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La prosa
La prosa del Seicento ha finalità di diletto, di predicazione religiosa, di scienza.
La novella è rappresentata dall'Arcadia in Brenta ovvero la Melanconia sbandita (1667) del patrizio veneziano Giovanni Sagredo il quale alla maniera di Boccaccio raccoglie le novelle che immagina raccontate da una brigata di cavalieri e dame convenuti sul Brenta.
Ma il genere narrativo più divulgato fu il romanzo (storico, di costume, eroico-galante, politico, italiano, tradotto dal francese), soprattutto quello eroico-galante o di consumo, in cui vennero accolti —per la congenialità dello spirito barocco portato all'avventuroso — motivi che provenivano dai poemi cavallereschi, dalla tarda grecità, dalla letteratura drammatica e pastorale.
L'amore per questa letteratura veniva dalla Francia e nei romanzi esistono solitamente due livelli di stile: uno infiorato e barocco corrispondente al sentimentalismo patetico del quale è avvolto l'eroe nei momenti in cui centrale è l'avventura erotica o ardimentosa (discorsi, lettere d'amore); l'altro pedestre e dimesso, corrispondente all'esposizione narrativa.
Il romanzo rappresenta l'evasione letteraria verso il mondo fantastico e il genovese Giovanni Ambrogio Marini scrisse che esso è «la più stupenda e gloriosa macchina che fabbrichi l'ingegno
». Egli stesso scrisse il Calloandro fedele (1652-53), romanzo a lieto fine ricco di peripezie, equivoci e sorprese, tradotto in francese, imitato da Corneille. Il libro fissa modi romanzeschi che diventeranno convenzionali («Così detto, diegli la mano di sposa ed egli, baciatala disse: Io non osai, Tigrinda, scoprirmivi prima d'ora, toltomene da voi medesima l'ardire…
») come la Dianea del veneziano Giovan Loredana (1606-1661) che si muove su un piano melodrammatico («Infelice Astidamo, morto senza gli ultimi abbracciamenti di Dianea. Ma come averesti potuto soffrire la presenza di colei, ch'è stata la cagione della tua morte? […] O rigori del Destino, o necessità inesorabili del Fato!
») al pari dei diversi Armelinda, Stratonica, Il Brancaleone, Astrea di altri autori.
A queste opere di intrattenimento, che percorrono il sentiero sentimentale a colpi di sorpresa, occorre aggiungere gli scritti erotici di Ferrante Pallavicino (1615-1644) di Piacenza, canonico, il quale fu incarcerato per un opuscolo anticlericale Il corriere svaligiato: per altri due libelli contro la famiglia Barberini e Urbano VIII fu processato e decapitato all'età di ventinove anni ad Avignone. Scrisse una Rettorica in cui insegna artifici erotici alle cortigiane (manifestazioni di tenerezza) e l'Alcibiade fanciullo a scola ricca di virtuosismi e concettismi.
Scipite sono le prose incensatorie delle accademie (Gelati, Balordi, Infecondi, Umoristi) ma alcune altre accademie costituiscono serie istituzioni, come quella dei Lincei fondata da Federico Cesi nel 1603 per lo studio delle scienze matematiche e naturali, quelle fiorentine del Cimento — che ebbe vigore dal 1657 sotto la protezione del granduca Ferdinando II — e della Crusca che era nata nel 1583. Ad esse sono collegate altre istituzioni come quella delle biblioteche Ambrosiana fondata nel 1603 da Federico Borromeo, Magliabechiana di Firenze (già esistevano la Vaticana e la Laurenziana) e di musei che rappresentavano anche gli strumenti di una sia pur labile organizzazione degli intellettuali mirante a una loro autonomia di ceto.
La prosa barocca nel desiderio di novità rivaleggia con la poesia lirica nelle invenzioni bizzarre, nell'abuso delle metafore che diventavano accumulazioni complicate di definizione di rapporti tra elementi disparati, nelle iperboli sbalorditive e nell'enfasi. Un predicatore che invita i fedeli al silenzio raccomanda di preparare «la culla del silenzio e le fasce dell'attenzione
» al Verbo divino che la sua voce sta per partorire; l'Achillini, nel tratteggiare un frate predicante con ardore Cristo crocefisso tanto da ridurre l'uditorio «a termini di mortale agonia
», scrive che il predicatore macilento è «una lana agitata che sgrida, un mantello vocale, un capuccio che atterrisce, un fuoco che scintilla fuori delle ceneri, una nuvola bigia che tuona spaventi, una penitenza spirante
».
Daniello Bartoli1 (1608-85) gesuita ferrarese scrive contro coloro che tessevano sottilmente il loro discorso con lo «
stile concettoso
» ma egli stesso non è capace di diversificarsi da quello stile che, anzi, rende pomposo e squillante. Entrato a sedici anni fra i gesuiti insegnò rettorica a Parma, predicò in molti luoghi, da Piacenza a Palermo, a Malta; incaricato di scrivere la storia della sua compagnia visse a Roma dove fu rettore del collegio romano.
