Capitolo

11

Letteratura dialettale, satirica e prosa scientifica nel Seicento


PREMIO ANTONIO PIROMALLI
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11 - § 1

La letteratura dialettale e il mondo popolare


Il consolidamento della divisione politica dell'Italia in Stati dominati dall'alleanza di aristocrazia e alto clero anazionali, il distacco politico della Chiesa dal popolo rafforzano la condizione di subalternità delle grandi masse. Queste, isolate nell'immobilismo politico, sociale e culturale, demograficamente crescendo costituiscono nelle grandi città un mare di popolo che irrompe identificandosi nell'oppressione e nella miseria, prendendo conoscenza del proprio stato.
È un bel dire che nella comunità di spirito espressivo e nell'universo fantastico tutto si unifica. Abbiamo visto, invece, che fin dalle origini l'espressione di carattere cosmopolitico, in quanto mediazione del potere politico, ha tenuta subalterna la sostanza culturale popolare; e che la società dalla quale la cultura ufficiale proveniva era quella dei gruppi egemoni.
Nel Seicento non abbiamo l'aggregazione della cultura popolare intorno alla borghesia avanzante, anzi abbiamo la sua esasperata subalternità repressa; ma nell'isolamento le grandi masse definiscono sia pure confusamente la loro qualità predominante, le loro ragioni più intime morali e culturali, ricollegandosi talvolta al realismo idiomatico della tradizione o sviluppando quello del loro tempo. Le moltitudini non possono avere coscienza di essere parte di una forza egemonica perché sono in stato di avvilimento, ma qualche gruppo di esse riesce a uscire dalla filosofia del senso comune e a collegarsi con gli intellettuali e politici più avanzati.
Fra gli intellettuali la maggior parte segue le tecniche del barocco che ha come base positiva la modernizzazione e come base negativa lo snobismo retorico. Questi intellettuali sono solitamente cortigiani per nascita o per elezione, chiusi nello spirito economico-corporativo di casta e incapaci di avere contatti ideologici con le moltitudini per comprenderne bisogni ed esigenze.
Ci fu certamente il tentativo della Chiesa gesuita di penetrare con la sua organizzazione in tutti gli aspetti della vita popolare e di attuare una unità politico-culturale cattolica secondo le regole del concilio di Trento ma nella pratica essa non andò oltre l'intristimento dei compromessi e la repressione. Campanella e Bruno non sono intellettuali della controriforma ma i prosecutori di un Rinascimento fondato sulle forze dell'individuo e della ragione. Lo sforzo organizzativo della Chiesa è un collegamento di vertici che va commisurata con l'esito: il distacco abissale tra Chiesa e moltitudini.
L'isolamento delle moltitudini rinforza le loro peculiarità etniche e culturali e il dialetto è anzi strumento di autonomia, di scelta culturale diversa dalla tradizione in lingua. Le masse popolari escluse dal potere definiscono i loro rapporti interni ed esterni attraverso una complessa rete di determinanti storiche e sociali. Nello spazio isolato ma compresso in cui vivono nelle città e nelle campagne le popolazioni si riconoscono nell'identificazione della loro vita concreta e non nelle mascherature barocche.
Le feste di carnevale che si aprono col fuoco purificatore sono collegate ai cicli annuali di vita e dell'agricoltura; Carnevale povero che fa testamento e muore è la satira della trasmissione dei beni dei ricchi; la recita nel testamento di vizi e male azioni è la liberazione attraverso la confessione pubblica della comunità subalterna; le parti del corpo lasciate da Carnevale agli eredi vogliono significare il rapporto col mondo reale; i cortei per la morte di Carnevale sono la dissacrazione dello spiritualismo drammatico e della paura della morte, l'affermazione della vita che ricomincia col ciclo di produzione della terra e la partecipazione dell'uomo alla vitalità del tutto.
Questi riti e altri legati alle feste annuali e ai modi di vivere del popolo si svolgono nelle campagne ma soprattutto nell'Italia meridionale e a Napoli dove, abbiamo visto, la multiforme maschera di Pulcinella è presente in tutti gli aspetti della vita dello sconfinato popolo immiserito. A Napoli nascono o sono reinventate le forme popolari di devozione religiosa, realtà di individui che in un rapporto precario di lavoro e di vita tentano di inserirsi in una storia che da personale vuole diventare collettiva, «ex votis» e altri oggetti votivi documentano la dipendenza da una fede che è al di fuori della teologia e cerca nella ricostruzione del concreto un riferimento credibile e solido, cicatrizzando le ferite dell'urto con il mondo avverso.
