Capitolo 9: L'età del Tasso e della Controriforma
Paragrafo 2: Le prime liriche del Tasso
In casa mia mi sa meglio una rapa […] / che all'altrui mensa tordo», «
Questo mi basta», «
Meglio fòra starmi in riposo o affaticarmi manco», «
Né so a sparvier, né a can metter guinzaglio») è nel Tasso; il quale, lontano dagli eletti, si sente un angelo decaduto e non ha affetti reali da far crescere e coltivare, né città e famiglia sue ma soltanto, nei momenti di esilio dalla grande corte, le corti di cardinali, principi, personaggi illustri e famosi.
decoro naturale» che solo gli altolocati possedevano come virtù morale. La predilezione cortigiana è nelle più capillari radici della sua personalità, è ideologia etico-estetica individualistica. Questo eliso fu per lui la corte di Ferrara, solenne, rituale, cavalleresca, inconsapevole del disfacimento in cui precipitava.
Incapace a oltrepassare questo vacuo mondo che muore tra bagliori di feste, luminarie, rappresentazioni di egloghe, favole pastorali, tornei, il Tasso sente più vivo che mai, nella cornice fastosa della mirabile città-teatro dei nobili, l'ideale eroico suscitato dalla potenza spagnola e francese, dalla magnificenza che si riflette negli abbigliamenti, nelle feste, nella distinzione. L'ideologia eroico-sentimentale suscita nel Tasso, in armonia con la propria natura non pratica ma sognatrice, l'immaginazione di amori straordinari, imprese eccezionali.Hanno assai amore in tener vita cavalleresca, come principal professione […], cercan sempre tutte le strade di parer cavalieri, a che s'aiutano ancora col farsi dipinger tali, che ho osservato in molte indagini di private et mediocri persone aver visto dal ritratto, che se non mi fosse stato detto il nome harei pensato esser l'immagine di un Achille o di Hettore così fregiato d'oro son le dipinte armature del Dosso; sopra le loro insegne pongono i cimieri con l'imprese, et chi ha' avuto punto di carico in guerra, facilmente le farà veder tutte attorniate di trofei […]. Fan gran conto d'esser tenuti nobili, e cercano con grande ambizione d'accrescersi onori e titoli […]; si reputan a vergogna il trafficare et chi attende al guadagno, ancorché fosse fatto col mercatar il grosso, non è tanto gentilomo fra loro […]. I principali hanno famiglie formate di molti offiziali, con staffieri, e paggi vestiti a livrea, si mantengono molti seguaci […]; par che aborischino l'agricoltura […]. Son vani, e boriosi, et vorrebon sempre apparir più di quel che sono […]. Han carissimo di esser adulati, ancorché sia fatto evidentemente; […] fanno più stima della vita cavalleresca et del corteggiare, che degli studi et delle lettere di quello che attendano all'arti meccaniche; rarissimi si troveranno eccellenti nel suo mestiero, e nell'opere manuali sono inettissimi.
duro agone», fragile struttura esposta ai colpi della fortuna: «
contra ho fortuna e 'l mondo e 'l proprio errore». Nel rimpianto dell'impossibile felicità lo stato d'animo del poeta è quello elegiaco, unito al sentimento patetico della natura, alla trepidazione per un incognito che gli suscita sempre la presenza femminile. Bisogna, tuttavia, nel giudicare il Tasso e la sua instabilità, eliminare le punte estreme della sua sensibilità la quale, avendo alle spalle la crisi del Rinascimento, solo gradualmente inclina al morboso e allo sfaldamento.
Il poema è l'esaltazione delle virtù cavalleresche, del desiderio di gloria, delle avventure generose. Negli amori di Rinaldo e Floriana sono quasi le prove del futuro cantore di Rinaldo e Armida nella Liberata, le descrizioni di battaglie e di armi sono animate da leggerezza; in Florindo innamorato, un pastorello compagno di Rinaldo, è il tema dell'amore segreto e non corrisposto, uno dei grandi motivi elegiaci del poeta.
La stilizzazione suprema riesce a fondere la frammentarietà dell'ispirazione letteraria, a dare vita di grazia alle allusioni cortigiane. Al di là di essa, però, il Tasso infonde un sentimento di voluttuosa melanconia in cui riflette il vagheggiamento della mitica età dell'oro e della gente prima che visse «
nel mondo ancora semplice ed infante» quando l'Onore non aveva velato «
la fonte de i diletti, / negando l'onde a l'amorosa sete» né posto «
a i detti il fren», «
a i passi l'arte». Il desiderio d'amore nella favola non è rappresentato in Aminta ma in Dafne che lo sospira in età matura come nostalgia.
furto quel che fu don», esso può esistere soltanto in un'atmosfera di sogno nella sua purezza. La realtà è sempre insidia, corrosione e quando la favola è giunta al lieto fine si dice che non si sa se le pene di Aminta possono essere raddolcite «
pienamente / d'alcun dolce presente». Nel sogno e nel mito, in un altro mondo, esso è serena voluttà da godere «
ché non ha tregua / con gli anni umana vita, e si dilegua».
furto». Egli nella favola idealizzava anche la vita e la cultura cortigiana con il loro artificio di convenzionalità e mondanità. L'opera era una serie di scene immobilmente perfette, stilizzate come si conveniva a un pubblico colto e raffinato, l'elemento drammatico era soverchiato da quello lirico, il più adatto a esprimere un'atmosfera incantata e dolente.
