Capitolo 8: Niccolò Machiavelli
Paragrafo 5: La ragione pessimistica in Francesco Guicciardini


Un elemento comune a Machiavelli e Guicciardini è il realismo politico ma ben diverso è il loro modo di intenderlo. Francesco Guicciardini1 (1483-1540) fiorentino di famiglia nobile e che aveva fondamenta negli uffici pubblici e amministrativi (sua madre Simona Gianfigliazzi apparteneva pur essa a famiglia aristocratica) fu tenuto a battesimo da Ficino, studiò diritto a Firenze, Ferrara, Padova, si laureò a Pisa.
La seria ambizione politica, i natali, il matrimonio (1508) con Maria Salviati (i Salviati «di parentadi, ricchezze, benevolenzia e riputazione avanzavano ogni cittadino privato che funsi in Firenze ed io era volto a queste cose assai» scrive lui stesso) e il favore dei papi medicei gli aprirono la strada della carriera politica, e nel 1511 è ambasciatore unico al re di Spagna Ferdinando il Cattolico.
Al ritorno a Firenze si adattò ai Medici che intanto erano rientrati con l'appoggio di Giulio II; divenne, anzi, amico di Leone X che lo nominò governatore di Modena, poi di Reggio e Parma, quindi commissario dell'esercito pontificio; per opera di Clemente VII fu governatore della Romagna (1523), nel 1526 organizzò la lega di Cognac contro Carlo V e divenne luogotenente generale dell'esercito papale. La vittoria di Carlo V, la cacciata dei Medici da Firenze (1527) lo resero inviso alla Repubblica che gli confiscò i beni e lo dichiarò ribelle. Ma col nuovo ritorno dei Medici (1530) Guicciardini fu vicedelegato pontificio a Bologna, consigliere a Firenze del duca Alessandro; quando questi fu ucciso da Lorenzino cercò di guidare nella politica il giovane Cosimo che, però, lo mise da parte sicché egli si ritirò ad Arcetri.
Negli importanti uffici ricoperti durante questi mutamenti Guicciardini dimostrò abilità e fermezza nel riportare ordine in paesi disfatti dalle guerre, tra popolazioni in preda ai banditi, nel cercare di allontanare dal papato e da Firenze la perdita dell'indipendenza per opera dei francesi; difese, perciò, il governo ducale mediceo che riteneva più adatto di quello repubblicano a preservare Firenze dai pericoli incombenti.
Il realismo politico di Guicciardini è fondato sul municipalismo (esistente prima dei Romani) rispondente alla «consuetudine e inclinazione dell'Italia» e sul «particulare», la difesa, cioè, dell'interesse personale (che per lui era quello del borghese come «individuo», non come ceto: a popolo e a governo popolare Guicciardini fu sempre avverso).
Oltre il municipalismo e il particulare, Guicciardini — intento a preservare l'equilibrio politico per mezzo di una condotta che si legasse agli appigli delle situazioni del momento — non vede società politica: egli rifugge dalle leggi generali, dai modelli antichi e moderni. Machiavelli ci porta nel mondo moderno con la politica come scienza ed elabora problemi nuovi e soluzioni dì rinnovamento, Guicciardini non vede gli Stati assoluti d'Europa che come minacce per la libertà italiana.
La concezione di Machiavelli che in Francia e Spagna la volontà politica delle monarchie assolute avesse superato la disgregazione feudale gli è estranea: anzi, egli non vi crede perché corrisponde a una fede nell'uomo e nella politica che egli non ha. Guicciardini vede il caso particolare, il contingente, ritiene che la realtà si presenta con una variabilità di dati che non si possono iscrivere in leggi generali e che solo la «discrezione» costituisce il realismo politico.
Questo modo di Guicciardini di conoscere la realtà può derivare da cause diverse: dall'esperienza diplomatica intesa a preservare l'Italia dalla dominazione straniera e perciò cautelosa e attenta a conservare gli equilibri esistenti, dal Rinascimento ormai maturo e non più desideroso di slanci creativi, dalla soggezione al dato empirico che comporta la chiusura alla visione scientifica, da scetticismo storico e filosofico che induce a non smarrirsi nelle «vane cogitazioni», dalla giustificazione del fatto compiuto e dall'adattamento alle circostanze, dalle proprie convinzioni personali di conservatore teorizzate come filosofia dell'utile particolare etc.
Per questi motivi, e per l'avere Guicciardini esaltato come uomo savio e prudente colui che bada al proprio «particulare» adattandosi alle circostanze, venne considerato da De Sanctis come rappresentante del moderato italiano e del «calcolo aritmetico»: «l'Italia — scriverà De Sanctis — perì perché i pazzi furono pochissimi, e i più erano savi».
Nei Ricordi politici e civili, più di trecento pensieri scritti e rielaborati fino agli ultimi anni di vita, l'ideale del savio è un ideale di razionalità, forse eccessivamente prudente e legata al contingente ma antitetica al casuale, al non sensato:

Sappiate che chi governa a caso si ritrova alla fine a caso; la diritta è pensare, esaminare, considerare bene ogni cosa etiam minima; […] facendo, le difficultà per sé medesime si sgruppano; […] bestiale è quello che non conoscendo e periculi, vi entra dentro inconsideratamente.

