quelle oggimai che le può essere invidiata. Si vide allora un'astronomia, senza essere mentitrice astrologia, una geometria non oziosa, ma perfettrice delle meccaniche […] Eravamo avvezzati alla gloria delle inutili sottigliezze e della ciarleria….

I seguaci di Genovesi furono schiere e cominciarono a lottare contro il legalismo degli avvocati che saldava l'assolutismo tradizionale del potere monarchico e gli abusi sterminati dei poteri locali in tutto il Regno. Un gruppo (Gaetano Filangieri, Francescantonio Grimaldi, Francesco Mario Pagano) acuì la polemica contro il feudalesimo e si volse al passato per rintracciare le origini degli abusi; un altro gruppo (Giuseppe Maria Galanti, Giuseppe Palmieri, Melchiorre Delfico), pur esso antifeudale, si legò ai problemi concreti e cercò i mezzi per abbattere il potere baronale che verrà abolito, anche in seguito alla polemica, da Giuseppe Bonaparte e da Gioacchino Murat.
Gaetano Filangieri2 (1752-88) organizzò nella Scienza della legislazione (1780-85) le idee per una riforma della società servendosi di tutti i rami della scienza giuridica, politica, sociale e proponendo la necessità di una codificazione moderna che da Napoleone sarà indicata come modello. Il suo ottimismo serve per mantenere il rigore ideale della trattazione

(Il popolo non è più schiavo, ed i nobili non ne sono più i tiranni. Il dispotismo ha bandito nella più gran parte dell'Europa l'anarchia feudale, ed i costumi hanno indebolito il dispotismo. Se prima non si urtava la gran macchina de' feudi, niuna riforma utile era da sperarsi nelle leggi).

Giuseppe Maria Galanti3 (1743-1806) di Santacroce nel Molise, allievo di Genovesi, scrisse delle Relazioni dei suoi viaggi in Puglia, nel Molise, in altre regioni e la Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, un'opera di statistica comparata e di analisi delle ingiustizie feudali. Lo stato dei contadini nel Molise è uno spaccato importante dei contributi illuministici allo studio della questione dell'arretratezza meridionale, problema fondamentale della vita italiana fino ai nostri giorni. Oltre le decime feudali i contadini dovevano pagare le decime ecclesiastiche, le tasse dello Stato sui beni e sulla persona:

Deve [il contadino] alimentare i monaci mendicanti […], alimentare un medico, e quell'altro genere di persone bisognose, che diconsi governatori. I piccioli reati, che in Napoli meritano l'indulgenza, in provincia si espiano col denaro […]. Per ogni menomo trascorso, e talvolta supposto, un povero contadino è imprigionato, e per le cause più ingiuste gli si sequestrano e vendono i beni, fino un asino che talvolta è tutto il suo patrimonio, fino gli strumenti del suo lavoro. […] Le loro case non sono che miserabili tuguri, per lo più coperte di legno o di paglia, ed esposte a tutte l'intemperie della stagione. L'interno non offre a' vostri sguardi che oscurità, puzzo, sozzura, miseria e squallore; un misero letto insieme col porco e con l'asino. Chi 'l credebbe! in seno di Terra di Lavoro vi è un villaggio, quindici miglia lontano da Napoli, dove una popolazione di duemila contadini abitano nelle pagliaie, e non hanno modo da fabbricarsi una casa. La prima volta che io vidi questo luogo, imaginai di trovarmi tra' selvaggi […]. Tal è la miseria in cui vive il coltivatore che non potendo, per povertà, cuocere il pane nel forno, usa le focacce che diconsi cinericie, perché cotte sotto la cenere. Questa è la sola libertà che talvolta gli accordano gli abusi feudali.

Questo è il desolato quadro plurisecolare delle condizioni di vita del contadino meridionale a cui era, inoltre, proibito macinare il suo grano in mulino diverso dal feudale, cuocere il pane fuori del forno feudale. Il suo destino, conclude Galanti, è «di essere sempre oppresso ed ingannato […]. Come si tratta d'implorare il soccorso del magistrato superiore, il contadino si spaventa, e soffre in pace qualunque vessazione». Francesco Mario Pagano4 (1748-99) nell'opera Del civile corso delle nazioni studia le leggi del progresso storico.
