Capitolo 20: L'età del Fascismo
Paragrafo 3: Antonio Gramsci, Piero Gobetti


Mentre per Croce, chiuso nelle categorie dello Spirito, il fascismo era un male morale temporaneo, una malattia alla quale egli opponeva la salute della «religione della libertà» — che era il ritorno al vecchio Stato liberale — senza preoccuparsi di individuare le forze che avrebbero restaurato la democrazia, altri oppositori del fascismo, che non erano collegati alla concezione di una borghesia intellettuale colta, ricercavano dall'interno della situazione che vivevano attivamente i modi di trasformare la società nelle strutture e nelle sovrastrutture.
Il maggiore oppositore del fascismo, che si collegò con i principi di Lenin i quali avevano trionfato nella Rivoluzione sovietica e operò una profonda critica dei revisionismi socialisti e liberali della cultura italiana, fu Antonio Gramsci1 (1891-1937). Egli non diede, come Croce, una risposta arretrata al fascismo ma analizzò le forze positive socialiste esistenti in Italia per trasformare la società. Alla fine dell'Ottocento chi apparteneva al mondo subalterno «conosceva l'agente delle tasse, conosceva il carabiniere, conosceva il pretore e la Corte d'Assise: la sua Italia». Ma il principio del secolo XX
  1. segna per l'Italia un nuovo Rinascimento, il Rinascimento della sua plebe, il Rinascimento dei più umili strati dell'umanità italiana, l'immissione nella vita sociale, nella lotta politica, nella vita del mondo, di milioni di nuovi cittadini operosi, sinceri, fiduciosi della propria energia […] L'Italia è diventata una unità politica perché una parte del suo popolo si è unificato intorno ad un'idea, ad un programma unico. Quest'idea, questo programma unico l'ha dato il socialismo, solo il socialismo […] Il partito liberale ha polverizzato l'Italia. Ha incrudito il distacco tra nord e sud, con la legislazione doganale, ha creato un feudalesimo industriale per il quale l'Italia si è spezzettata in tante zone dagli interessi antagonistici […] Voi volete togliere al popolo italiano, a milioni d'italiani, la luce degli occhi, la luce che illumina per loro il mondo, che ormai è l'unica ragione per cui si sentono uomini, per cui credono la vita degna di essere vissuta.
Queste parole Gramsci scriveva nel 1917, in occasione della caccia ai socialisti che seguì alla sommossa popolare di Torino, causata dalla mancanza di pane ma diretta contro il proseguimento della guerra. Era nato ad Ales, in Sardegna, quarto di sette figli, studiò a Santulussurgiu e a Cagliari e, ottenuta una borsa di studio, si iscrisse alla facoltà di lettere di Torino.
Qui divenne segretario della sezione del Partito Socialista, nel 1919 fu fondatore e segretario di redazione del periodico (poi diventato quotidiano) «L'ordine nuovo» ed ebbe parte del moto per l'occupazione delle fabbriche, nel 1921 a Livorno fu tra i fondatori del Partito comunista d'Italia del quale fu segretario dal 1924. Aveva sposato a Mosca (1922) Julia Schucht quando fu eletto deputato al Parlamento italiano. Nel 1926 nel congresso di Lione ebbe il controllo del Partito prevalendo sull'ala guidata da Amedeo Bordiga, nello stesso anno fu arrestato in seguito alle leggi eccezionali del regime fascista e inviato a Ustica per scontarvi cinque anni di confino, nel 1928 venne processato e condannato a venti anni di carcere da scontare nel carcere di Turi (Bari).
In questo carcere svolse i problemi di politica, cultura, sociologia, antropologia nei Quaderni del carcere (Letteratura e vita nazionale, Materialismo storico, Passato e presente, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Il Risorgimento, Note sul Machiavelli pubblicati parzialmente tra il 1948 e il '51 e integralmente in quattro volumi nel 1975 a cura di Valentino Gerratana) e le Lettere dal carcere (1947) che nel loro insieme costituiscono uno dei più concreti momenti di meditazione del rapporto fra teoria e prassi della cultura italiana di tutta la nostra storia.
