Capitolo

10

Società e letteratura nell'età barocca


PREMIO ANTONIO PIROMALLI
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10 - § 4

La letteratura eroicomica e il teatro


Una delle «novità» del Seicento è il poema eroicomico che nasce in epoca di caduta degli ideali eroici e di cultura provinciale.
La maggiore espressione di questo genere letterario è La secchia rapita del modenese Alessandro Tassoni1 (1565-1635), la cui vita si modella su quella dei nobili di provincia che si pongono al servizio di un signore laico o ecclesiastico alla cui ombra possono attendere ai loro studi. A Roma il Tassoni fu al servizio del cardinale Ascanio Colonna che seguì anche in Spagna.
Quando nel 1615 furono pubblicati due opuscoli anonimi antispagnoli, le Filippiche, contro Filippo III re di Spagna — esaltanti Carlo Emanuele I di Savoia il quale aveva indetto guerra alla Spagna per la successione del Monferrato — , ne fu ritenuto autore il Tassoni che nel 1618 dal principe piemontese fu nominato segretario dell'ambasciata a Roma e gentiluomo del cardinale Maurizio suo figlio. Ma quando i Savoia si avvicinarono alla Spagna il Tassoni si appartò per ritornare alla vita pubblica: nel 1626 al servizio del cardinale Ludovisi e, alla morte di questi (1632), del duca Francesco I di Modena.
Si può dire che nella cortigianeria ebbe come idea l'antispagnolismo, insistendo sulle favorevoli condizioni politiche e sulla natura corrotta degli Spagnoli. Nelle Filippiche lamenta le divisioni degli Italiani (siamo più avidi di soggettarci, che non sono i nemici nostri di riceverne in soggezione») e cerca di infondere coraggio ai principi descrivendo le condizioni della Spagna:

Quella monarchia, che già fu corpo tanto robusto, ora, intisichita nell'ozio lungo d'Italia e nella febbre etica di Fiandra, è un elefante che ha l'anima d'un pulcino, un lampo che abbaglia ma non ferisce, un gigante che ha le braccia attaccate con un filo.

L'animoso e lucido discorso è rivolto dal nobile Tassoni ai principi perché

la plebe, vile di nascimento e di spirito, ha morto il senso a qualsivoglia stimolo di valore e di onore, né solleva il pensiero più alto, che a pascersi giorno per giorno, senza aver cura se mena la vita a stento, come gli animali senza ragione, nati per faticare.

