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Società, intellettuali, controriforma nel Seicento
Si potrebbe pensare che proprio per il Seicento — che eredita le spinte contrastanti del Rinascimento e della controriforma e che, per di più, presenta nel suo corso periodi nettamente distinti — non si possa ritrovare un principio unitario di interpretazione del suo sviluppo.
Tuttavia, se si considera che con esso si apre l'età moderna, nelle caratteristiche di questa sarà anche possibile individuare ciò che costituisce l'aspetto costruttivo di quel secolo e che può divenire un principio atto a interpretarne luci ed ombre nell'intreccio strettissimo tra nuove condizioni di vita e di produzione: sviluppo della tecnica e dei suoi riflessi sociali; nuova impostazione delle scienze e impegno della filosofia a fondarne il metodo; nascita dello stato burocratico; politica di potenza e colonialismo; eclissi delle antiche potenze e sorgere di nuove; letteratura ed arte interpreti, nella crisi dei valori tradizionali, della frattura con il passato e dello spirito di ricerca del secolo.
Alla radice di tale indagine interpretativa vanno poste necessariamente le conquiste realizzate dai secoli precedenti rompendo il chiuso mondo medievale e abbattendo il principio di autorità sia nel campo fisico che in quello spirituale: e cioè le scoperte geografiche, le premesse di una nuova astronomia contenute nell'ipotesi copernicana, la valorizzazione dell'esperienza scaturita dal diverso rapporto che viene ad istituirsi tra l'uomo e la natura.
Le scoperte geografiche, in modo particolare, possono essere prese come punto di partenza per una ricostruzione organica del Seicento. Esse infatti provocano, con lo sviluppo della navigazione, nuovi processi tecnici e il conseguente reperimento delle necessarie materie prime, coinvolgendo nella politica europea i paesi che le producono.
Lo sviluppo della tecnica sollecita a sua volta l'elaborazione di un metodo razionale nella ricerca scientifica che, tanto nel razionalismo cartesiano, quanto nell'empirismo baconiano, realizza l'esigenza di costruire la verità in modo autonomo, nonché di fare del sapere uno strumento di dominio dell'uomo sulla natura e non più il prodotto di una disinteressata contemplazione. Di qui lo stretto rapporto tra la filosofia e la scienza che culmina nell'opera di Galileo con cui, fondandosi istanze sperimentali e razionalistiche nel metodo scientifico, si compie la svolta rivoluzionaria del mondo moderno.
Tale unità di sviluppo — anziché lasciare fuori, in un dualismo privo di giustificazioni, i paesi che in tale gara rimangono indietro e rivelano decadenza in tutti gli aspetti della loro vita — contiene il principio di spiegazione di tale situazione: si tratta infatti dei paesi che, o per tradizionale economia agricolo-feudale (e quindi mancanza di una borghesia intraprendente), o per posizione geografica (e questo vale specialmente per i paesi mediterranei), si trovano privi delle condizioni che, a partire da questo secolo, caratterizzeranno la vita economica e, di conseguenza, la società e la cultura moderne. Sono al tempo stesso i paesi in cui può affermarsi lo spirito di chiusura della controriforma e in cui, d'altra parte, l'arresto della scienza e i caratteri della letteratura e dell'arte testimoniano la condizione interna, come si potrà vedere in particolare per l'Italia.
Né è contraddittorio che in Inghilterra — i cui successivi contrasti religiosi avevano dato origine alle colonie del nord-America, dove con la recinzione dei campi si era iniziato l'uso industriale della terra e la trasformazione del contadino in operaio, dove l'ardita politica di Elisabetta aveva creato una forza marinara e annientato la rivalità spagnola — l'assolutismo riceva il primo colpo dalle nuove forze sociali non più bisognose di tutela ma di libertà di iniziativa e di movimento.
Sicché, prima che il secolo si concluda, appare la direzione in cui esso ha camminato nel segno dell'evoluzione della società: con la seconda rivoluzione e la dichiarazione dei diritti giurata da Guglielmo III e Maria II (da un lato), e con l'opera di Locke sul governo civile (dall'altro), l'Inghilterra apre la via all'età dei lumi e alla riscossa che di lì a cento anni la borghesia francese opererà in nome dei diritti universali dell'uomo e del cittadino.