Il primo Gramsci osserva da Torino, sede del capitalismo più concentrato e della classe operaia più moderna, l'importanza dell'irrompere delle masse nella vita sociale e politica. Alla luce dell'analisi politica e storica Gramsci studia i modi di unificazione delle masse al livello di classe dirigente dotata di coscienza integrale dei problemi della vita sociale e critica l'esperienza storica del socialismo reinterpretando l'intera storia dello Stato borghese in Italia. Un nuovo rapporto attivo con le masse deve costituire il sistema di governo ed esprimere l'egemonia attraverso la creazione di un apparato di istituti radicati nelle masse stesse.
La rivoluzione socialista poteva avvenire attraverso il consenso: formazione della burocrazia e immissione dei ceti intellettuali nella vita dello Stato moderno costituivano il nuovo profilo storico del dominio statale. Dalle esperienze gramsciane degli anni 1919-20 scaturisce la tematica dei Consigli di fabbrica proposti come forme di transizione al socialismo, come congegni capaci di suscitare un nuovo ceto dirigente operaio rivoluzionario il cui elevamento diveniva, per la prima volta, un reale elevamento delle masse creatrici di valori storici nuovi.
Su questo terreno si sviluppa la critica gramsciana al riformismo socialista che appare coessenziale ai sistemi tradizionali della borghesia; alla realtà dei Consigli di fabbrica, inoltre, Gramsci lotta per collegare il processo di rinnovamento degli istituti tradizionali del movimento operaio (sindacato, partito). Dai Consigli di fabbrica poteva provenire la carica democratica di una rivoluzione dal basso:
  1. Oggi, con l'occupazione operaia, il potere dispotico nella fabbrica è spezzato; il diritto di suffragio per la scelta dei funzionari industriali è passato alla classe operaia […] Noi diciamo che il periodo attuale è rivoluzionario perché la classe operaia tende con tutte le sue forze, con tutta la sua volontà a fondare il suo Stato, […] il processo rivoluzionario è affiorato alla luce, entra nella fase in cui può essere controllato e documentato […] Il partito e il sindacato non devono porsi come tutori o come superstrutture già costituite di questa nuova istituzione […] essi devono porsi come agenti consapevoli della sua liberazione dalle forze di oppressione che si riassumono nello Stato borghese.
Con questo sistema — che ha come base il materialismo storico quale scienza dell'analisi sociale e politica concreta — Gramsci, in situazione diversa, nel periodo di crisi del fascismo (delitto Matteotti, ritiro dei deputati sull'Aventino) cerca di riorganizzare le masse come centri del processo rivoluzionario («comitati operai e contadini» etc.).
Legato intimamente al problema politico è quello degli intellettuali, per scrivere la cui storia Gramsci ripercorreva tutta la storia d'Italia demistificando le concezioni tradizionali dell'intellettuale, della cultura. Con Gramsci per la prima volta il problema del classicismo culturale e letterario veniva collegato con l'egemonia dei ceti colti aristocratici e borghesi, con il loro distacco dalla realtà politica e ideale di popolo e nazione.
La storia italiana era stata storia di ceti privilegiati, di alti prelati, di curiali ovviamente non meno cosmopoliti dei signori e degli umanisti, intesi a mantenere faticosamente e con compromessi continui gli equilibri esistenti; storia di scaltrezze e di violenze municipali, di piccoli territori.
Già il De Sanctis aveva indicato le scissioni tra essere e apparire, tra «particulare» guicciardiniano e universale etico come sintomi di un male politico e civile trascinatosi per secoli nel buio degli aggiustamenti contingenti. Gramsci scopriva che alle strutture politiche e sociali di classe corrispondeva una cultura di classe, formalistica, aulica.
