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Il realismo polemico della satira letteraria
Con le sue tredici
Satire in terza rima Benedetto Menzini (1646-1704) fiorentino rappresenta l'epigonismo della resistenza toscana al barocco. Protetto da Cristina di Svezia e dal cardinale Albani scrisse nella lingua della tradizione toscana un po' chiusa e fu oppositore del marinismo. Nelle
Satire passa dalle invettive contro l'ipocrisia, l'invidia, l'avarizia al vituperio dei suoi nemici. Ma il Menzini ha il merito di aver difeso Galilei:
- Chi ingiuria fa d'onnipotenza al seggio
- il sol mobile, o fisso? E chi ritrova
- di stelle intorno a Giove un bel corteggio?
Più singolare per la personalità creatrice, polemica, per gli squilibri e le contraddizioni è
Salvator Rosa1 (1615-1673) napoletano, pittore, compositore di musica, attore di commedie, autore di sei
Satire in terzine. In questi componimenti esprime la sua opposizione alla mescolanza di sacro e profano nella musica, al barocco nella poesia.
La nota più risentita del Rosa è lo sdegno morale: - So che un sentier pericoloso io calco;
- ma in dir la verità costante io sono,
- né ci voglio adroprar velo né talco
che colpisce anche i letterati senza vocazione, oziosi, lontani dall'impegno, i poeti vuoti di idee che «cantano ormai le cose istesse
». Il Rosa è contro i secentisti autori di traslati, parole ampollose, detti oscuri che con le loro metafore collocano «il delfin nelle selve e nei deserti, | ed il cignal nel mare e dentro ai fiumi
».
La polemica del Rosa non era immotivata, era diretta contro la letteratura di consumo e di diletto accademico che, specialmente in provincia, esprimeva le esigenze culturali rozze e pretenziose delle nobiltà e del clero, un mondo — così il Muscetta — colmo di «parvenus della borghesia imblasonata, di villani rimpannucciati dall'abito talare, di mercanti di campagna impalazzati nei centri urbani, mentre una folla di pezzenti si aggira tra conventi e chiese monumentali per le strade di queste città ridotte ormai al rango
» di teatri di ciance. Le maschere sacre ed eroiche barocche esprimevano nella realtà e nell'arte una sorta di rappresentazione scenica quotidiana, uno spettacolo in cui trionfavano i «retori del foro e del pergamo
», i nuovi notabili, i «tutori della proprietà fondiaria e della direzione delle anime
».
Il guasto più profondo derivava dalle strutture di una società controriformistica che era sostanzialmente antirinascimentale, e anche il Menzini denunziava la condizione avvilente in cui si trovavano letterati e poeti:
- i borghesi imblasonati
- il mulattier misura
- il grano a moggia; e chi tagliava calli
- copre con ermesin plebea lordura.
- E ora ha messo su cocchi, e cavalli,
- e beve in tazza di forbito, argento,
- o di Murano in limpidi cristalli;
gli ecclesiastici forniti di prebende («E vedi come i meglio uffizi ingolla | chi canta in quilio il kyrieleisonne
») fingono («sotto la cuffia di muine, e rise
») insieme con i falsi religiosi («quei ch'oggi spiran tutta sagrestia
»)
di rispettare i poeti; costoro, educati all'idealismo, credevano «che nobiltà fosse al di dentro | generoso midollo
» e tardi sperimentano «che senza doble è falso l'argomento
».
Menzini lamentava che «
di povertade abbiamo il peso | questi amator delle pierie donne
»;
si scagliava contro la «
moderna ippocrisia
» sociale e coglieva nel vero quando ricordava ai poeti che quella società non voleva (lo scriveva anche il Rosa) avvertimenti e correzioni ma le prediche inutili dei frati barocchi:
- Poeta, or vedi ben che le persone
- ti disprezzan; tu scagli le sassate
- sotto titol di santa correzione.