Francesco Longano (1729-96) di Ripalimosano fu alla scuola di Genovesi, sostenne il principio dell'egualitarismo e nel Viaggio per la Capitanata studiò la situazione di quella regione mettendo in luce i pesi a cui essa era soggetta per mantenere magistrati, truppe, «splendore regio» («Di qui deriva la sorgente indisseccabile dei tributi e dei dazi […]. In oltre si paga per lo bue, per lo cavallo, per la pecora. Infine per la casa, vigna, industria […]. Il campagnuolo è più d'ogni altro premuto, vessato, tribolato») o anche per opera dei baroni (i quali impedivano a chi lavorava «di non poter estrarre l'oglio, macinarsi il grano, macerarsi il lino, vendere le sue derrate, tagliarsi un arbore, pascolare i propri bestiami»).
Longano studia, prima che Padula lo faccia per la Calabria, lo stato delle persone in Capitanata. La classe «di oziosi» è ordinariamente ritenuta

un propugnatolo ed una rocca del trono. Da ciò nacque una quasi separazione del popolo, diviso in nobili e in plebei. Arricchito il primo ceto collo spoglio de' plebei, cominciò a insolentirsi e a riputare i campagnuoli tanti vili giumenti destinati a formare la loro opulenza e a soddisfare ai loro smoderati desideri. Di qui l'abbiezione della gente di campagna e il suo massimo avvilimento.

Longano depreca l'ignoranza delle cognizioni agrarie, la prosopopea degli uomini istruiti nei confronti dei contadini (il giovane che si laurea a Napoli e tornato nel paese «odia a morte la campagna co' tutti i campagnuoli, e gli infama co' nomi di 'villani', di 'cafoni', di 'coppolini'»), i pregiudizi dei contadini relativi al modo di coltivare la terra, il basso prezzo annuo dell'affittanza come ostacolo alla miglioria dei fondi, la mancanza di ricoveri nelle campagne lontane dagli abitati, «l'idea d'ignominia scioccamente attaccata» all'agricoltura e che disanima chi coltiva i campi e allontana chi vorrebbe coltivarli.
Queste «inchieste» meridionalistiche nascono dalla ricognizione di una realtà storico-sociale feudale e sono la premessa delle future inchieste del secondo Ottocento, sono ispirate da una volontà di esposizione scientifico-democratica e fanno spicco in tutto il secolo per la modernità ideologica e speculativa.
Si suole dire che l'Illuminismo napoletano è più speculativo e utopistico di quello lombardo orientato praticamente ma le inchieste e relazioni da noi indicate e molte altre delle quali non abbiamo parlato sono contributi assai validi non solamente per l'analisi delle questioni ma anche per gli interventi tecnici e politici. In realtà gli illuministi meridionali sono sparsi nel Regno e, annegati nel mare del contadiname, vivono da intellettuali isolati o se fanno parte delle sfere dirigenti non trovano, nel contesto feudale, udienza politica e le loro voci sono soffocate dagli interessi dei feudatari e dell'alto clero. Ben diversa era la funzione degli intellettuali lombardi viventi presso i centri di potere e perfino superati dai grandi disegni riformatori dei sovrani austriaci e dei loro politici come il Beltrame e il Firmian.
Gli illuministi meridionali operano in strutture feudal-ecclesiastiche e in sovrastrutture di superstizioni e ignoranza, rarefatta e contingente è la volontà politica ad essi favorevole. L'interesse generale verso i problemi tecnici e specifici dell'Italia meridionale è nel Regno quasi inesistente e le idee non si realizzano nei disegni dei sovrani e dei feudatari aristocratici. Non pochi illuministi, come Vincenzo Russo, Pagano, Cirillo, cadranno vittime della reazione della Santa Fede.
Un aristocratico progressista moderato come Domenico Grimaldi5 (1735-1805), fratello di Francescantonio, non trova udienza neanche presso i feudatari circonvicini ai suoi possedimenti in Calabria quando propone l'importazione di nuove culture quali quella della canapa, del cotone e del trappeto alla genovese per la morchiatura dell'olio. Appartenente al ramo calabrese dei Grimaldi di Monaco, Domenico Grimaldi nacque a Seminara (Reggio) e fu scolaro del Genovesi. Esperto di agricoltura, studiò la coltivazione degli ulivi, la tecnica dell'arte della seta esercitata dai genovesi in Calabria, fu a contatto con l'accademia fiorentina dei Georgofili e istituì un rapporto tra i più avanzati sistemi di conduzione agricola d'Europa e le condizioni arretrate dell'agricoltura calabrese.