Questi motivi non possono essere intesi che all'interno delle tensioni dell'intero organismo della cultura e del mondo che li ha prodotti, per evitare di studiarli come elementi curiosi o ingenui o filologici insieme con canti, novelle, indovinelli, giochi, riti di medicina popolare e altri prodotti che incontriamo nello studio dei dialetti.
L'antropologia come discorso intorno all'uomo non può essere separata dallo studio dei modi di vita delle classi subalterne, dai loro interessi, dalle loro difese nei confronti delle classi dominatrici e dai sistemi di governare e di organizzare la cultura. Per questo motivo non si può accettare l'idea di Benedetto Croce che l'estensione della letteratura dialettale del Seicento derivi dalla «ricerca spasmodica di novità» come se si trattasse di un genere letterario chiuso e non espressione di una realtà sociale e culturale.
Altre volte le manifestazioni collegate alla cultura popolare sono guardate dal punto di vista padronale. Il descrittore del carnevale napoletano del 1670 annota che «le insolenze de' plebei in questi tre ultimi giorni del carnevale non sono state ordinarie, nel menare cetrangole ed acqua da sopra gli astrachi [terrazze] e per le strade»; nel 1675 che «le pazzie della plebe sono state in eccesso in ogni quartiero, né sono state sufficienti le guardie di reprimerle, ma bensì per non venire a segno di perdere il rispetto, mitigare al possibile il furore licenzioso di tal sorte di gente»; nel 1694 una maschera di Giangurgolo «andava per le carozze delle dame, dicendo mille parole disoneste, ch'averebbero fatto scandalizzare le pubbliche meretrici, per lo che fu fatto prendere dai sbirri e, legatele le mani dietro, lo portorno cossi quasi frustando per il corso da su e giù più d'una volta; indi lo posero carcerato».
L'infinita turba di popolo è l'elemento creatore della cultura subalterna. Questo riconoscimento non esiste da parte della cultura egemone per la quale i prodotti popolari sono inferiori. I letterati assumono spesso il dialetto perché i centri culturali sono isolati l'uno dall'altro e in ognuno di essi gli uomini colti sono necessariamente a contatto con gli interessi locali e con la maggioranza subalterna. Spesso, perciò, gli scrittori riflettono motivi che non sono popolari ma sono espressi in dialetto perché possono essere intesi dalle maggioranze del popolo, sono rinforzati da immagini ed espressioni che appartengono al maggior numero di parlanti.
Giambattista Basile1 (1575-1632) napoletano, letterato, soldato, cortigiano, politico al servizio dei Caracciolo e poi del viceré il duca d'Alba, ammiratore del Marino, ebbe gloria postuma per le opere in dialetto Lo cunto de li cunti o Pentamerone (1634), un classico di fiabe popolari che fu tradotto dal Croce (1925) e Le muse napolitane (1635). I cinquanta racconti delle fiabe, distribuiti in cinque giornate, sono attinti dal repertorio folkloristico per bambini ma sono destinati ad adulti e costituiscono un geniale «divertimento» di gusto barocco.
Il Basile è immerso nella moltiplicazione delle iperboli e delle metafore, di continuo variate, in una orchestrazione di comico e patetico: il principe e il finto fraticello che si incontrano si incamminano «col ventaglio delle chiacchiere sventolandosi per caldo della via», Penta scacciata in esilio col bambino «si toglie in braccio il suo cetriuolo, che innaffia di latte e lacrime».
I sentimenti del Basile si traducono — nelle introduzioni e conclusioni delle fiabe — in sentenze sulla curiosità e astuzia delle donne, sulla fortuna che predilige gli oziosi. Nelle egloghe che chiudono quattro giornate di racconti l'autore sottolinea gli intrighi disonesti, la delusione che si incontra nella pratica della vita militare, nell'amore. Chi legga anche le Muse napolitane è colto da stupore per lo sfoggio di voci idiomatiche, una tempesta di variazioni di apostrofi, di nomi, di vituperi che danno l'idea quale riesumatore prezioso del dialetto napoletano sia questo iperletterato innamorato delle sorgenti popolari e affogatosi in esse.