Gli uomini sono inclinati naturalmente al bene ma fanno il male per viltà; essi sono fallaci, insidiosi sicché occorre «credere poco, fidarsi poco». Il pessimismo di Guicciardini è profondo come il suo immanentismo laico e areligioso; i vizi dei religiosi sono grandissimi e così contrari «che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano» ma Guicciardini si è trovato, per il suo «particulare», a desiderare la grandezza dei pontefici che ha praticati; mentre avrebbe desiderato che essi fossero ridotti «a' termini debiti, cioè a restare o senza vizi o senza autorità».
Nell'ordine fisico, nella natura, la conservazione della vita è così importante che «questa macchina mondana» distoglie gli uomini dal pensare alla morte («alla quale se pensassimo sarebbe pieno il mondo di ignavia e di terrore»); nell'ordine della civiltà umana tutte le cose cambiano (modi di parlare, costumi, architettura, cultura: «con la lunghezza del tempo si spengono le città e si perdono le memorie delle cose») per ritornare «sotto diversi nomi e colori», ma il reale non ha mutamento («el mondo fu sempre di una medesima sorte e tutto quello che è e sarà è stato in altro tempo» e solo il saggio ne vede le variazioni di forme); gli uomini dotati di «virtù», pochi in ogni età, sono quelli che assumono sulle loro spalle il peso del governo; tutti gli uomini desiderano «utile e onore» ma — e qui Guicciardini inscrive una nota personale — «non v'ho poi mai trovato dentro quella satisfazione che io mi ero immaginato: ragione chi bene la considerassi, potentissima a tagliare assai delle vane cupidità degli uomini».
Nelle Considerazioni sui «Discorsi» del Machiavelli (1529-30) Guicciardini, alla luce di questo suo pessimismo, critica l'esemplarità degli antichi addotta dall'amico e contrappone la non repetibilità del reale; la «varietà delle circumstanze» impone di osservare distinzioni, differenze, eccezioni che costituiscono le caratteristiche del reale e non consente di formulare principi universali.
Questi motivi relativistici ricorrono anche nel Diario del viaggio in Spagna (1512), nella Relazione di Spagna (1514), nella Relazione della difesa di Parma (1521), nei due libri, soprattutto, del Reggimento di Firenze (1526) in cui il desiderio di libertà e di uguaglianza è visto come recondita aspirazione al dominio.
Durante la giovinezza Guicciardini scrisse la Storia fiorentina (1509) dal tumulto dei Ciompi (1378) alla battaglia di Ghiaradadda (1509), un'opera attenta alla verità storica e impegnata nella ricerca delle ragioni dei fatti.
I venti libri della Storia d'Italia (1537-40) dal 1492 alla morte di Clemente VII (1534) collegano per la prima volta la nostra storia con quella dell'Europa e non assumono criteri e principi estranei al movimento storico.
Guicciardini scende nei fatti, segni del mutare continuo del reale, per esaminarli nella particolarità e negli intrecci. La complessità e la drammaticità dell'epoca che vede l'asservimento dell'Italia si rispecchiano nello stile solenne ma non esteriore o retorico, anzi funzionale alla realtà narrata cronologicamente, con precisione, con l'ausilio di documenti (relazioni diplomatiche, trattati, cronache, lettere). Lo scrittore registra gli errori dei governanti, gli interessi in lotta, gli egoismi, le violenze che, nel grande quadro del contrasto tra Francia e Spagna per la supremazia in Italia, sembrano concorrere fatalisticamente a determinare la tragedia politica italiana.
Obiettività e delusione personale di fronte al fallimento della lega di Cognac si uniscono amaramente quando Guicciardini parla di sé in terza persona in questa prima grande storia genetica dei fatti. Ma anche in quest'opera in cui trionfano la Fortuna, la precarietà umana, la tragedia d'Italia, dominano gli aspetti più importanti di Guicciardini: l'esperienza del reale e la funzione della ragione.



1 Francesco Guicciardini
Una tappa fondamentale nella storia della critica su FRANCESCO GUICCIARDINI è costituita dalla pubblicazione (1857-67) dei dieci volumi delle Opere inedite che, facendo conoscere la massima parte dei suoi scritti, diedero nuovo impulso agli studi guicciardiniani, fino ad allora incentrati quasi esclusivamente sull'analisi della Storia d'Italia.
Sulla base di tali documenti fu possibile una più sicura caratterizzazione della concezione storico-politica di Guicciardini, del suo realismo disincantato e rassegnato (ma anche sofferto) e della sua opposizione a Machiavelli che si manifesta, tra l'altro, nel rifiuto di qualsiasi principio universale come criterio interpretativo della realtà («è grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente, e, per dire così, per regola») e nella negazione della utilità dell'insegnamento dei classici («Quanto si ingannano coloro che a ogni parola allegano e Romani!»).
La concezione del «particulare», lo scetticismo che percorre gli scritti guicciardiniani (insieme, però, con la volontà razionale di analizzare minuziosamente i fatti e di veder chiaro) testimoniano il declino dell'affermazione rinascimentale della capacità dell'uomo di dominare e plasmare il mondo.
Fra gli scritti minori sono da ricordare l'Accusatoria, la Defensoria e la Consolatoria, composte negli anni della forzata inazione nella villa di Finocchieto (1527-30) per difendersi dalle accuse formulate contro il suo operato politico; nel 1945 è stata pubblicata per la prima volta dal Ridolfi un'altra opera storica, le Cose fiorentine, rimasta incompiuta.