Seminara per opera sua diventò un centro di sperimentazione di macchine agricole straniere, di coltivazione degli agrumi, del grano saraceno e soprattutto dell'erba detta «sulla» che avrebbe avuto un posto notevole nell'economia meridionale. All'aratro locale «mal concio ed irregolare» sostituì l'aratro mantovano, migliorò la pastorizia, dedicò grande cura all'irrigazione prendendo esempio dalle campagne padane. Dalla Svizzera, da Genova fece venire in Calabria tecnici ed esperti.
Il rinnovamento della tecnica doveva essere legato alla riforma economica e questa doveva derivare dall'istruzione («Si devono istruire persone idiote, sempre tenaci delle vecchie credenze») per mezzo di scuole di applicazione. Istruire, rinnovare, trasformare per migliorare sono i concetti di Grimaldi le cui idee vennero esaltate da un teorico illuminato come il Salfi, dai riformatori napoletani ai quali fu vicino quando, dopo il 1783, andò a risiedere più abitualmente nella capitale.
La delusione per incomprensione dei suoi propositi, la rovina economica dopo il terremoto del 1783 accompagnano il declinare della vita di Grimaldi che per avere accolto le idee massoniche è arrestato a Reggio nel 1797 e imprigionato a Messina. Suo figlio Francescantonio fu decapitato dalla Santa Fede. Nelle opere Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra (1770), Istituzioni sulla nuova manifattura dell'olio (1773), Piano di riforma per la pubblica economia (1780) dimostrò di aver compreso le necessità della Calabria: istruire il popolo, preparare tecnici dell'agricoltura, contrastare il clero sopraffattore.
Il fratello Francescantonio (1741-84) studiò lo stato dei benestanti e il loro «vivere civile» («un misto bizzarro di vita semplice e campestre, frammischiata dai vecchi pregiudizi dei secoli barbari e d'ignoranza, e condita, di quando in quando, del lusso e de' costumi correnti della città colla quale hanno spessa comunione. La sfera delle idee di questi individui è ristrettissima»), l'ineguaglianza degli uomini come conseguenza dei bisogni, approdando all'idea di sviluppo e di progresso.
Il rinnovamento della società e dell'uomo fu propugnato in Calabria anche da Antonio Jerocades6 (1738-1803) di Parghelia, che a Napoli conobbe Genovesi, Cirillo, Pagano, fu repubblicano, fondatore di logge massoniche ed ebbe rapporti con le società dei massoni di Marsiglia. Il suo illuminismo, sfociato nel giacobinismo, fu soprattutto pedagogico nel Saggio dell'umano sapere e nelle liriche della Lira focense.
Della Calabria già nel 1743 Giacomo Casanova aveva sottolineato l'«affliggente aspetto della miseria, la mancanza assoluta di quel piacevole superfluo che rende sopportabile la vita, e la degradazione di quella specie umana, così scarsa in una contrada ove potrebbe esser molto abbondante». Casanova osservava anche che i contadini erano schiacciati dal feudo, paralizzati da un'economia arcaica, dalla mancanza di commercio e l'abate Ferdinando Galiani, invitato dal re Ferdinando per riferire sulle conseguenze del terremoto del 1785 scriveva che i mali principali erano la prepotenza dei baroni, il peso della manomorta del clero, l'arretratezza del popolo che non avendo mezzi per ricorrere al sovrano cadeva «sotto il braccio del barone».
Tutto il Regno, dominato per secoli da classi parassitarie, immobili e conservatrici, era frazionato in feudi privi di traffici, di consumi, di danaro. Dal feudo e dal latifondo le plebi rurali continuavano ad alimentare un brigantaggio di difesa e di opposizione.
Con Carlo III di Borbone (1734) si ebbe un inizio di riforme: col catasto onciario (1741) si cercò di fare prevalere il sistema della tassazione diretta, col frazionamento dei feudi si mirò a creare una classe di medi e piccoli proprietari terrieri e di un borghesia commerciale e professionista. Al rafforzarsi della borghesia non corrispose l'elevazione delle condizioni delle plebi rurali e cittadine, delle moltitudini indigenti e affamate.
A tale contesto sociale unico in Europa e variamente articolato nelle diverse regioni del Regno gli illuministi si ispirano nelle loro opere cercando di favorire il miglioramento generale: Genovesi definiva «vano e nocevole» lo studio che non avesse come fine «la soda utilità degli uomini» e con lui l'economia politica si distingue dalla filosofia morale che l'aveva assorbita (con il commercio interno, egli scrive, «le classi lavoratrici, base della repubblica, trovando a faticare, trovano da vivere onestamente e da dilatarsi»); Filangieri rifiutò la politica di potenza perseguita dai principi, richiamandosi alle condizioni dei popoli del Regno («Tutti i calcoli, che si sono esaminati alla presenza de' Principi, non sono stati diretti che alla soluzione d'un solo problema: trovar la maniera di uccidere più uomini nel minor tempo possibile»).