- Tacciono i boschi e i fiumi,
- e 'l mar senza onda giace,
- ne le spelonche i venti han tregua e pace,
- e ne la notte bruna
- alto silenzio fa la bianca luna:
- e noi tegnamo ascose
- le dolcezze amorose:
- Amor non parli o spiri,
- sien muti i baci e muti i miei sospiri;
[...]- Ecco mormorar l'onde
- e tremolar le fronde
- a l'aura mattutina e gli arboscelli,
- e sovra i verdi rami i vaghi augelli
- cantar soavemente
- e rider l'oriente.
1 Torquato Tasso
La vita di TORQUATO TASSO fu dolorosa e raminga, pervasa da un costante senso di inquietudine esistenziale e ossessionata dal fantasma della follia.
Nato a Sorrento, ancora adolescente (1554) seguì in esilio il padre Bernardo — l'autore dell'Amadigi — e fu a Roma, Bergamo e Urbino, dove frequentò la corte di Guidubaldo II della Rovere, trovandovi l'ambiente ideale per una formazione letteraria e cortigiana congeniale al suo temperamento. Dopo un soggiorno a Venezia (a cui forse risale la composizione, presto interrotta, del Gierusalemme), studiò all'Università di Padova, interessandosi ai dibattiti su questioni di retorica ed estetica.
Partecipe delle esperienze culturali del Rinascimento e della Controriforma, Tasso cercò di armonizzare le esigenze delle due epoche e visse drammaticamente la crisi e le antinomie dei suoi tempi (la propensione all'edonismo, ad esempio, è insidiata in lui dal senso religioso, la vivacità fantastica trova un freno e un limite nell'esigenza di disciplina e di sottomissione a regole precostituite etc.).
Il periodo più sereno e artisticamente più fervido fu quello trascorso, fra il 1565 e il '75, alla corte estense al servizio prima del cardinale Luigi e poi del duca Alfonso II. Apprezzato per la vivacità dell'ingegno, amato dalle donne, perfettamente inserito nell'ambiente aristocratico e cortigiano, compose l'Aminta, la Gerusalemme liberata, molte Rime e iniziò il Galealto re di Norvegia, tragedia condotta a termine più tardi con il mutato titolo di Torrismondo.
Il successo coincise, però, con l'insorgere di una crisi profonda e dalle molteplici componenti, che inizialmente si manifestò sotto forma di insoddisfazione artistica e di inquietudine esistenziale. Timoroso che la Liberata non fosse sufficientemente ligia ai principi religiosi e ai canoni aristotelici, la sottopose a un collegio di revisori formato da L. Scalabrino, S. Gonzaga, F. Nobili, S. Antoniano e S. Speroni e i rilievi che gli furono mossi, uniti alle sue intime scontentezze, lo indussero a rivedere il poema.
Agitato da scrupoli religiosi (per ben due volte volle essere esaminato da inquisitori sull'ortodossia della sua fede), peregrinò a lungo per l'Italia. L'indifferenza con cui fu accolto al ritorno a Ferrara (1579), mentre si festeggiava il matrimonio di Alfonso con Margherita Gonzaga, e le sue escandescenze indussero il duca (che era certo preoccupato per lo scomposto agitarsi del poeta che minacciava di attirare l'attenzione dell'Inquisizione — e, di riflesso, le ambizioni annessionistiche di Roma — su una città che, come Ferrara, aveva tempo prima tollerato il culto calvinista) a rinchiuderlo nel carcere-ospedale di S. Anna.
Qui rimase per sette anni, in uno stato di estrema prostrazione e in preda a crisi psichiche che gli consentivano, comunque, momenti di lucidità mentale impiegati di solito nella composizione di opere (lettere, rime, la maggior parte dei Dialoghi, l'Apologia — con cui prese parte alle polemiche sorte sulla superiorità del Furioso o della Gerusalemme).
Liberato nel 1586, fu ben presto ripreso dall'inquietudine e rinnovò i vagabondaggi (Mantova, Napoli, Firenze, Roma) finché nel 1595 — l'anno della morte — si stabilì a Roma e trascorse gli ultimi giorni nel monastero di S. Onofrio sul Gianicolo.
Apprezzato nell'età del barocco come il poeta «moderno» da contrapporre agli «antichi», Tasso fu esaltato nel romanticismo quale incarnazione della tragica condizione dell'artista incompreso dalla società.
Antonio Piromalli, Storia della letteratura italiana, Cap. 9, Par. 2 , http://www.storiadellaletteratura.it/main.php?cap=9&par=9
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