Questa ideologia politica e sociale, e quella letteraria, sono incentrate sulla superiorità dei moderni nei confronti degli antichi (da Omero a Boccaccio) nelle Considerazioni sopra le «Rime» del Petrarca (1609) che suscitarono vivaci polemiche, e nei Pensieri diversi in dieci libri, nell'ultimo dei quali anticipa con vantaggio dei moderni la querelle des anciens et des moderns che si svolgerà alla fine del Seicento. Nella farragine delle questioni scientifiche, letterarie, filosofiche ammassate in quest'opera il Tassoni rivela chiaramente la natura del suo ingegno acuto (contrappone la ragione all'autorità di Aristotele, di Petrarca e si libera dal culto superstizioso degli antichi) ma anche paradossale, contraddittorio, umoroso più che razionale sicché bizzarrie e puerilità si alternano con buone intuizioni e presentimenti estetici.
Le bizzarrie costituiscono le sue rivolte (con licenza dei superiori, è stato detto) di nobile che poteva permettersele perché restavano nel mondo della Luna. Diciamo questo perché il suo contraddire alle opinioni correnti non era il contraddire di Campanella e di Bruno.
Fin dal 1615 aveva composto la Secchia rapita in dodici canti in ottave che fu pubblicata a Parigi nel 1622, con le aggiunte dei canti X e XI, — quelli dell'episodio del conte di Culagna — composti tra questi due termini di tempo. Egli disse di avere scritto un'opera «fuori della strada comune» per passatempo e per curiosità di vedere «come riuscivano questi due stili mischiati insieme, grave e burlesco».
Aveva creato il poema eroicomico alternando i due stili e muovendo, con successive discronie, dal rapimento storico di una secchia di legno compiuto dai modenesi a danno dei bolognesi nel 1325, dopo avere vinto gli avversari a Zeppolino e averli inseguiti fin sotto le mura di Bologna.
Il poema eroicomico è una parodia dei poemi classici di cui si imitano l'enfasi, lo schema del proemio, la dedica; negli ultimi due versi dell'ottava il ritmo si abbassa fino alla canzonatura: «vedrai, s'al mio cantar porgi l'orecchia, | Elena trasformarsi in una secchia»; al concilio degli dei Apollo arriva in carrozza «e ventiquattro vaghe donzellette | correndo gli tenean dietro in scarpette»; Diana è assente ma è presente madre Latona «a far la scusa in fretta, | lavorando su i ferri una calzetta».
Il personaggio più vivo è il conte di Culagna (nel quale il Tassoni raffigurò un suo nemico personale, il conte Alessandro Brusantini di Ferrara) «ch'era fuor de' perigli un Sacripante, | ma ne' perigli, un pezzo di polmone», e che nel duello con Titta si crede gravemente ferito vedendo rosseggiare la sopraveste.
Spogliato di armatura e di abiti non gli si riesce a trovare ferita o sangue ma un nastro rosso che dava l'immagine di un rivo di sangue. Il linguaggio è quello della parodia: «Passadi, panirun pieni di broda» grida il capitano bolognese ai suoi soldati che hanno paura di attraversare un torrente; Marte e Venere, che per non esser riconosciuta ha preso l'aspetto di un giovane, si appartano: «fatto avean Marte e giovane tebano | trenta volte cornuto il Dio Vulcano».
Non mancano gli episodi spassosi ma sono bozzetti e caricature che non hanno unità e approfondimento. L'umorismo è quello della parodia, la caricatura è un gioco interno al genere letterario, facilone, che diede la stura a infiniti cicalecci antimitologici. Tassoni aveva scoperto un potente strumento di rottura, ma se ne servì per ridere; avrebbe potuto con l'eroicomico aprirsi la realtà della creazione comica o satirica e rimase in superficie. «Tutto gli si avviliva per le mani» ha scritto un critico, perché effettivamente l'orizzonte morale tassoniano è angusto, scarso di fede, umanamente povero. L'ideologia aristocratica e cortigiana lo limitò chiudendolo nella polemica personale («Io vivo de la corte a lo splendore, | tu ti ricoverasti al campanile | per essere un poltrone» » e «un scannapidocchi» scrive contro un avversario ecclesiastico); e contro i «diversi» dalla nobiltà: perfino gli indiani scoperti da Colombo erano per il modenese «miserabili e vili». Imitarono nella giocoseria il Tassoni il pistoiese Francesco Bracciolini (1566-1645) che rappresentò burlescamente le divinità pagane nello Scherno degli Dei (1618) e diede in altra opera consigli di quietismo:
  1. E lascia, essendo tu cosa mortale,
  2. d'investigar di Dio gli occulti arcani;
  3. alle tue voglie pon legge e il lito radi: è più sicura
  4. nave in placido rio, ch'al, mare in mezzo;
il pittore fiorentino Lorenzo Lippi (1606-65) nel Malmantile racquistato che è soprattutto un serbatoio di lingua fiorentina; il padovano Carlo Dottori3 (1618-86) nell'Asino in cui si narra che i padovani in guerra coi vicentini rubano l'asino, insegna dei nemici, lo impiccano e lo restituiscono in cambio di salsicce.
