Capitolo 4: La letteratura tra la società dei comuni e le signorie
Paragrafo 6: Il «Decameron»


La borghesia mercantile non era riuscita a creare una realtà politica unitaria ma è ideologicamente la protagonista del Decameron. Lo è come ceto economico e non politico perché quando Boccaccio scriveva il suo capolavoro essa si avviava verso la decadenza. Sono ormai lontani i tempi in cui Bindo Bonichi scriveva «Tutti sem d'una massa — e l'uno all'altro eguale, — parlando generale», per esaltare l'affermazione sociale dell'uomo attraverso le capacità personali. Tuttavia i valori dell'attività mercantile sono pienamente assorbiti dal Boccaccio come realtà e necessità della vita.
La logica del mondo borghese, l'utile, diventa un elemento della struttura narrativa della maturità; il lirismo autobiografico giovanile è scomparso e Boccaccio rappresenta artisticamente in modo oggettivo il suo mondo perché ha preso coscienza di alcune costanti della realtà. Le leggi del guadagno sono inesorabili, passano su tutto; non solo ad esse soggiacciono i sentimenti ma anche ai miti feroci che devono salvaguardare «il danno o sconcio» del mercante: si pensi ai fratelli di Lisabetta i quali sopprimono Lorenzo perché l'amore della sorella per un «garzone» rompe le regole delle «compagnie», apre la via allo scandalo e alla stabilità degli affari. Il «ciompo» non può mutare condizione senza avere realizzato i profitti corrispondenti allo stato. Il capitale mercantile era l'artefice dell'unificazione della produzione: perciò il danaro nella logica dell'utile è la forza onnipotente. Nella prima metà del Trecento circolano lettere immaginarie, popolari, che esaltano il potere del danaro:

I ciechi vedono grazie a voi, i sordi odono, i malati guariscono, i malfattori diventano agnelli innocenti, se hanno il denaro. Il denaro muta il diritto, corrompe i tribunali, compra le grazie del cielo.