Legato alle posizioni illuministiche, di cui fu anche critico, Ferdinando Galiani7 (1728-87) di Chieti visse vari anni in Francia come segretario dell'ambasciata napoletana, conobbe la d'Epinay, la Necker, la Geoffrin, Diderot, d'Alembert, Marmontel, Grimm e fu assai apprezzato per lo studio brillante, scettico, materialista. Fin dal 1751 aveva scritto il trattato Della moneta che fu conosciuto in tutta Europa sostenendo la supremazia dell'agricoltura sul commercio mentre quando a Parigi scrisse i Dialogues sur le commerce des blés (1770) considerò soprattutto l'importanza delle manifatture e dell'industria per la circolazione della ricchezza che esportano, per la «guarigione dei grandi mali dell'umanità, la superstizione e la schiavitù» che possono causare, per la regolarità del reddito delle imposte che producono, per l'equilibrio che ristabiliscono alla precaria economia dell'agricoltura alterata dall'incerto andamento delle stagioni.
Galiani vedeva anche i danni che dalla carestia alimentare derivano a una nazione: il commercio è in perdita perché il danaro esce dalla nazione, gli stranieri commercianti approfittano della situazione, fanno nascere nuovi desideri, corrompono i costumi, defraudano i piccoli con prestiti a usura, il danaro si concentra in poche mani (nelle proprietà della chiesa, nei signori, in pochi commercianti). Il realismo dell'intelletto rese scettico Galiani che, tuttavia, fu uomo di avanguardia europea lottando contro il mondo erudito e accademico, favorendo il dialetto (scrisse Del dialetto napoletano e, postumo, fu pubblicato un suo Vocabolario napoletano), le letterature moderne. Sua fu l'idea del Socrate immaginario (commedia in versi scritta da G. B. Lorenzi e musicata da Paisiello), satira dell'infatuazione classica di Saverio Mattei. Si suol dire che Galiani non comprese la necessità di radicali riforme politiche e sociali ma, a parte il suo cosmopolitismo, egli seppe indicare, come abbiamo visto, i mali principali del Regno nella prepotenza dei baroni e nella manomorta ecclesiastica.
Alle applicazioni della scienza alla tecnica del lavoro, all'economia pubblica, all'agricoltura, alla chimica, all'elettronica volgono la mente gli illuministi lombardi i quali sono a contatto con una borghesia attiva e partecipe al processo di sviluppo economico dello Stato. Essi si trovano nelle condizioni di potere svolgere un'azione politica collaborando alla gestione delle riforme promosse da Maria Teresa e Giuseppe II.
Il «Caffè» (1764-66), giornale dei fratelli Verri, costituì il punto di incontro di molti «philosophes» e della loro ideologia aperta alla cultura oltremontana e al miglioramento della società. Il modo immediato di far sentire la loro presenza fu la partecipazione alla pratica quotidiana dell'amministrazione asburgica in Lombardia e non fu un modo facile perché anche su di essi agivano i vincoli che ostacolavano l'Illuminismo italiano: l'assolutismo che, sebbene illuminato e sebbene promotore di riforme ad esso politicamente necessarie, circoncluse lo sviluppo illuministico resecando le punte rivoluzionarie; il frazionamento politico-territoriale facilmente superabile dai movimenti formalistici che favoriscono gli atteggiamenti olimpici o considerano l'uomo in generale come fa il classicismo, ma scoglio assai arduo per le correnti culturali legate alle strutture e tendenti alla loro modificazione; la politica culturale della Chiesa non più trionfante, diversa da quella del Seicento ma tesa a spuntare le ideologie in quanto analisi delle idee, il sensismo quale base di conoscenza e ad accordarlo con lo Spirito come momento primario e grezzo; l'aristocrazia chiusa nei miti di raffinatezza ed eleganza ma anche nel concetto di predominio.