Uno dei modi espressivi più connaturati al costume estroverso del Seicento è la rappresentazione. Sceneggiare, teatrare, musicare, manifestare ornatamente l'interno dell'animo, furono aspetti caratteristici dell'età spagnolesca. Ma tutto ciò non si è svolto casualmente ed ha avuto in Italia complesse conseguenze sull'assimilazione di quel gusto teatrale, musicale, comico, melodrammatico nella vita collettiva e popolare.
Già dall'età del Rinascimento la cultura popolare era stata sovrastata e ridotta al silenzio dalla letteratura colta, e solamente nel carnevale e in qualche altra festa alle masse era stato consentito manifestare, in modo controllato, il loro mondo concreto. Dal concilio di Trento in poi la Chiesa diventa garante di moralità e di mantenimento dell'ordine costituito, abolisce gli elementi folklorici con tracce precristiane (danze, canti satirici e licenziosi). In questa repressione opera sotto la protezione della legislazione civile, l'ambiente sociale dal quale provengono i dirigenti (nobili e alti prelati) è lo stesso, identica è la funzione politica di dirigenza e organizzazione.
Le manifestazioni pubbliche, religiose, le feste gestite per avvenimenti che interessano i nobili — e le cui spese sono sostenute dal popolo — sottraggono spazio ai temi popolari e la gestione mira a creare la concezione della beneficenza, della liberalità nobiliare (le maschere chiedono gratifica sotto i balconi gentilizi, per liberalità magnatizia i poveri accedono alla conquista dei doni della cuccagna).
Spettacoli sono le prediche nelle chiese addobbate e risuonanti di canti e musiche, le processioni con cortei di nobili ed ecclesiastici, i funerali fastosi con cocchi e cavalli, le esecuzioni capitali. Nell'Italia meridionale i gesuiti impongono il fasto delle processioni per far decadere i rituali preesistenti e per presentare solennemente la Chiesa come mediatrice presso la divinità.
Quando la Chiesa non può eliminare la capacità liberatrice del comico lo gestisce e Pulcinella diventa immagine rassegnata e fatalista delle masse subalterne negli spettacoli per monache e frati. D'altra parte a Napoli il popolo riesce con la inventività e col numero a servirsi di processioni e feste come involucro per dare nuovo vigore ai carnevali castigati e censurati.
Nei vari generi di spettacolo la parola non è il solo elemento, vi sono i gesti, il tono della voce, l'elemento musicale che esprimono il motivo dominante. Il barocco ha fornito ai ceti, dotati di una elementare cultura letteraria con la teatralità in cui si fondono musica, letteratura, scenografia, gli elementi psicologici e culturali di un gusto melodrammatico che con la sua seduzione è il surrogato di una sfera di vita più alta. Questo gusto, che può essere profondamente sentito, ha origine negli spettacoli collettivi in cui oratoria e scenografia (da battesimale a nuziale, funeraria, curiale, giudiziaria, politica. religiosa etc.) sono ufficialmente teatralizzati in linguaggio convenzionale o di effetto.
Si assume attraverso lo spettacolo — e meraviglioso, musica, effetti scenici sono elementi di seduzione psicologica — una maschera psicologica e linguistica che è finzione, e che in Italia ha la sua origine nel Seicento, la sua perpetuazione come fenomeno di massa, nazionale, nel melodramma arcaico e in quello postromantico. In questo motivo barocco-melodrammatico sono state trasferite in Italia, sul piano della retorica di massa, quegli interessi che non sono stati rivolti a creare una unità vivente, nazionale, di popolo e intellettuali con obiettivi storici e concreti. Il teatro del Seicento (tragedia, commedia dell'arte, favola pastorale, melodramma) è un grande serbatoio di tale gusto.
La tragedia adopera gli orrori e la pietà per giungere controriformisticamente alla purificazione, ma attraverso conflitti di coscienza resi acuti da complicazioni e casistiche, dal rapporto con i poteri assoluti e su uno sfondo che enfatizza cupamente la condizione umana tra sciagure e morte.
Federico Della Valle2 (c. 1560 - 1628) astigiano, che visse alla corte torinese al servizio di Caterina di Savoia come ufficiale amministratore e foraggiatore della cavalleria, e poi degli Spagnoli a Milano, pubblicò nel 1627 le tragedie Judit ed Ester e nel 1628 la Reina di Scozia. Nelle prime due (Giuditta uccide Oloferne e salva gli Ebrei dallo sterminio; Ester, moglie del re assiro Assuero, vanifica gli intrighi di Aman contro il suo popolo) dominano gli accenti biblici nei monologhi delle protagoniste e l'azione, più drammatica nella Judit, si svolge nell'atmosfera della strage minacciata da Oloferne e nel cupo palazzo assiro. Nella Reina di Scozia l'ombra del re di Francia introduce i motivi del peso del potere («regia corona e manto, | gravi a portarsi, ahi quanto!»); dell'imperscrutabilità del consiglio divino e del terrore che sovrasta sugli uomini. Questi motivi sono ripresi spesso nel corso della tragedia
  1. (volve lo stato umano
  2. possente ascosa mano,

