Capitolo 2: Società borghese e cultura nel Duecento
Paragrafo 5: La letteratura didattico-morale e didattico-allegorica


La pianura padana durante il secolo XIII era percorsa da numerosi gruppi di popolazioni che vi si incontravano per traffici commerciali, fiere e mercati, per la costruzione delle cattedrali, degli edifici comunali, per ragioni militari e religiose. Essa costituì il luogo di incontro fra i suoi abitanti, gli oltremontani e gli abitanti dell'Italia centrale e venne acquistando varietà e fervore di cultura, soprattutto riformatrice. Le credenze popolari antiche e più recenti si vennero sedimentando in essa e costituirono i nuclei tradizionali della letteratura didattica e morale che saranno anche le fonti della Commedia di Dante.
Questa letteratura era rivolta al popolo ma da esso stesso si alimentava, era legata alla vita domestica e rurale dei rigidi inverni padani, alle veglie nelle stalle e al piacere di narrare fatti che servissero come modello di vita,. Ma in essa sono evidenti i fermenti morali che derivano dall'eresia patarina, il rigorismo riformatore calato nella realtà. Gerardo Patecchio di Cremona descrive nelle Noie le cose e le persone che gli danno fastidio nella vita, un tema che verrà ripreso in senso burlesco nel Cinquecento: il podestà incapace, il vecchio che presta a usura, il prete che va agghindato, il monaco truffatore, la donna che ha amante peggiore del marito, il mulo che trotta e l'asino che raglia ma «la magior noi' chi me dimena — è l'ora me manca il dinaro».
Nello Spianamento Patecchio moraleggia sulla natura delle donne: ma se «col lion e col drago mieg abitar s'aven | qe con femena dura cui desplas ogno ben», la donna di casa, bella e cortese, è impareggiabile «e tut q'ela sia rustega, s'el'è pur savia e bona, | mat è quel qe per autra una tal n'abandona».
Giacomino da Verona descrive in modo popolaresco le gioie del paradiso e i tormenti dell'inferno: paradiso ricco di acque, fontane, fiori, pietre preziose, frutti, alberi dai rami e dalle foglie d'oro e d'argento, inferno abitato da bisce, ramarri, draghi, demoni cornuti e pelosi che percuotono i condannati: «cun li grandi bastoni | che ge speza li ossi, le spalle e li galoni». L'invenzione più grottesca è quella di Belzebù che fa arrostire ad uno spiedo un dannato: «E pò prende acqua e sal e caluzen e vin | e fel e fort aseo, e tòsego e venin». Lingua dialettale e verso monorimato esprimono animatamente l'immagine di un inferno luogo di cottura fumoso e rovente.
Uguccione da Lodi, influenzato dai moti ereticali, anticipò motivi jacoponici nella descrizione del corpo inerte dell'uomo, separato dall'anima e privo delle eleganze e delle gioie di cui godeva in vita. In altri versi sul funerale del ricco, Uguccione espresse l'ansia dei congiunti del defunto di liberarsi del cadavere:
  1. Tuti me pare d'un talento,
  2. pur de condurlo al monimento.
  3. Ilò lo sconde, e dentro lo serra.
Questi rimatori sono legati alla società lombarda del loro tempo, non sono asceti ma moralisti, osservatori del mondo che avevano sotto gli occhi, mordaci, realistici, lievitati nel loro moralismo da sentimenti patarini.
I componimenti orali più popolari e rivoluzionari, anonimi, per intervento dell'Inquisizione furono intercettati e interdetti. Del resto al tempo di Bonvesin della Riva l'impeto popolare antifeudale e antiecclesiastico era stato assorbito dalla borghesia e gli elementi più rivoluzionari erano controllati dalla chiesa.
Bonvesin è il maggiore intellettuale lombardo del suo tempo per la maturità artistica con cui elabora i contenuti civili e sociali, in trattati, poemetti volgari, contrasti (fra la viola modesta e la rosa superba, la mosca e la formica), leggende religiose, precetti di educazione a un costume sociale. In una grande disputa dei mesi, che si ribellano contro il despota gennaio, il capomesi è accusato di «gravezà li poveri», di essere malfattore per il gelo che versa sul mondo. Al grido di «Moira Zenè malvas in soa maladition» si apprestano all'assalto, ma Gennaio li previene e li sconfigge a colpi di mazza. Quindi enumera le ragioni del suo potere (per natura, per antichità, per nascita), il dovere dei mesi, villani, di lavorare, di contentarsi di ciò che lui assegna, di non essere tenuto a ringraziarli per il loro lavoro perché «no è us de segnor | regratiar li subditi ch'en son tributaor».