In Italia non vi erano state rivoluzioni sociali e culturali: all'uscita dal Medioevo il rinnovamento era offerto con l'imitazione del classicismo antico che dagli umanisti puramente letterati poteva essere inteso in senso formalistico; inoltre, mancata la rivoluzione protestante, l'età del barocco e del manierismo è un surrogato a cui segue subito un nuovo periodo di modelli da imitare. Nell'Italia meridionale, poi, le strutture baronali soffocavano qualsiasi spunto nazionale. La funzione di interpretare le esigenze primordiali dei contadini fu assunta dal brigantaggio come momento di lotta di classe, di potenzialità di rinnovamento anche quando il brigantaggio finì con l'essere sanfedismo, antifrancese e reazionario, antiunitario in funzione delle trame filoborboniche. Ma proprio la lotta del brigantaggio contro l'Unità toccava le ragioni profonde dell'opposizione: il compromesso politico fra i moderati e gli agrari meridionali.
La rivolta contadina era anche espressione politica del distacco delle grandi masse proletarie dalle forze dirigenti risorgimentali. Alla ritardata unità nazionale e ai compromessi delle forze discordemente progressive che l'hanno compiuta è da attribuirsi, in gran parte, in Italia, la mancanza di una letteratura nazional-popolare.
Secolari interessi comuni, resi omogenei dalla remota unificazione politica, hanno consentito in altre nazioni che gli scrittori vivessero come propri i sentimenti e gli interessi della maggioranza della popolazione, li elaborassero, e dalla matrice comune disegnassero le trame anche fantastiche delle loro opere. In ogni modo esisteva un substrato popolare che gli scrittori avvertivano come proprio e che interpretavano in termini artistici.
In Italia gli scrittori hanno attinto assai scarsamente dai temi popolari, il loro nutrimento è stato umanistico nel senso di libresco e nel senso di legame con una tradizione di casta: ha scritto Gramsci che «l'intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese e siciliano». L'egemonia direttivo-organizzativa delle classi dominanti ha impedito che si sviluppassero gruppi sociali esprimenti una autonoma attività culturale. Su una struttura culturale conservatrice e reazionaria si agitano i sogni degli artisti e i desideri del popolo.
Nelle corti rinascimentali i letterati, gli scrittori, gli artisti sono stati assorbiti dalle strutture organizzative cortigiane per mezzo del mecenatismo: la loro cultura finì con l'essere aulica per necessità della politica culturale dominante e per mancanza di rinnovamento di vita. L'amore per l'antichità è stato spesso un mezzo strumentale della corte, dell'aristocrazia, della borghesia cortigiana: si offrivano modelli del passato sui quali si poteva esercitare l'abilità estetica al di là dell'impegno moderno e scientifico.
Nell'umanesimo e nel rinascimento italiano ci furono elementi di progresso ma l'età del Rinascimento deve essere guardata nel suo bifrontismo e quindi anche nel suo versante di assimilazione formale del passato, di conservazione, di ritardo. Né in Italia vi furono grandi rivoluzioni culturali e sociali quali la Riforma e la Rivoluzione francese che fecero trionfare, contro l'autoritarismo, elementi sociali o di liberazione umana di vasti gruppi della società. Il nostro Risorgimento ha avuto uno svolgimento contraddittorio e senza l'adesione di quei sentimenti popolari che, in nome dell'uguaglianza, della fratellanza, della libertà, avevano portato avanti in Francia classi diverse ma animate da interessi e idee comuni.
Gramsci durante il fascismo rivede i punti nodali della storia degli intellettuali, ne demistifica la retorica letteraria e politica (umanisti conservatori, intellettuali ecclesiastici e laici anazionali e antipopolari, patrioti retori difensori dell'imperialismo straccione, pedagogisti astratti, laici gesuiteschi, socialisti cavernicoli etc.) e indica con la scienza del leninismo e tenuto conto della specificità della cultura italiana le vie non solo del risanamento ma anche dell'assunzione, da parte dei nuovi dirigenti popolari, della guida della nazione, dell'egemonia.