Il sentimento della società pecuniaria verso il poeta povero è quello del disprezzo che si ha verso il servitore e il Menzini (che nacque da famiglia povera, fu sacerdote e professore) vede molto bene che il disprezzo è costrutturato all'ideologia del mondo del danaro del quale il poeta isolato, idealista
- (il poeta è povero, meschino,
- lungo le mura a pöetare stassi,
- e non batte la nocca al tavolino,
- con le Muse comparte il tempo, e i passi
non fa parte, estraneo alla feroce concorrenza in cui essa vive. Il poeta che non schiccheri le carte «d'anagrammi, d'elogi, e dell'acrostiche | e mille altre sciocchezze al vento sparte
» è perfettamente inutile ai pilastri economici della società: «questi son, che ciurmaro il Galileo | co' pungiglion di pontificia insegna
».
Acutamente il Menzini individua nei poteri economici, ecclesiastici e politici del tempo gli avversari (i «pungiglioni
» sono quelli delle api che si trovano nello stemma del papa Barberini, Urbano VIII, diventato nemico di Galilei) del grande intellettuale che hanno costretto all'abiura: «Tiresia nel corpo egli si feo, | ma nell'alma non già
».
Ma oltre i poeti poveri e chiusamente assorti nel loro mestiere tradizionale di coltivare le Muse non mancavano quelli noiosi e petulanti dai quali il Chiabrera raccomandava di stare lontani, anzi:
- se tu scorgi anco da lunge
- un di questi noiosi calabroni,
- spulezza via, metti le piume e fuggi.
L'avvertimento del Chiabrera, però, era letterario, superficiale.
Il vero danno consisteva, da tutti i punti di vista, nella separatezza privilegiata dei poeti barocchi, nel loro arroccamento presso la borghesia blasonata della quale erano diventati i corteggiatori mediante l'ufficialità del modo di esprimersi barocco. Queruli e scontenti esistenzialmente, con la loro tematica degli orologi che con le «dentate rote
» segnano il tempo il quale «picchia a la tomba
», lamentosi di avere come uomini una vita meno duratura degli oggetti che li circondano, restano attaccati ai signori e alle corti.
Certamente in queste immagini di annullamento e di morte ci sono il peso della controriforma, l'orrore per le epidemie di peste che devastarono nel seicento le città dell'Italia centrosettentrionale, e la consapevolezza — talvolta (come in Ciro di Pers o in qualche altro) — dell'agonia politica degli Stati e della società italiana; ma non può interessarci la tematica o il repertorio della lirica più della prospettiva di fondo della società e della cultura barocca viste nel loro rapporto. La dispersione e l'isolamento degli scrittori erano estremi come conseguenza del frazionamento politico (ma anche lo Stato apparentemente unitario, quello napoletano, era una miriade di feudi baronali), e argutezze e concettismo furono punti di riferimento di un adeguamento culturale delle province al gusto dominante.
Questo gusto nella sua sostanza, però, era costituito dal macchinismo dell'illusione verbale, surrogato di un vero movimento culturale, sicché sembrano verosimili le annotazioni di Tommaso Stigliani sulla proliferazione letteraria e sulla loro inconsistenza:
Non è città in Italia, non terra, non castello, non villa, non borgo, il quale non abbia i suoi poeti che tutto il dì scrivono rime ed epopee e tragedie pastorali e le stampano […]. E la fama de' lombardi non giunge in Toscana e quella de' toscani non si stende al Tevere, né di molti accademici romani arriva la nuova a Napoli […]. Atalché tutto lo scrivere poetico d'Italia altro non viene ad essere ch'uno ampio abisso d'oblivione ed uno interminabile oceano di dimenticanza e di disprezzo.
La polemica del Rosa, animata dallo sdegno morale, non toccava i nessi tra società e cultura, colpiva la «
letteratura
» barocca nella sfera cortigiana, ripetitiva, iperbolica. I modi di questa letteratura sono per il Rosa privi di nobiltà, «
iniquità deformi
», i preti sono «
razza inutile e molesta
», «
di Pindo [..] musiche rane
» che «
per un po' d'applauso ebri correte | a discoprir la vostra frenesia
».