Il frazionamento politico e la mancanza di un folto e aggregato ceto borghese furono impedimenti gravissimi soprattutto nel Napoletano in cui gli intellettuali, giova ripeterlo, rimasero isolati nei borghi e nelle loro scuole. Il moderatismo riformistico, le astrazioni utopistiche derivano dalla mancanza di appoggio e di pubblico e, se a Napoli Genovesi scriveva in modo involuto, a Milano Parini aspirava a rinnovare i costumi con una satira letteratissima e odorante di lucerna. Scarsi canali esistevano fra gli illuministi e le popolazioni prostrate dall'ignoranza o covanti in modo improduttivo i loro miti che erano millenarie e profonde aspirazioni al rinnovamento legate al cristianesimo e alla filosofia del senso comune.
Intese molto bene la necessità di creare un gruppo di lavoro attivo e di gettare le basi per la formazione di una nuova classe dirigente il milanese Pietro Verri8 (1728-97) e il quale per primo creò a Milano un centro di idee collegate con la realtà politica, sociale, economica.
Questo centro ha in sé lo slancio vitale che farà di Milano la sede della più organica, realistica, impegnata cultura in tutto l'Ottocento e di alcuni importanti momenti del Novecento italiano. Sua caratteristica non è il classicismo tradizionale, ormai simbolo di una sopravvivenza senile, improduttiva, priva di idee e meramente letteraria ma la presenza dello scrittore come uomo che si rende conto di vivere in strutture contemporanee e che ad esse si rivolge per comprendere i problemi dell'organicità in cui ha grande parte la funzione economica. Tale scrittore non è un astratto letterato ma un borghese concreto il quale lotta contro i particolarismi, la nobiltà in decadenza, partecipa allo sviluppo di una società civile che ha come impaccio i privilegi ecclesiastici e quelli nobiliari.
L'Illuminismo è l'insopprimibile aggregazione scientifica che sospinge nell'Ottocento la cultura lombarda, rende europea la regione, potente e fervorosa guida creatrice di attività. Nel Settecento la Lombardia inizia quella «organizzazione» civile che è una costante significativa del suo progresso, attua riforme di struttura come la canalizzazione delle campagne, svecchia col giansenismo l'involuta e immobilistica tradizione religiosa barocca, collabora al riformismo asburgico in quanto organizzativo (anche se necessario agli interessi dinastici e imperiali) e concreto.
Alla fine del secolo Pietro Verri, ripensando al modo in cui specificamente gli intellettuali illuministi avevano operato nella loro polemica «costruens», scriveva al fratello Alessandro: «Tra pochi anni l'Italia sarà una famiglia sola probabilmente». Di questi illuministi Pietro Verri fu la mente organica. Di famiglia nobile, conobbe i sistemi educativi nelle scuole Arcimboldi di Milano (dove fu con Paolo Frisi), negli Scolopi di Roma, nei Gesuiti di Brera, nel collegio dei Nobili di Parma.
Ribelle al chiuso ambiente familiare fece parte dell'Accademia dei Trasformati, studiò i filosofi francesi e inglesi, partecipò alla guerra dei Sette anni. Al suo ritorno a Milano (dove fu innamorato della duchessa Serbelloni) fondò con Alessandro, Frisi, Beccaria, Carli, Secchi e altri la Società dei Pugni (1761), redasse il «Caffè», espressione della cultura illuministica rinnovatrice. Dopo essere stato a Parigi (1766) e scioltosi il gruppo del «Caffè» fu chiamato dal governo di Maria Teresa a entrare nell'amministrazione incaricata di attuare le riforme nel Milanese e scrisse saggi di economia, bilanci generali di importazioni ed esportazioni, dialoghi (tra Giuseppe II e un filosofo, tra Pio VI e Giuseppe II a Vienna: qui il papa si era dovuto recare, e invano, per implorare che l'imperatore abbandonasse la politica antitemporalistica), sulla decadenza del papato (la Chiesa aveva dovuto sopprimere addirittura l'ordine dei gesuiti). Dalla politica austriaca si era venuto allontanando per disaccordi sul modo di attuare le riforme e aveva cominciato a vagheggiare l'idea di una monarchia costituzionale. La Rivoluzione francese gli accese nuove speranze che furono in lui deluse dall'invasione napoleonica; nel 1796 fu membro della Municipalità provvisoria, cercò di capire le ragioni della Rivoluzione ma fu diffidente di fronte alla maggioranza giacobina.
A Milano le idee degli Enciclopedisti francesi si incontravano con i modelli riformatori asburgici. Le idee di Locke, Condillac, Helvétius ispirano il rapporto con le condizioni della Lombardia della quale Verri e gli intellettuali del «Caffè» studiano gli elementi della società civile, muovendo dal concetto di letteratura e di lingua.