Gramsci, diversamente da Lenin, non vede la classe operaia come destinataria ma come ispiratrice della teoria marxista. L'autoorganizzazione della classe operaia è la genesi della nuova formazione sociale, della civiltà comunista. Tale genesi non è esplosione anarchica ma riguarda la «transizione» al socialismo in cui gli operai, forniti di una visione complessiva della società, creano l'unità del «blocco storico» del quale hanno, anche culturalmente, la guida.
L'opera culturale di Gramsci, fondata sul concetto di riorganizzazione dell'intero tessuto sociale, della formazione di una coscienza storica unitaria, ha avuto divulgazione nel secondo dopoguerra e l'influenza della sua originalità ha determinato dibattiti, modificazioni e svolte culturali come mai prima era avvenuto.
Un ritratto ideale e morale di Gramsci è stato scritto dal torinese Piero Gobetti2 (1901-26) che ne delineò la «sociologia ascetica», il socialismo quale «risposta contro le offese della società alla sua solitudine di sardo emigrato», lo «schietto marxismo» del pensatore, «il primo rivoluzionario che entra a Montecitorio». Gobetti, morto a soli venticinque anni per le conseguenze di un'aggressione subita ad opera dei fascisti, nella breve vita fu maestro dei suoi giovani compagni (così lo ricorda Edmondo Rho) e organizzatore di cultura.
Liberale di tradizione risorgimentale, credette che il liberalismo incorporato nei vecchi esponenti potesse essere rigenerato in una visione moderna che tenesse conto del valore dell'esperienza operaia. Pur muovendo da posizioni di intransigenza morale («Se il popolo è ineducato e non ha il senso della libertà anche Mussolini può essere utile — scriveva nel 1922 — coll'insegnare concretamente […] che cosa sia la tirannide») giunse a scoprire la natura di classe del fascismo e i valori del movimento operaio al quale si venne avvicinando attraverso l'amicizia con Gramsci e Palmiro Togliatti e la collaborazione ad «Ordine nuovo».
Ancora adolescente fondò «Energie nuove» (1918) che ebbe collaboratori Croce, Gentile, Einaudi, Ernesto Codignola, Rodolfo Mondolfo, Guido De Ruggiero, filiazione dell'«Unità» di Salvemini. Nel 1918 conobbe Gramsci la cui esperienza dei Consigli di fabbrica eserciterà sul neoliberalismo di Gobetti che nella nuova rivista «Rivoluzione liberale» (1922-25, soppressa dal fascismo) si allontana dai vecchi liberali e dai vecchi maestri (Gentile, Croce, Salvemini, Einaudi), combatte una larga battaglia contro il fascismo del quale studia il fenomeno squadristico, i legami con piccola borghesia, reduci, arditi etc.
Punta avanzata dell'antifascismo borghese, ha come collaboratori Giovanni Amendola, Carlo Rosselli, Carlo Morandi, Lelio Basso, Guido Dorso, Augusto Monti, Natalino Sapegno, fonda i Gruppi della Rivoluzione liberale; a Prezzolini il quale propone (1922) la fondazione di una congregazione degli Apoti («coloro che non le bevono») che pone sullo stesso piano fascisti e comunisti, liberali e socialisti, Gobetti risponde che egli sa che fare: preferisce «Cattaneo a Gioberti, Marx a Mazzini» e se il fascismo abolisse al libertà di stampa e di voto egli formerebbe non il sodalizio degli Apoti «ma la compagnia della morte».
Nel 1923 Gobetti fonda una casa editrice e nel 1924 la rivista «Il Baretti» (1924-28) con aperture europee, con rigetto del dannunzianesimo, del futurismo, del dilettantismo. Il titolo della rivista nasceva dalla volontà di uno schieramento morale e culturale illuministico secondo una linea politica liberalsocialista.
Titolo illuminista ebbe il milanese «Il Caffè» (1924-25) antifascista, diretto da Riccardo Bauer e che ebbe collaboratori Ferruccio Parri, Tommaso Gallarati Scotti, Lelio Basso. Quest'ultimo indirizzò contro il fascismo anche la rivista genovese «Pietre» (1926-28).