  3. [...]
  4. Immutabile, immota,
  5. in luminoso velo
  6. di candida caligine, s'asside
  7. l'alta Mente, onde pende
  8. quando stassi e s'aggira;

  9. [...]
  10. nel vario aspetto
  11. de la natura
  12. torbida e incostante,
  13. nulla è senza sciagura,
  14. nulla è senza difetto;

  15. [...]
  16. è mobil cerchio
  17. la vita che corriamo, ove ci aggira
  18. mano or placida or dura, or alto or basso)
la cui religiosità solenne e austera ha una serrata, inattaccabile forza controriformistica. Maria Stuarda vive in questa fitta atmosfera lirica con la sua delicata umanità ma soprattutto come martire di un destino.
Il fatalismo religioso avvolge la visione esistenziale del Della Valle, priva della morbidezza e sensuosità che era nel Tasso. Le sue tragedie vivono per la sceneggiatura lirica più che per la drammaticità e gli urti dei sentimenti, la perfezione letteraria è strenua. fino al manierismo, come in questi versi in cui è descritta la decapitazione di Maria Stuarda:
  1. ella è rimasa cadavero tremante, onde si sgorga
  2. per grosse canne il sangue; e s'è veduta
  3. la dolcissima bocca
  4. contrar gli spirti estremi,
  5. riaprirsi e serrarsi, graziosa
  6. anco nei moti de la morte orrenda.
Tragica è l'ispirazione anche dell'Aristodemo di Carlo Dottori3(1618-85), protetto dalla principessa Eleonora di Mantova che, divenuta imperatrice d'Austria, lo chiamò alla corte di Vienna dove egli rimase qualche anno. La sua tragedia non ha la concentrata distillazione verbale e l'alta tonalità lirica del Della Valle, si distende più movimentata e drammatica e nella vicenda di Merope uccisa dal padre per ambizione di potere si riflette il motivo seicentesco della ragione di Stato che passa sopra gli affetti umani e familiari.
Il Dottori, che come scrittore sperimentò vario stile in diversi generi, nella tragedia che si svolge nella Messenia (il Della Valle tentò solo nella Reina di Scozia l'ardimento di trattare un argomento contemporaneo) fa rivivere con pessimismo stoico il conflitto dell'età sua. Il coro esprime lo sgomento per il prevalere dell'«arbitrio incostante di Fortuna» nelle vicende umane
  1. Quaggiù tutto disordina o confonde
  2. il caso cieco, e con occulto inganno
  3. la prudenza delude,
  4. defrauda le speranze,
  5. e con diverso fin dal prevenuto
  6. termina gli atti nostri e l'opre chiude […]
  7. tutto confuso al fin, mobile incerto
  8. più che mar, più che vento
  9. più che libica arena,
  10. e in cento dubbi e cento
  11. pur v'è chi trovi ombra di vero appena
che nella tragedia determina la morte di Merope, del fidanzato Policare, del padre Aristodemo. Il grande personaggio poetico è Merope, persuasa con intima naturalezza di dovere essere dal padre sacrificata per la patria e di servire come strumento per piacere al cielo.
I suoi colloqui con Policare, tenerissimi, fanno risaltare la cecità morale di Aristodemo e la crudeltà di leggi e superstizioni che esistono solo per distruggere i deboli, gli inermi, le donne condannate al sacrificio disumano. Policare cerca di salvare Merope (votata alla morte anche per «virtù» della verginità!) e sparge la voce che la fidanzata sarà madre fra poco. Aristodemo è offeso che gli sia vietata con questo «delitto» l'uccisione della figlia che avrebbe salvato la patria, finge di rassegnarsi e col furore di un leone uccide Merope per l'offesa da lui ricevuta ma dopo essersi bestialmente accertato della mancanza di maternità della figlia sfrutta l'uccisione di Merope da lui compiuta come un sacrificio della vergine approvato dagli dei.