Questa rivista ebbe come modello il giornalismo inglese di Steele, Swift, Addison. Pietro Verri precisò che essa aveva «il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri cittadini», Alessandro scrisse in un articolo (in cui il gruppo illuminista milanese rinunziava «avanti notaio» al vocabolario della Crusca come simbolo della tradizione puristica e pedantesca, della letteratura fatta di parole) che gli autori del «Caffè» preferivano «le idee alle parole», che nessun timore del Casa, del Crescimbeni, del Villani poteva trattenerli dal richiedere la libertà di esprimersi al di fuori del purismo cinquecentesco («Se il Mondo fosse sempre stato regolato dai Grammatici, sarebbero stati depressi in maniera gl'ingegni, e le scienze che non avremmo tuttora né case, né morbide coltri, né carrozze, né quant'altri beni mai ci procacciò l'industria, e le meditazioni degli uomini»).
Il linguaggio antiretorico è per Pietro Verri in funzione dello «spirito geometrico», scientifico, guida all'analisi, metodo per trasformare organicamente la cultura. La concezione che egli ebbe dell'arte nel Discorso sull'indole del piacere e del dolore (1772) è edonistica. Dal dolore «principio motore di tutto l'uman cenere» deriva ogni attività dell'uomo come stimolo e conoscenza. Anche all'origine del piacere estetico stanno forme «annebbiate ed equivoche» come il tedio, la noia, l'inquietudine, la malinconia che possono essere alleviati dai piaceri della musica, della pittura, delle arti, le quali purificano l'anima e'anche l'uomo oppresso dalla tetraggine, per i loro effetti, «godrà un piacere fisico reale, cioè sarà rapidamente cessato in lui ciel dolore innominato, da cui nasceva la tristezza» («Così l'idea terribile del dolore è l'archetipo di quella serie di purissimi piaceri, che fanno la delizia delle anime più delicate e sensibili»).
Oltre le Meditazioni sull'economia politica (1771) e il Discorso sulla felicità (1763) scrisse sul «Caffè» i Pensieri sullo spirito della letteratura d'Italia contro i pedanti della letteratura (gli «aristotelici delle lettere», «tenaci adoratori delle parole»: «immergeteli in un mare di parole […] sono essi al colmo della loro gioia. Mostrate loro una catena ben tessuta di ragionamenti utili, nuovi, ingegnosi, grandi ancora; […] ve lo ributtano come cosa degna di nulla»), alcune pagine favorevoli al Goldoni le cui commedie hanno per base «un fondo di virtù vera, d'umanità, di benevolenza, d'amore del dovere, che riscalda gli animi», altre contrarie al Parini per l'eccessivo ossequio del poeta del Mezzogiorno alla tradizione.
Assai importante per la cultura e la storia del Settecento è il carteggio monumentale con il fratello Alessandro (1741-1816) il quale si venne distaccando dagli ideali del «Caffè» e fu autore delle Avventure di Saffo e delle Notti romane.
Milanese fu Cesare Beccaria9 (1738-94), anch'egli di nobile famiglia con la quale venne in contrasto per sposare Teresa Blasco. Il governo austriaco gli affidò la cattedra di economia politica istituita per lui e più tardi un incarico amministrativo nel Magistrato camerale.
Enorme influenza ebbe il trattato Dei delitti e delle pene (1764) pubblicato dapprima anonimo dopo essere stato composto nell'atmosfera dell'Accademia dei Pugni e del sodalizio con Pietro Verri. Il libretto è un'opera fondamentale dell'Illuminismo italiano. Lucida e appassionata, esamina la crudeltà e l'illogicità delle torture, propugna l'abolizione della pena di morte e sostiene che occorre prevenire i delitti. Talune norme oggi basilari della vita civile vi sono affermate per la prima volta («Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice»), quelle ingiuste vi sono derise come la tortura il cui esito è risolvibile con un ragionamento matematico: «Data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre di un innocente, trovare il grado di dolore che lo farà confessare reo di un dato delitto».
La prevenzione dei delitti è possibile con l'educazione poiché il fine di ogni buona legislazione è «l'arte di condurre gli uomini al massimo di felicità, o al minimo d'infelicità». Per reprimere in modo assoluto «bisognerebbe privare l'uomo dell'uso dei suoi sensi» liberandolo dalla sollecitazione a ogni tipo di azione. Beccaria per la prima volta distingueva il delitto dal peccato e affermava che la legge non riguardava le colpe ma i guasti apportati alla società. La pena è un risarcimento dei danni e non un'espiazione: in tal modo è negata la connessione tra la concezione religiosa del male e la scienza della legislazione, la pena è sottratta all'ideologia religiosa. Solo una società di liberi e di uguali può dare alla società stessa il diritto di punire, il privilegio è un impedimento al ristabilimento dell'equilibrio turbato dal delitto.