Amico del Basile fu Giulio Cesare Cortese (c. 1570 - c. 1627) forse napoletano, molto probabilmente la stessa persona che usò lo pseudonimo di Filippo Sgruttendio da Scafati. Fu in Spagna al seguito del viceré conte di Lemos, alla corte di Ferdinando dei Medici, accademico della Crusca, governatore di Lagonegro, sempre incline alla rappresentazione affettuosa del mondo popolare. Nella Vaiasseide [vaiassa = serva] in cinque canti in ottave pubblicato a brani (interamente nel 1615) descrive l'ilare mondo di serve che abbandonano i padroni e restano con gl'innamorati; nel Micco Passaro 'nnamurato i lamenti di donne abbandonate dagli amanti: bellissima la storia di Popa che per liberare Cola chiuso in una torre a Livorno gli manda un lucherino legato a un capo di filo, col filo gli fa entrare nella torre una corda con un carrucola mediante la quale Cola esce in libertà e fugge e lei rimane inaspettatamente in prigione.
Creazione originale del Cortese è la Cecca, donna prepotente e dominatrice neobernescamente cantata. Tra i versi più belli di questo originale poeta sono quelli di Lo viaggio de Parnaso con l'episodio del tovagliolo magico donato al poeta da Apollo e che gli consente, stendendolo, di vedere pronti «no piezzo de vetella sottestato, — e no pegnato propio a boglia mia: — maccarune, pasticce, caso e pane, — e grieco [vino greco]»: trasposizione di un sogno autobiografico di un poeta vissuto in miseria e che il Basile descrisse per contrapposti: «la grandezza dell'ingegno nella piccolezza del corpo, la ricchezza della virtù nella povertà della fortuna». Il Cortese è l'unico poeta dialettale che, anche per avere conosciuto la vita e la cultura spagnole, riesca a tratteggiare in modo picaresco i suoi personaggi; non può che tratteggiare perché la sua visione tende sempre a frangersi in episodi.
La letteratura dialettale in Calabria, regione di paesi isolati e di contadini affamati dai baroni, è strumento di liberazione dall'autoritarismo, dal dogmatismo. Nel Seicento nel focolaio di Aprigliano di Cosenza troviamo Domenico Piro detto Donnu Pantu (1665-1696) e i suoi zii Ignazio e Giuseppe Donato. Il Piro, sacerdote, ebbe ingegno vivacissimo ed è l'archetipo della licenziosità dialettale calabrese.
Dietro il poeta dialettale è un mondo paesano che si libera con la facezia (il poeta appartiene a una brigata anche parentale di uomini colti che motteggiavano con estro) e con il tema fallico dal peso dell'autorità, dei condizionamenti culturali. Con Piro (che fu incarcerato dal vescovo Gennaro Sanfelice) il mondo dialettale si apre al riso, i suoi versi con la loro corposità e veemenza orgiastica erano l'affermazione delle forze della natura.
Quei versi nascevano realistici come espressione di un piccolo mondo la cui tragica subordinazione agli strumenti vicini del grande potere lontano faceva scaturire un diverso codice culturale e morale; sottili fili legavano la licenziosità di Piro alla nuova filosofia, alla lotta per la libertà del pensiero: «Sunu palluni, favule, bugie | li Sennocrati casti e cuntinenti».
Il Piro sperimentava che le cose valgono per quello che sono, e non per l'idea che ci facciamo di esse, e in questi versi riconosceva l'importanza del concreto e dell'economico:
  1. Fratemma dice ca nun vale l'uoru
  2. ca ccu lu litteratu nun c'è paru.
  3. Io lu vorra truvare nu trisuoru
  4. ppe dire tona notte a lu livraru.
  5. Ca sette savii de la Grecia fuoru
  6. e tutti uotto de fame creparu.
  7. E si campo n'autru annu e si nun muoru
  8. o chianchiere me fazzu o tavernaru.