Il conflitto tra ragione di Stato e affetto familiare esiste ma nessuno studioso ha sottolineato il problema della condizione della donna legato al feroce costume di condannarla alla verginità e al martirio in quanto vergine promessa in voto.
Queste tragedie per l'altezza dello stile raramente cadono nella concettosità e nell'approssimativo. I drammi pastorali, invece, esauriscono fiaccamente i modelli dell'Aminta e del Pastor fido e sono privi di ispirazione e calore, ad eccezione della aggraziata Fili di Sciro di Guidubaldo Bonarelli (1563-1608) urbinate, figlio di gentiluomo di corte, vissuto in Francia, a Ferrara presso gli ultimi Estensi (Alfonso II, Cesare, il cardinale Alessandro d'Este) e il dominio della Chiesa.
Il dramma, in cui Celia si innamora in egual misura di due pastori (complicata fu anche la vita amorosa di Bonarelli che si innamorò essendo ecclesiastico della nipote di Camillo Gonzaga, per cui fu costretto a fuggire a Ferrara da dove dovette pure esulare per avere sposato segretamente la figlia di un funzionario ducale), uno dei quali alla fine si scopre che è suo fratello, è raffinatamente patetico e si confonde ormai con il melodramma.
Anche questo genere letterario, chiamato dramma musicale e, poi, opera lirica, è una novità del Seicento ed ha avuto immensa fortuna in Italia e in Europa, proporzionatamente al decadere in esso della parte letteraria che lo componeva. Ebbe origine a Firenze negli ultimi anni del Cinquecento, quando ormai la musica rivestiva il teatro, per opera di un gruppo di poeti e musicisti che si radunavano in casa di Giovanni dei Bardi (la «Camerata fiorentina») e che facendo rinascere il canto a una sola voce — data la impossibilità dialogica della polifonia — crearono la declamazione cantata, capace di esprimere i sentimenti di un personaggio. Collegandosi al dramma pastorale o alla tragedia greca il melodramma nacque dotto con il Rinuccini e diventò romanzo popolare musicato quando gli argomenti furono più vicini agli interessi delle folle e il tono drammatico-recitativo diventò interprete di sentimenti collettivi.
Ottavio Rinuccini4 (1564-1621), dotato del gusto sicuro della tradizione letteraria toscana, scrisse per la Camerata fiorentina testi letterari. Il suo primo melodramma, la Dafne, rappresentato nel 1595, fu musicato da Iacopo Peri, l'Euridice fu scritto per le nozze di Maria dei Medici, l'Arianna (con musiche di Claudio Monteverdi) fu rappresentato a Mantova per le nozze (1608) di Francesco Gonzaga, inedito rimase il Narciso. Dal tema pastorale della prima opera Rinuccini allargò i suoi interessi precisando la specificità lirica dei personaggi ai fini dello spettacolo. Gli affetti venivano disciolti in musica e il libretto del testo nasceva con questo taglio.
Nell'Arianna il prologo è affidato ad Apollo: «sedeva egli sopra una nuvola molto bella che allo sparir della gran cortina che copriva il palco si vide su l'aria, piena di lucidissimo splendore», da essa discende su uno scoglio e «movendo con maestà il passo, si sporse alquanto innanzi e, fermatosi al fine in vista de gli spettatori, cominciò a cantare con voce molto soave». Teseo medita di allontanarsi da Arianna e in lui sono prefigurate già melodie che troveremo più, leziose nel Settecento:
  1. ed io potrò crudele
  2. spiegar le vele ai venti,
  3. senza pensar pur dove
  4. resti da me tradita
  5. tu, cagion di mia gloria e di mia vita?
Arianna ha presentimento che sarà abbandonata:
  1. Ma perch'a l'aer cieco
  2. muto da me s'invola?
  3. perché mi lascia sola?
  4. perché non fa ritorno?
Ma abbandonata da Teseo sarà amata da un dio, Bacco, il quale la farà diventare immortale come costellazione:
  1. lieta vedrai, colmo d'ambrosia il seno,
  2. sotto l'immortal piè correre gli anni.
  3. Ivi, tra' sommi Dei de l'alto coro,
  4. le più lucide stelle
  5. faran del tuo bel crin ghirland'a loro.
In una cronaca del tempo si legge che il lamento di Arianna abbandonata «fu rappresentato con tanto affetto e con sì pietosi modi, che non si trovò ascoltante alcuno che non si intenerisse, né pur una Dama che non versasse qualche lacrimetta al suo bel pianto».
Il genio della musica melodrammatica, il Monteverdi, infuse al genere scenico rappresentato o recitato in dimore principesche o private appassionamento elegiaco ma quando furono aperti i teatri lirici a pagamento (il primo fu aperto a Venezia nel 1637) gli elementi scenografici e spettacolari ebbero la prevalenza per assecondare il gusto popolare poco propenso ad accogliere la preziosa fissità di temi mitologico-pastorali ma disposto ad apprezzare intrighi, travestimenti, motivi faceti o romanzeschi. Scenografia e musica tolsero spazio alla parola e al pensiero anche perché i testi (o libretti) venivano scritti per «far campeggiare col trillo e colle ariette l'esquisitezza dei cantanti» sicché solo più tardi, con la riforma di Apostolo Zeno (1668-1750) ci sarà una rinascita del melodramma.
Frutto della capacità immaginativa nascente dalla vitalità popolare della quale è espressione contrapposta alle regole cinquecentesche è la commedia dell'arte (o a soggetto o improvvisa) recitata da attori professionisti eredi dei grotteschi e comici giullari. I caratteri specifici di questa commedia sono la improvvisazione e le maschere.
Dei soggetti da recitare si scriveva soltanto la sceneggiatura e su questo canovaccio (o scenario) che indicava argomento, personaggi, «robbe» (esempio tratto da Il giuoco della primiera di Basilio Locatello: un abito da Pantaleone, una borsa di denari, una, sporta, un mazzo di carte da giuoco), l'ordine delle singole scene, si intrecciavano dialoghi improvvisando con spunti derivati da gesti dell'interlocutore, da fatti del giorno, da persone presenti tra il pubblico.
L'elemento contemporaneo sostituiva quelli delle commedie classiche quantunque dai repertori letterari alcuni temi (amori contrastati, sostituzioni di persone, agnizioni) passassero nei nuovi repertori i quali, però, non mancavano, quando l'occasione si presentava, di parodiare la solennità e i paludamenti del genere tradizionale.
Il pubblico era soprattutto popolare e interessato alle novità e ai lazzi, serie di battute sottolineate da briosità e da licenziosità, che venivano snocciolati nei momenti comici culminanti. In queste improvvisazioni l'attore acquistava la massima importanza perché egli non doveva tanto interpretare un testo o un personaggio come nella commedia scritta quanto inventare situazioni ed episodi.
Gli attori più valenti crearono, col volgere del tempo, dei personaggi dotati di qualità o difetti derivanti da caratteristiche locali, da modi di vivere, di parlare, dalla capacità di incarnare forme tipiche (ghiottoneria, avarizia, trasformismo fisionomico o morale, vanteria, zoticheria, scimunitaggine, scaltrezza etc.) e si chiamarono maschere. Ogni maschera venne corrisponendo, così, a una tipizzazione del personaggio, alla sua popolarizzazione: Arlecchino, Brighella, Pantalone, Dottore, Giangurgolo, Fagiolino, Pedrolino, Graziano, Rosaura.