Il Rosa, tuttavia, richiamava i poeti alla loro condizione economica di povertà («
Mentre andate morendo dalla fame, | d'immortalar altrui vi persuadete
») per riportarli alla realtà e per dimostrare la ridicolaggine delle metafore (Nettuno = dio malato, pidocchi = fere d'argento, capelli = pioggia d'oro, donna dal fiato fetido = arca d'arabi odor, le parole = tuoni e fulmini, gli sguardi = lampi), delle accademie dai nomi stolti (Oziosi, Addormentati, Rozzi, Umoristi, Insensati, Fantastici, Ombrosi), del «
far contrapposti ad ogni paroluccia
», del voler piacere «
solo al presente
», dell'adulare:
- Se un principe s'ammoglia, oh quanti oh quali
- si lasciano veder subito in frotta
- epitalamj e cantici nuziali!
La poesia per il Rosa doveva smascherare le prepotenze e le ingiustizie, rivelare i pianti «
di tante orfane, vedove e mendichi
»; la dissolutezza dei tiranni; la rapacità di giudici e governi; le
- usure e tirannie voraci
- che fa sopra di noi la turba immensa
- de' vivi Faraoni;
i privilegi dei principi che «ad onta delle leggi di natura, | chiuse han le selve e confiscati i mari
»; le disuguaglianze sociali per cui sull'uscio degli Epuloni i Lazzari «mangian pane di segala e di loglio»:
- Dite che il sangue giusto sgorga in rivi,
- ch'esenti dalle pene in faccia al cielo
- son gl'iniqui, ed i rei felici e vivi.
Occorreva bandire dalla poesia le bugie mitologiche («
A che giova cantar Cintia e Salmace?
») e idilliche, l'ipocrisia di dichiarare «
che s'oscena è la penna è casto il cuore
», le allegorie, il «
paralogismo menzognero
», non crearsi illusioni sulla gloria perché i tempi tristi («
tempi più da tacer, che da comporre
») insegnano che
- apre sol de' potentati i scrigni
- e quando più gli piace ottien udienza
- chi porta i polli e non chi porta i cigni.
Anche il senatore fiorentino Jacopo Soldani (1579-1641) cameriere del granduca Ferdinando II e maestro di Leopoldo fu amico, sostenitore di Galilei e della nuova cultura. Soprattutto nelle terzine Contro i peripatetici satireggia contro chi parla per assiomi negando il senso e la ragione, le scoperte astronomiche.
La condizione dell'intellettuale dei borghi meridionali sotto l'oppressione spagnola è rappresentata da Giulio Acciano (1651-1681) di Bagnoli Irpino, concittadino del famoso medico cartesiano Leonardo di Capua. L'Acciano rivolse i suoi versi contro l'ipocrisia degli ecclesiastici, l'ignoranza dei medici galenisti, la miseranda vita di paese dominata da bravacci armati: «
Chi porta stile, chi coltel, chi scoppio […] | chi ti bacia la man, poi te la taglia
».
Prima marinista, più tardi si rivolse alla scienza cartesiana
- (La verità, ch'è più chiara del sole,
- sì mi scoprì Porcella e Calopresi,
- ch'io abbandonai l'abominande scuole
e lottò nella solitudine del borgo contro la vecchia cultura protettrice d'interessi e privilegi incarnati in notabili ipocriti: - Oprar da luterano e altrui riprendere […]
- trattar da fauno, e dignità pretendere […]
- fare il pedante e non saper di leggere.
Alla polemica contro l'
Adone partecipò il pistoiese Niccola Villani (1590-1636) il quale nei propri versi esaltò la vita di campagna (rifece nelle sue rime, precorrendo il Pascoli, il verso degli uccelli :
- Qual di loro epopì, popì, popì;
- qual dirà titimptrù; qual torotinx;
- qual popopopopopopopopì
e la vita naturale dei contadini.