Per Bartoli idea di Dio e di creazione esaltano l'infinità divina e ci richiamano alla necessità della nostra finitezza e dell'obbedienza. Sono in lui la religiosità come sentimento poetico della creazione divina, il virtuosismo delle descrizioni naturali esercitato con effetti di stile che si confondono con il desiderio di persuadere. Scrisse la
Storia della Compagnia di Gesù in ventisette libri, contenente la vita di S. Ignazio e il racconto delle missioni, i cui pregi furono esagerati retoricamente da Giordani e dal Carducci; numerose sono le opere di argomento scientifico, religioso, morale, grammaticale. Di queste non poche hanno sapore libresco, altra come
L'uomo di lettere (1654) è un trattato di estetica pedagogica, la
Ricreazione del savio (1659) è una lode a Dio per le bellezze create.
Ma in tutte c'è l'immagine di un uomo sereno, letteratissimo con poche idee filosofiche, meravigliato per tutti gli spettacoli che guarda; lo sguardo è quello barocco. Si veda la descrizione delle acque delle fontane di Roma:
Veggonsi giù dalle gromme e dài tàrtari d'ampissime nicchie stillare a goccia a goccia in minutissima pioggia, sicché meglio non sanno ripartirla le nuvole sulla terra;
o la descrizione quasi al microscopio, del tulipano o del dragone di Rodi: D'un informe corpaccio grande quanto un mediocre cavallo; l'orribil capo tutto cosa di drago; bocca grande e squarciata, denti acutissimi, occhi focosi e sanguigni, due grandi orecchie spenzolate, e un fiato di mortalissimo veleno […]. Tutto era macchiato di rotelle, verdi, nere, sanguigne, fosche: segni e fior di veleno […]. Andava su quattro piedi e le sue branche aveva armate di terribili unghie.
La scrittura del Bartoli è d'arte mentre colui che si oppose alla predicazione religiosa retorica e priva di idee (ma ricca di paragoni, esclamazioni, reticenze, simmetrie fredde di parole) fu il gesuita
Paolo Segneri2 (1624-1694) di Nettuno che nella
Manna dell'anima, nel
Cristiano istruito scrisse in forma disinvolta. Restauratore dell'eloquenza (era studioso di Cicerone e Demostene) e direttore spirituale fu nei
Panegirici sacri (1664), nel
Quaresimale (1679), nelle
Prediche dette nel Palazzo apostolico (1694) per la struttura e l'argomentazione delle prediche, quantunque nel tentativo di apparire commosso cada talvolta nell'affettato:
Un funestissimo annunzio son qui a recarvi, o miei riveriti uditori […]. Ma che gioverebbe il tacere? Il dissimular che varrebbe? Ve lo dirò. Tutti, quanti noi siamo, o giovani, o vecchi, o padroni, o servi, o nobili, o popolari, tutti dobbiamo finalmente morire.
Tra i più rappresentativi, per bizzarria e genialità, scrittori dell'età barocca è il genovese (c.1620 - c.1686)
Francesco Fulvio Frugoni3 dell'ordine dei Minimi Paolotti che studiò in Spagna, conobbe Quevedo e Gongora, viaggiò in Olanda, Inghilterra, Francia, fu al seguito di Aurelia Grimaldi di Monaco e infine si stabilì a Venezia dove scrisse
Del cane di Diogene, edito postumo nel 1689 in sette volumi (o «
latrati
»), enciclopedia satirica delle sue esperienze in cui si proponeva di fare «
una caccia generale di tutti i vizi
». Il cane di Diogene gira per l'Oriente e nel
Tribunale della critica indaga sui vizi degli scrittori.
Frugoni è per i moderni: Boccaccio se tornasse in vita «
boccheggerebbe dallo stupore, attonito e trasecolato
», Dante «
autore di stampa antica e di frase oscura
» in tutta la
Commedia vale meno di un sonetto dei moderni tra i quali il maggiore è il Tasso. La prosa di Frugoni ha esiti parossistici barocchi nei suoi due livelli, sia in quello narrativo che in quello di divertimento linguistico. Scrisse anche un romanzo,
La vergine parigina (1661), la biografia di Aurelia Grimaldi (
L'eroina intrepida, 1673), melodrammi.
Non meno bizzarro di lui fu nella prosa il perugino olivetano Secondo Lancellotti (1583-1643) che, però, caduto in disgrazia dei superiori, dovette trascorrere la vita tra difficoltà avventurose. Fu a Rimini «maestro dei novizi» e peregrinò per tutta Italia, da Messina a Piacenza, Pavia, Ascoli. Per i contrasti col generale dell'ordine fu incarcerato a Volterra da dove fuggì finché a Parigi, dove morì, fu apprezzato e onorato (come avvenne anche al Campanella).
Con l'Oggidì, overo il mondo non peggiore né più calamitoso del passato (1623), nei Farfalloni de gli antichi istorici (1636-37), in Chi l'indovina è savio, overo la prudenza umana fallacissima (1640) il Lancellotti, — che fu letterato enciclopedizzante, erudito e moralista — si inserisce nella questione della superiorità dei moderni o degli antichi che rappresenta per i secentisti la polemica per liberarsi dall'«emulazione
» degli antichi.
L'«oggidì
» per Lancellotti è un'età d'oro rispetto ai tempi antichi zeppi di errori e di leggende mistificatrici.