Alla pena di morte Beccaria propone la sostituzione del lavoro forzato per evitare la violazione del diritto alla vita. Questi concetti rinnovatori sono inquadrati in un sistema illuminato di governo in cui i monarchi siano alleati dei filosofi per attuare una rivoluzione sociale e morale. Per i conservatori fu empio che Beccaria scindesse il concetto di delitto da quello di peccato e motivi di sovvertimento furono considerati — e lo saranno anche in seguito — i princìpi dell'umanizzazione della pena.
I legami di Beccaria col sensismo si avvertono nelle Ricerche intorno alla natura dello stile (1770). Alla base del giudizio estetico è la sensazione come nutrimento dell'animo; oltre che dal piacere e dal dolore la sensazione è eccitata dall'arte e la parola concorre all'arte quanto più con la precisione è capace di suscitare sensazioni vivaci. Mentre il classicismo riduceva a «canoni generali le bellezze già combinate da' maestri dell'arte», la psicologia dei sensisti è estranea all'imitazione limitatrice ma essa stessa crea infinite combinazioni di sentimenti e sensazioni ricavandole «dal fondo del nostro cuore».
L'arte e lo stile hanno il compito di rendere più vive le sensazioni creando associazioni tra di esse in modo da generare in chi legge un «fremito interno di piacere soavissimo insaziabile». La poetica di Beccaria ha grande importanza sul piano estetico perché oltrepassa il livello classicistico che non tocca l'origine dei sentimenti; la bellezza dello stile per Beccaria deriva dalla capacità di esprimere con parole icasticamente rappresentative il piacere delle cose sensibili che nasce dalle sensazioni.
Abbiamo visto in Pietro Vetri e in Beccaria l'assimilazione del sensismo derivato da Locke e Condillac il quale ultimo era vissuto per dieci anni alla corte farnesiana di Parma. La poetica e l'estetica dell'Illuminismo pongono a base del giudizio estetico la sensazione, antitetica al giudizio intellettuale, razionalistico che, pertanto, è criterio universale. Le sensazioni non solo della vita ma anche dell'arte, che le può variare con le combinazioni delle immagini, tengono eccitato l'animo con il piacere che suscitano. Nell'arte la sensazione può rinfrescare la parola eliminandone le incrostazioni mitologiche, intellettualistiche, riportandola alla freschezza originaria delle impressioni. In Italia l'estetica sensistica propugna l'unione del piacere della forma con l'utile del contenuto, cioè di un contenuto vero e scientifico, nutrito di filosofia e inteso all'educazione e istruzione del popolo.
La fiducia nella ragione illuministica è espressa anche da Paolo Frisi (1728-84) milanese, barnabita, che fece parte del gruppo del «Caffè», viaggiò per l'Europa e collaborò con il ministro austriaco Kaunitz. Fu matematico, ingegnere idraulico, scrisse un trattato di meccanica idraulica, un elogio di Newton e uno di Galilei.
In Piemonte e in Toscana propose riforme per l'università e per l'economia Gian Rinaldo Carli (1720-95) di nobile famiglia capodistriana il quale fu erudito ma scrisse anche di teatro e di storia. Sostenne che il teatro greco e quello rinascimentale erano difformi dalla società moderna. Fu a Milano come presidente del Supremo consiglio di economia e scrisse sul «Caffè» un articolo, Della patria degli Italiani, diventato celeberrimo fra i liberali dell'Ottocento. In esso Carli critica l'indifferenza che gli Italiani hanno per la loro «nazione» e per i loro geni (Galilei), il carattere di forestiero che ha il cittadino di un altro Stato dell'Italia.
Vita raminga per le idee riformatrici dovette condurre il trentino Carlantonio Pilati (1733-1802) che studiò in Germania e compì viaggi all'Aia, a Berlino, parteggiò per i Francesi nel 1796. Insegnò a Trento diritto civile e nel 1767 pubblicò un'opera lacerante che fu elogiata da Voltaire, Di una riforma d'Italia per riformare «i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d'Italia». Il successo di quest'opera anticurialista fu europeo perché trattava il problema della tolleranza religiosa e condannava violentemente i religiosi settari:

Prìncipi e repubbliche, date la caccia a costoro […]. Non ci sia più inquisizione, ed il nome solo d'inquisitore sia di perpetuo aborrimento negli animi italiani […]. La vera religione non domina i corpi, ma gli animi; e però non col ferro e col fuoco, ma colla persuasione si ha da propagare.