Al di fuori del misticismo Boccaccio riconosce che l'uomo non può andare contro le leggi di natura e lo scrittore si prende gioco di coloro i quali ipocritamente fingono la costanza della virtù: il luogo di osservazione della vita non era stato per Boccaccio il romitorio ma i porti di mare, i fondachi di commercio dove convenivano gruppi di persone esperte della vita di diversi paesi e di diverse circostanze.
Altro principio di esperienza è che ogni amore, pure se elevato, è anche soddisfazione dei sensi: l'antistilnovismo etico-estetico nasce dalla rude pratica mercantile che ha bisogno di ben altre finezze per affermarsi ed altre ideologie porta con sé. Infine il concetto della Fortuna rimescolatrice di tutto e arbitra delle sorti, che lascia libero il campo all'avventura, è un altro elemento ideologico di quella glorificazione dell'agire pratico e dell'intelligenza che nascono dall'ambiente borghese e mercantile: ostacoli di orgoglio e fortuna, infatti, possono essere superati dall'intelligenza e dalle passioni umane.
Le strutture borghesi hanno le loro leggi corporative ma i rapporti umani sono più liberi e cordiali, libero dall'ascesi e dalla trascendenza l'uomo può manifestarsi con vizi e virtù, in una 'inesauribile variabilità di casi della vita che il narratore dispiega e contempla con un certo distacco.
La cornice dell'opera (composta fra il 1348 e il 1353) è quella della peste a Firenze del 1348 durante la quale sette giovani donne e tre giovani uomini si incontrano nella chiesa di S. Maria Novella e decidono, per evitare il contagio, di ritirarsi in una villa di Fiesole. Qui trascorrono delle settimane raccontando a turno delle novelle, una ciascuno, in dieci giorni. Alla fine di ogni giornata la radunanza canta una ballata che talvolta accompagna con il suono di strumenti e con la danza. Nella prima e nona giornata ognuno è libero di narrare ciò che gli è più gradito, nelle altre il re o la regina che presiede propone un tema: esiti a lieto fine oltre la speranza, amanti infelici, motti leggiadri e pronte risposte, azioni liberali, burle di buontemponi e inganni di ciurmatori etc.
Le fonti principali delle novelle sono nei fabliaux francesi, nei racconti orientali, nelle raccolte novellistiche italiane ed europee, nella tradizione orale che segue le vie dei mercanti. Se il mondo della borghesia protesa attivamente verso i guadagni e aperta a modi di comportamento non uggiati da ipocrisia rappresenta le strutture ideologiche del Decameron, l'elemento cortese è vivamente presente nell'opera e ne costituisce l'atmosfera di generosità umana.
L'esperienza di Boccaccio si era venuta svolgendo tra l'aristocrazia della borghesia, dotata di mezzi e liberale, e la società feudale della corte napoletana sicché gli ideali del Boccaccio sembrano essersi accampati in queste due sfere. L'atmosfera di nobiltà morale che da esse promana ha sotto di sé la varietà della commedia umana in cui si esercitano le forze degli individui, la luce dell'intelligenza degli altri ceti e la gagliardia della presenza del popolo.
Il realismo di Boccaccio rappresenta anche vizi e corruzioni ed esercita la satira contro le passioni anguste, l'avarizia, l'ignoranza dei fiorentini che si recavano a studiare a Bologna ritornandone dottori ignoranti, i «rettori» marchigiani che andavano a Firenze con grettezza di vita («di vita tanto strema e tanto misera che altro non pareva ogni lor fatto che una pidocchieria»), frati e preti ipocriti e canzonatori dei semplici.
La satira (che esiste: il Decameron, come qualsiasi altra opera, non può essere letto soltanto dal punto di vista dello stile, del tono medio, del periodo né delle «veneri» dell'arte) è un motivo che il Boccaccio manifesta in relazione al modo di sentire poco vigorosamente religioso del suo tempo, è un sorriso ironico intorno alle apparenze di santità che cadono di fronte alle leggi della natura (nella novella di Alibec e del romito si sottolinea come amore anche «fra' folti boschi e fra le rigide alpi e nelle deserte spelunche faccia le sue forze»). Il giudizio ironico o satirico discende dalla distanza del mondo di finzione e di ipocrisia degli ideali cortesi di liberalità e di magnanimità i quali costituiscono gli elementi più preziosi per definire l'armonia del suo mondo.
Certamente il Boccaccio sapeva che la vita non è soltanto cortesia, nobiltà di animo che si esprime in gesti ricchi di sentimento ma egli storicizzava nella sua predilezione ideale ciò che le capacità degli uomini avevano creato e valorizzava, nel mondano, grandi passioni, amori, sentimenti, ingegno capace di superare le avversità, di apprezzare i meriti altrui. La cortesia è l'operare generoso nel mondo in cui si vive. Gli occhi di Boccaccio non sono rivolti al passato né le radici della sua psicologia sono indebolite da infermità: i personaggi umani vivono nel suo tempo e sono cavalieri, popolani, innamorate fedeli alla memoria dell'amato, uomini che si sacrificano per un sentimento, sovrani generosi come re Pietro, donne virtuose come Zinevra da Genova, pazienti come Griselda, personaggi liberali come Natan, Cisippo, Cisti.
In taluni di questi personaggi la cortesia e la virtù sono cosi elevate da diventare personificazioni ma l'accento troppo ideale deriva dal rivivimento paradigmatico che la società frequentata dal Boccaccio faceva della cortesia feudale, tentativo di trovare connotati spirituali. Questo tentativo era forse anche la coscienza di non avere forza culturale capace di trionfare con la creazione dello Stato unitario, ma questo problema politico né il Boccaccio né i magnati della borghesia vedevano. La rappresentazione che fa il Boccaccio è fuori della visione delle forze politiche, la sua politica è la commedia umana come svolgimento mondano, al di fuori del trascendente, ma in cui non è sentito il problema del rapporto democratico con il popolo minuto.
Il mondo ideale di Boccaccio è una società rigorosamente divisa in classi: la borghesia antifeudale fiorentina è insieme restia ad avvicinare le classi inferiori che premono per ottenere partecipazione politica (si veda Cisti fornaio il quale avverte la distanza che lo separa da messer Geri Spina ma anche dai propri servi, ai quali non fa parte del vino destinato al messere). L'idealizzazione stessa della società cortese, inoltre, porta alla contemplazione della realtà e ad un arretramento politico nel senso di un debole inserimento nel processo storico. In sostanza il giudizio del Boccaccio sul mondo è quello del ceto, della radunanza, del gruppo al quale egli appartiene o crede di appartenere (quando egli è a Napoli «intra nobili giovani meco in età convenienti» osserva che costoro «quantunque nobili d'entrare in casa mia né di me visitare non si vergognavano»).
Il culto dell'intelligenza, in un mondo dominato dalla natura, diventa capacità di adoperare l'astuzia contro gli sciocchi. In queste novelle l'atteggiamento dello scrittore è comico, rivolto al quotidiano e al ridicolo. L'«onesta brigata», i cui sentimenti si identificano col mondo morale della cortesia, sottolinea col riso il proprio distacco dai personaggi di Calandrino, dal gruppo napoletano che minaccia Andreuccio caduto nel chiassuolo, di frate Cipolla, da Guccio Imbratta, da messer Nicola, dal modo in cui è adoperata la logica dell'utile per beffare mariti e semplicioni.
In queste novelle il rapporto uomo-fortuna ha largo campo perché i protagonisti mettono in opera le capacità d'ingegno e di previsione dell'etica borghese la quale, d'altra parte, nella polemica contro i privilegi feudali sostiene l'uguaglianza fra gli uomini: uguaglianza fra i più dotati, forniti di mezzi e di cultura e meno soggetti ai condizionamenti: i fedeli di frate Cipolla continueranno a credere nella penna dell'agnolo Gabriele e la sottoplebe napoletana nella protettrice organizzazione della guapparìa.
Legge universale è, come abbiamo visto, il naturalismo per cui contrastare alle leggi «della natura troppe gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano ma con grandissimo danno del faticante s'adoperano»; molti credono che una giovane monacata «ella non sia più femmina né più senta de' femminili appetiti se non come se di pietra l'avesse fatta divenire il farla monaca» e si meravigliano della licenza di una monaca «come se contra natura un grandissimo e scelerato male fosse stato commesso» mentre essi «la piena licenzia di poter far quel che vogliono non può saziare».
Boccaccio nello scrivere il Decameron non si rivolgeva ai dotti ma a un pubblico vasto, di donne (come egli stesso disse per difendersi dalle accuse di «troppa licenzia usata» fin da quando fu pubblicata una parte dell'opera), «per cacciar la malinconia» loro e con libertà di artista. Le novelle, egli aggiunge, non sono raccontate in chiesa «ma tra' giardini, in luogo di sollazzo, tra persone giovani» e non inclinabili al male; del resto, «niuna corrotta mente intese mai sanamente parola» né le parole non troppo oneste possono guastare un animo sano.
L'ispirazione amorosa non è compiacimento dell'osceno ma interesse per il modo in cui si intrecciano istinti e sentimenti. Anche nella prosa (Boccaccio, fu detto, concepisce come Plauto e scrive come Cicerone) la pompa retorica che presiede all'organizzazione stilistica si modella elegantemente e superiormente nelle scene tragiche o comiche, di beffa o di arguzia, è consonante agli atteggiamenti interiori della brigata novellatrice.