Nel Seicento l'Italia si avvia al sottosviluppo e alla perifericità politica, la Chiesa è nel momento del trionfo nel quale, però, accentua il distacco dal mondo dei non abbienti che si viene sempre più immiserendo. In Europa con la guerra dei Trent'anni (1618-48) hanno inizio la decadenza spagnola e l'ascesa della potenza francese. La prosperità italiana, che dipendeva dalla capacità di esportare manifatture, è gravemente intaccata dal collasso delle esportazioni dei tessuti serici a Genova, Venezia e altre città, e dal disinvestimento in quel settore. La produzione italiana di manifatture resistenti e pregiate decade per la tradizionalità dei prodotti (più leggeri, moderni sono quelli inglesi e olandesi) e per il prezzo eccessivo (dovuto alla pressione fiscale nei vari Stati italiani e al costo elevato del lavoro).
Fattori concorrenti alla disincentivazione degli investimenti commerciali furono le guerre che devastarono città e intere regioni (Mantova è messa a sacco dai lanzichenecchi nel 1630), e le pestilenze degli anni 1631-32 e del 1657. L'apertura del porto franco di Livorno è un vantaggio per le marinerie inglese e olandese nel Mediterraneo, perché la contrazione della liquidità internazionale elimina dal gioco commerciale l'Italia; la quale da allora in poi ha fissato le sue caratteristiche di territorio tipicamente agricolo e arretrato in mano di reddituari che non espongono i capitali ai rischi della mercatura.
La Chiesa della controriforma si pone come egemone con la duplice funzione di organizzatrice degli intellettuali ecclesiastici (col ruolo di controllo su tutti gli aspetti della vita e della cultura) e di organismo di repressione dei movimenti di pensiero laici ed ecclesiastici accennanti a forme di autonomia, di libertà critica. I gesuiti esercitano soprattutto la prima funzione con l'insegnamento scolastico, con la predicazione, con l'architettura, col teatro pedagogico, con i compromessi culturali e i modi di dominio indiretto nei confronti della letteratura laica umanistica.
La macchina della Chiesa «triumphans» trova nei gesuiti un duttile meccanismo contro la manifestazione della coscienza critica individuale e in favore del conformismo. In quest'età la Chiesa si confonde sempre più con le classi dominanti. Il modo di esercitare l'egemonia indiretta sarebbe stato quello di non schierarsi con i potenti mentre l'allontanamento dalle masse popolari, la condanna di ogni espressione gioiosa popolare pongono già la Chiesa in quella funzione difensiva che sarà catastroficamente intaccata nel Settecento.
Le utopie, del resto, che nascono nel Seicento sono manifestazioni contrarie allo spirito della controriforma, si ricollegano al razionalismo socratico della Repubblica di Platone e riflettono, deformata, la condizione di instabilità e di ribellione latente nelle masse popolari di quell'età. Attraverso il programma politico dell'utopia, l'intellettuale si esprime come individuo organizzatore, proietta umanisticamente nell'ideale dell'ottimo Stato l'impossibilità della pratica politica di trovare un nesso tra intellettuali e popolo, precorre il giacobinismo e la Rivoluzione francese che pose fine alla controriforma.
Intanto nel Seicento la controriforma, come movimento reazionario di cui l'umanesimo formalistico e anazionale era stato una premessa, manifesta la sua efficacia con l'impedire in Italia lo sviluppo delle scienze (processi di Bruno, Galileo). La nascita di forze nuove è da essa isterilita, la Compagnia di Gesù accompagna il trionfo ma si tratta di una grandiosità diplomatica e repressiva che irrigidisce l'organismo ecclesiastico. La funzione del prelato non è quella del religioso democratico ma del politico della religione.