Pilati stigmatizzava il ritualismo religioso italiano distaccato dalla pratica religiosa

(Noi tremiamo al pensiero che abbiamo mangiato del butirro e del latte in giorno di vigilia e raccontiamo con piacere quante donne ci sia venuto fatto di sedurre e quanti nostri concittadini abbiamo uccisi […]. Noi siamo cattivi sudditi, cattivi cittadini e cattivi uomini perché siamo cattivi cristiani. E siamo cattivi cristiani, perché veniamo malamente nella nostra religione istruiti)

e propugnava la riforma che creasse un clero virtuoso, colto, che combattesse «i bacchettoni, gl'ipocriti, i nicchiapetti ed i falsi devoti, perché costoro sono propriamente quelli che hanno fatto nascere la miscredenza».
Le posizioni conservatrici e la cultura aristocratica di tradizione feudale (di cui è espressione critica Vittorio Alfieri) della società impediscono in Piemonte un profondo e largo sviluppo di idee.
L'amara esperienza di Alberto Radicati di Passerano (1698-1737) accusato presso l'Inquisizione, costretto all'esilio e morto all'Aia dimostra la chiusura del mondo savoiardo. L'atmosfera non cambiò neanche in seguito quando Carlo Denina (1731-1813) di Revello (Saluzzo) riuscì soltanto ad affermare la funzione morale e civile della letteratura nel Discorso sulle vicende di ogni letteratura (1760) e a indicare i mali presenti nella conclusione delle Rivoluzioni d'Italia (1769-70).
Egli accettava il mecenatismo (di Carlo Amedeo III, Federico II, Napoleone Bonaparte) mentre per convinzione illuministica e riformatrice furono oppositori del governo Dalmazzo Vasco (1732-94) e il fratello Giambattista (1733-96). Il primo venne in urto, nel tentativo di studiare i principi della legislazione di uno Stato illuminato, con l'ambiente aristocratico dal quale proveniva e fu prima esule e poi incarcerato; il secondo fu a contatto con i riformatori milanesi e nella Felicità pubblica considerata nei coltivatori di terre proprie (1769) spinse la proposta di riforme a conseguenze egualitarie estreme tanto da riconoscerla adatta a «mondi nuovi» e non al Piemonte o all'Italia.
Anche a Venezia manca la base di appoggio di un governo illuminato per attuare le riforme. Le spinte illuministiche sono frenate dall'aristocrazia oligarchica e la cultura, vigilata e censurata, si dispiega in tutta la moderazione, priva di punte, con Giammaria Ortes, Andrea Memmo. Spiriti illuministici non potevano mancare nel giornalismo veneto con Alberto Fortis ed Elisabetta Caminer ma si trattò di motivi di gusto, non di lotta.
In Toscana l'Illuminismo si svolge in accordo con i governanti ed è considerato lo strumento operativo delle riforme. Manca la tensione delle regioni meridionali in cui il livello operativo è inferiore a quello intellettuale ma la costanza della ragione vi è presente fin da Sallustio Antonio Bandini (1677-1760) senese, galileiano per metodo, fautore della libertà dei commerci. Problemi di economia e, soprattutto, di agricoltura (appoderamento delle campagne) sono al centro dell'attività dei protagonisti toscani al tempo felice di Pietro Leopoldo (1765-90).
I fiorentini Francesco M. Gianni, Giovanni Fabbroni ebbero parte attiva nelle riforme e difesero il liberismo fisiocratico anche quando esso fu avversato e abolito da Ferdinando III. Pompeo Neri era stato il mediatore tra la generazione del primo Settecento e l'attività riformatrice delle generazioni più giovani. In Toscana furono vivi anche i fermenti religiosi filogiansenisti e il rigorismo evangelico che diedero luogo al sinodo pistoiese (1786) promosso dal vescovo Scipione de' Ricci.
In Sicilia i principali illuministi furono Giovanni Agostino De Cosmi (1726-1810) educatore, Tommaso Natale (1733-1819) filosofo e giurista favorevole alle idee di Beccaria, Domenico Caracciolo (1715-89) che governò l'isola per alcuni anni.

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