Il gruppo dei poeti dialettali di Aprigliano si oppone implicitamente al ruolo aristocratico dell'intellettuale-guida protetto dal potere, manifesta lo sbocco delle contraddizioni oggettive dell'intellettuale meridionale dei borghi e delle campagne. La vera moralità di Domenico Piro è nel coraggio di porsi originalmente questi problemi culturali e nel coraggio di guardare la realtà.
Poeta amaro, sarcastico e protestatario contro il sistema sociale è Paolo Maura (1638-1711) di Mineo che fu incarcerato per avere continuato a corteggiare quando era nel monastero una giovane della nobile famiglia Maniscalco. La pigghiata descrive la sua cattura per opera di diecine di sbirri e preti mandati contro di lui dalla famiglia dominante, il suo soggiorno nel carcere della vicaria di Palermo fra «tanti veri cadaviri animati». La vita del carcere ha pochi descrittori così realistici: «li piducchi attrincirati, | li cimici facianu battagghiuni»; quando esce dal carcere chiama i maestri pettinai perché gli fabbrichino un pettine per spidocchiarsi: «si 'un hannu ossa, faciti sirrari | li corna a chiddi ca traderu a mia». L'esperienza di tali vicende gli ha fatto conoscere la realtà:
  1. Viju li stulti ccu lussi e splennuri,
  2. adurnati li mensi a la riali;
  3. e li saputi, chini di rancuri,
  4. mancianu (siddu nn'hannu!) pani e sali
sicché egli salutando un ammalato disse sarcasticamente: «Stativi alegru, signuri compari: | l'omini mali nun ponnu muriri».
Popolareschi, con caratterizzazioni fiabesche della plebe romana sono Giuseppe Berneri (1637-1701) autore di Meo Patacca (1695) in cui l'eroe, che vorrebbe intervenire in difesa di Vienna assediata dai Turchi, prende la difesa degli Ebrei accusati falsamente di avere aiutato i Turchi, e Giovanni Camillo Peresio (1628-1696) autore di Jacaccio (1688).
Tono burlesco, stile barocco nomenclatorio e ideologia quietista troviamo in un bizzarro poligrafo di S. Giovanni in Persiceto, Giulio Cesare Croce2 (1550-1609), figlio di fabbro e fabbro egli stesso per un certo tempo. Equilibrio, misura, ragionevolezza sono i parametri etici del Croce nella sua sconfinata produzione ricca di motivi autobiografici e di varie forme di sperimentazione. L'ideologia del Croce è quella del moderato ossequio all'autorità («e riverisco i miei superiori»), della vita appartata, priva di ambizioni («del poco mi contento») e di vizi («non gioco a carte o a dadi»); la virtù è la sua meta («tengo la virtù per esercizio»). Scettico intorno allo studio e alla scuola
  1. ([…] la poesia
  2. ch'io tengo nel zuccon è della buona
  3. e della meglio forse che vi sia),
crede nel senso comune che viene dalla natura
  1. (Ho sentito talora ragionare
  2. un villan e dir cose alte e stupende,
  3. che farìan Salomon traseculare
  4. e dal semplice operare
  5. immortal resta chi si fida in Dio,
  6. e chi sua vita spende senza frodo).
Il guasto della semplicità è stato causato dalle lettere («questa peste che la vita miete») e dalle curiosità della mente. Dagli «umori», dalle «fantasie» e «bizzarrie» che sono nei cervelli nascono le pazzie degli uomini e i cervelli sono delle girandole sicché tutto nel mondo ruota:
  1. giran le burse, girano i quattrini;
  2. giran gli uccelli in aria nel volare;
  3. son fatti in giro i scudi e le scodelle,
  4. le ruote, i cesti, i tondi e le padelle.
Da questo girare derivano contrasti, ingiustizie, inadempienze («Non sono arcistoltissimi i villani | che mai dàn suo dovere a' lor patroni…?») e il Croce moraleggia intorno alle deviazioni. Ma uno è soprattutto il ceto contro il quale si appunta la censura:
  1. Mala nuova putanelle,
  2. che finisce il carnevale,
  3. e s'appresta il vostro male,
  4. infelici tapinelle […]
  5. La quaresima v'invita
  6. a le prime discipline,
  7. a mutar abito e vita,
  8. a i disagi a le ruine […]
  9. e parravvi cosa grata
  10. quattro aglietti e doi sardelle.