La disputa, che ha conclusione con la soggezione dei ribelli, ammonisce a non agire avventatamente e senza avere coscienza dei fini che si vogliono raggiungere, allude all'epilogo dei moti sociali dei paterini lombardi.
Dalla Francia proviene l'uso della letteratura didattica e allegorica. Brunetto Latini1 fiorentino (c. 1220 - c. 1295) è il maggiore intellettuale della democrazia guelfa, maestro di retorica e «cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini e farli scorti in bene parlare e in saper guidare e reggere la nostra repubblica secondo la politica» (Giovanni Villani). Egli compose in francese il Trésor, una enciclopedia del sapere medievale in cui parlò anche dell'istituto del podestà nelle città italiane. Versificazione delle norme etiche della borghesia è il Tesoretto: famiglia, comune, virtù civili antiche e moderne sono i cardini dell'uomo laico alla cui formazione mira il Latini:
  1. E molto m'è rubello
  2. chi dispende in bordello
  3. e va perdendo 'l giorno
  4. in femina d'intorno […]
  5. e chi in ghiottornia
  6. si getta, o in beveria,
  7. è pegio ch'omo morto,
  8. e 'l suo distruge a torto.
In nona rima è l'Intelligenza, un poema allegorico di autore sconosciuto, silloge di motivi della cultura medievale. Lo stile ricercato e il linguaggio eclettico (con modi provenzali e stilnovisti) tendono alla musicalità e al lirismo nel rappresentare l'allegoria di Madonna Intelligenza.
Il poema, stucchevole, sarà imitato nella sua preziosità dal D'Annunzio nell'Isotteo. Un rifacimento del Roman de la Rose (di Jean de Meung, intorno al 1275) è nel Fiore, poema in sonetti scritti da un ser Durante, ricco di elementi satirici, erotici e anticlericali. La donna non è quella dello stilnovo ma della società realistica borghese. Una vecchia dà alla giovane consigli utilitari («Se dài presenti, fà che vaglian poco; | che s'e' ti dona Lucca, dàgli Barga»; «'l cuor che n'ama un sol, non val un fico»; «In pover'uom non metter già tu' amore, | ché non è cosa che pover uom vaglia»; «Ma se ti dona, non sie rifusante; | E fa co' lui infinie druderie») che fanno presentire lo studio dell'uomo in una realtà più aperta e naturale di quella medievale.
I sonetti contro i finti religiosi «che fan la cera lor pensosa e trista | per parer a le genti più pietosi» che procacciano ricchezze per loro e «van la povertà altrui abbellendo» («E' si vanno lodando la povertà, | e le ricchezze pescan co' tramagli») rompono la pratica di ipocrisia in cui si consolidano uomini e istituzioni.



1 Brunetto Latini
BRUNETTO LATINI partecipò alla vita politica della sua città schierandosi dalla parte dei guelfi; nel 1260, in seguito alla vittoria dei ghibellini a Montaperti, fu costretto ad andare in esilio in Francia dove rimase fino al 1266 e dove compose le sue opere principali. Ritornato a Firenze dopo la battaglia di Benevento, gli furono affidati importanti incarichi dal Comune (protonotaro del vicario angioino, cancelliere, mallevadore guelfo nella pace del cardinal Latino, priore nel 1287).
Brunetto, che operò per la diffusione e laicizzazione della cultura, godé di vasta fina presso i contemporanei, come ci testimoniano il Villani e i versi che Dante gli dedica nel canto XV dell'Inferno.
Fra le opere, di carattere prevalentemente erudito e didascalico, ricordiamo il Trésor (in francese), il Tesoretto (in italiano), il Favolello (epistola morale in versi sull'amicizia, dedicata a Rustico di Filippo), la Rettorica (volgarizzazione commentata dei primi 17 capitoli del De inventione di Cicerone, proposti come insegnamento retorico utile agli uomini politici dei Comuni) e la traduzione di alcune orazioni ciceroniane (assunte a modello di eloquenza giuridica).