Le grandi folle, escluse dalle sale, dai giardini, dai cortili dei palazzi gentilizi dove si rappresentavano tragedie pastorali, melodrammi mitologici, accorrevano nelle piazze intorno a tende e baracche innalzate dai comici che si spostavano da una città all'altra e fuori d'Italia (da Madrid a Parigi, Monaco, Vienna, influenzando il teatro di Lope de Vega, Shakespeare e, soprattutto, Molière).
Il multiforme Pulcinella (creato da Silvio Fiorillo nel 1600), erede del giullare, portavoce popolare, pronto a servire ma a mettere in discussione il potere, mangiatore vorace nelle feste, nei banchetti che coronano le unioni, ridente svelatore di ciò che è comunemente pudendo, rappresenta il confronto con la realtà materiale, la fusione dell'individuo in unico corpo sociale, la coscienza globale della vita. La sua simbiosi con il popolo avviene da personaggio della commedia dell'arte a maschera delle feste popolari o dei carnevali napoletani in cui il riso supera l'interdetto, la sua presenza di medico tra feci e urine indica la diversità della medicina naturale dalla scienza delle classi dominanti, quella di attore nel contrasto tra giovane e anziano (con vittoria del giovane contro padre anziano o contro marito vecchio di donna giovane) l'esigenza di una nuova famiglia e di una nuova società.
Nel distacco del Seicento tra Chiesa e mondo popolare la commedia dell'arte è combattuta dagli ecclesiastici, dai moralisti scandalizzati dalla licenziosità degli attori, dai commediografi eruditi i quali impedirono, così un critico, «alla nuova forma drammatica il suo cammino trionfale».
La commedia dell'arte è un grande fenomeno sociale del Seicento del quale riflette tensioni e motivi polemici. Superficialmente studiata e con gravi pregiudizi estetici, ha un valore storico dirompente in quanto con essa si afferma l'autonomia dell'arte dello spettacolo, la libertà di esame della vita sociale al di là di ogni censura e di ogni dipendenza cortigiana.
Occorre studiare i modi immaginativi con cui i comici si costruirono le loro maschere, in riferimento ai gusti del pubblico e alle profonde esigenze in cui questo si identificava, il significato delle parodie di dialetti e personaggi fatto dalle maschere, il posto che le smorfie degli «zanni» ha nella cultura del tempo. Occorre anche tenere conto che l'improvvisazione era preordinata in modo da non disperdersi bensì da assumere un argomento dalle radici e sminuzzarlo con l'umorismo. I commedianti dovevano di continuo esercitarsi nella dizione, nella danza, nei salti, nella musica, nel personale repertorio, il loro regista («corago») era un esperto della misura e dell'equilibrio come si legge in Andrea Perrucci, legislatore della commedia di professionisti o, è l'equivalente, di «arte». L'egemonia della società aristocratica ed ecclesiastica decretò la fine di questa gloriosa forma di arte popolare italiana che percorse l'Europa e fu privata di spazio e libertà.
La commedia scritta languì nel Seicento per altri motivi, per il suo attaccamento ai vecchi modelli plautini e per la grande fortuna del teatro spagnolo di Tirso de Molina, Calderòn de la Barca e Lope de Vega. Sprofondato, da arciconsolo della Crusca, nel pedantesco lavoro di infilzare parole per il vocabolario italiano, Michelangelo Buonarroti il giovane (1568-1646) nelle commedie La Tancia e La fiera riversò accademicamente torrenti di parole toscane: ma nessuna idea.

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