  11. Mala nuova putanelle […]
  12. Ora andate, dunque, andate,
  13. meschinelle a lavorare…
Nello scrivere il Croce procedeva baroccamente per accumuli di nomi propri o comuni, una proliferazione immensa di oggetti. Un altro aspetto dell'ideologia del Croce è l'avversione a ogni mutamento, i poveri della campagna e della città da lui descritti vivono nella pazzia universale ma non hanno aspirazioni politiche, sociali e neanche morali. Lo scrittore è il portavoce di una moralistica necessità di saggezza. I suoi versi migliori sono scenette fiabesche (una sorta di Ugo Betti «ante litteram») come la lieve Canzone delle lodi di madonna Tenerina, la spiritosa Canzone della pulice ridicolosa e bella, vanti furfanteschi o scapigliati, ma si tratta di consolazioni ed evasioni.
L'opera principale del Croce è Bertoldo e Bertoldino (1606) che deriva dal medievale Dialogo di Salomone e Marcolfo e che solo con forzature è stata letta come opera di protesta. Bertoldo non è più soltanto il villano satireggiato dalla tradizione letteraria ma ha una sua risentita dignità di povero. Ma questa dignità è una categoria chiusa che suole essere pregiata a condizione che rimanga impenetrabile a miglioramenti di stato e quindi reazionaria. Bertoldo libertario e cittadino del mondo è fatto morire per non avere potuto gustare i cibi adatti al suo stomaco di villano: la saggezza popolare di Bertoldo è quella dell'immutabilità di stato, è sfiducia nel cambiamento di natura.
Il dialetto milanese con Carlo Maria Maggi (1630-1699) diventa strumento di verità opponendosi all'italiano melodrammatico e aprendo la strada ai dialetti lombardi i quali più tardi avranno funzione polemica nei confronti della cultura e della lingua ufficiale.
In relazione col Muratori e col Vico, il Maggi ebbe cultura vastissima, scrisse in greco, latino, spagnolo, italiano e solo in questi ultimi decenni si è venuto scoprendo il primo piano di questo scrittore di commedie dialettali che lo collegano alla satira del Parini e alla linea di una borghesia lombarda illuminata. Il suo teatro satirico-educativo (Il manco male, Il falso filosofo, I consigli di Meneghino, Il barone di Birbanza) è una denuncia della vecchia società spagnolesca carica di prosopopea e della diffusione dei cui vizi esiste per il Maggi una responsabilità generale delle classi superiori alla plebe; di questa è rappresentante Meneghino, da lui inventato in sostituzione di Baltram da la Gippa, contadino semplice, ignorante e loquace. Il Maggi era stato educato dai gesuiti ma la sua mente è laica per il sentimento civile che incarna in rapporto alla società strutturata a diversi livelli sociali, per la religione come esigenza morale di vita.
Maggi scopritore del dialetto, capolinea di una morale popolare che in lui si rinsalda attraverso l'osservazione satirica dei giovani signori del collegio dei Nobili, trascrive nelle commedie il «mondo di tronfie sopravvivenze feudali che affondano nel ridicolo della loro pretenziosa vacuità» (Isella) e dà la sua fiducia alla società mercantile in ascesa, anticipando i motivi della cultura lombarda del Settecento che lo considererà come progenitore: «egli è vecchio, canuto, in toga, ma tutte le sue idee sono da giovane» scrive di lui il Muratori.
La letteratura dialettale del Seicento non costituisce un paragrafo minore di novità barocca o un fatto anomalo, ma indica che esiste una comunità sociale e culturale con cui il dialetto è in intimo rapporto a diversi livelli linguistici e sociali. Essa è ancora da scoprire e da valutare nel suo rapporto antropologico con i modi di vivere delle classi subalterne, di certi suoi aspetti si possono vedere i condizionamenti e la strumentalizzazione compiuta dagli scrittori dell'egemonia barocca; in nessun caso è, però, da considerare nella sfera estetica «l'analogo di quel che il buon senso è nella sfera intellettuale e la candidezza o innocenza nella sfera morale» (Benedetto Croce). In diversi modi e toni è espressione di vita morale seria e sofferta da moltitudini emarginate.

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