La controriforma non supera la crisi del Rinascimento, ne è il soffocamento autoritario e meccanico che ha come conseguenza la rottura fra Chiesa e democrazia (la Chiesa adopera come sostegno il braccio secolare contro eretici e luterani), la paura della morte e della vecchiaia.
Il conformismo del Seicento consiste nel conservare la scala di valori secondo metri forniti dall'ideologia religiosa e da quella aristocratica di classe. La società colta (una parte della corte, del clero, della magistratura e della ricca borghesia) ama riprodurre nell'arte l'immobilismo degli assolutismi (Chiesa e Monarchia) che la tengono in vita, il passato dal quale le famiglie dirigenti derivano orgoglio e giustificazione di privilegi. Ci sono, perciò, letterati e prelati che difendono i dogmi; ma anche scrittori laici e borghesi parassiti dell'aristocrazia che rispondono alle esigenze di un pubblico circoscritto e omogeneo, privo di contraddizioni. Essi riflettono, all'élite che li fa vivere, la sua immagine.
Nelle numerose accademie letterarie si riuniscono gli scrittori subordinati ai gruppi dominanti e diventati solitamente cortigiani presso le casate signorili a causa della mancanza di una borghesia economicamente trainante. I dislivelli esistenti tra i pochi intellettuali di vertice e la generale depressione culturale sono stabilizzati dalla fissità dei ruoli cortigiani e dalla perpetuazione dell'immobilismo conservatore che l'Italia ha assunto come paese agricolo feudalizzato, provinciale e isolato dalla cultura europea.
Estremamente subordinati, chiusi e rintanati nei rustici vivono i contadini, remoti dalla cultura prevalentemente urbana secentesca, sprofondati in perenni lavori di bonifica. Pietro Sforza Pallavicino (1607-1667) controbatte nel 1644 le false lodi della vita dei contadini indicando realisticamente le loro condizioni di vita soggette agli insulti dei soldati, alle insolenze dei banditi, al capriccio dei potenti, e demitizzando l'assimilazione alla età dell'oro che la letteratura aveva fatto della vita contadinesca. Lo Sforza Pallavicino osserva che l'età dell'oro è per i ricchi i quali possiedono l'oro: per i ricchi «dura quella età che nel campo senz'opera dell'aratro biondeggiava la messe, che i fiumi correvan latte, e che stillava il mele dalle cortecce del bosco». Invece il villano non ha beni, «s'affatica nel fargli nascere, e poi non gli gode. Nel resto quella sorte di vita, molto prossima alle bestie, è piena di stenti, mendica di piaceri, non adornata da scienze, non da virtù, non da onore, non da cordiale amicizia».
Ad onta di punte di italianismo penetrate in altri paesi dell'Europa e di atmosfere di cultura italianizzante all'estero, occorre mettere in rilievo che il provincialismo culturale dell'Italia ha inizio nel Seicento come fatto caratterizzante della nostra storia e conseguente all'organizzazione della controriforma. Il provincialismo è cristallizzazione dell'umanesimo tradizionale, compiacimento cieco dei propri limiti, chiusura nei confronti del mondo moderno. Esso è sostenuto da forze sociali retrive e alimenta motivi retorici di orgoglio nazionale.
Non tutte le accademie ebbero nel Seicento quel fondo paesano e non popolare che aduggiò e immiserì il loro respiro ma, oltre le accademie scientifiche —che sono sulla linea del naturalismo —, vi fu l'Accademia della Crusca fiorentina e quella degli Investiganti (1663) di Napoli fondata da due medici fisici, Leonardo di Capua e il calabrese antiaristotelico Tommaso Cornelio. Anzi, a Napoli dopo la rivolta guidata da Masaniello nasce la coscienza della cattiva amministrazione e delle strapotenze baronali, della vecchiaia e del formalismo delle strutture culturali. In seno a questa accademia si radunano gli assertori della nuova scienza razionalistica cartesiana, comincia ad allargarsi l'orizzonte culturale; e i vari intellettuali (Cornelio, Valletta, D'Andrea, Argento, Doria, Aurisio) hanno cultura multiforme e unitaria con un asse matematico scientifico, dibattono i testi di Bayle e Newton.