Capitolo 18: Le contraddizioni sociali e culturali dell'età umbertina
Paragrafo 8: Giosué Carducci


Delusioni e contraddizioni dell'età postrisorgimentale e umbertina si riflettono nell'attività culturale di Giosué Carducci1 (1835-1907): mazzinianesimo, antiparlamentarismo, convinzione che unità nazionale e nazione laica si potessero realizzare intorno alla monarchia post-1870, politica di prestigio della «più gran nazione latina», sfocamento dello spirito democratico, adesione alla politica di Crispi, avversione ai motivi sociali popolari, rinascita della retorica della romanità.
Nato a Val di Castello in Versilia da padre carbonaro trascorse l'infanzia a Castagneto e Bolgheri. Dopo avere studiato a Firenze presso gli Scolopi si laureò a Pisa e nello stesso anno (1856) iniziò con gli «amici pedanti» Giuseppe Chiarini, Giuseppe Torquato Gargani e Ottaviano Targioni Tozzetti la polemica antiromantica per una cultura nazionale. Nel 1860 fu nominato professore di letteratura italiana all'università di Bologna dove insegnò fino al 1904; dal 1878, come avvenne ad altri appartenenti alla sinistra mazziniana, si venne avvicinando alla monarchia inserendosi nella classe dirigente borghese e modificando motivi e forme della sua poesia. Destra moderata e sinistra convertita alla monarchia («La monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe» proclama Crispi ex-garibaldino, ex-repubblicano, ex rivoluzionario) seguono la logica patriottica unitaria, la borghesia che le ingloba segue la logica di classe di non alterare la struttura economica e ritardare lo sviluppo del movimento operaio.
L'ode carducciana Alla regina d'Italia (1878) indica l'inserimento del poeta nella società ufficiale che lo vede celebratore del passato sulla base di un classicismo sempre più conservatore in cui la tensione apparente delle situazioni sentimentali riesce a camuffare «la sublime banalità dei pensieri» e l'«altrettanto sublime ovvietà dei ritmi che li esprimono» (Asor Rosa). Nella vita bolognese di Carducci fu molto importante l'amore per Lina Piva Cristofori che lo avvicinò al gusto delle letterature straniere e moderne. Nel 1890 fu nominato senatore, nel 1906 gli fu assegnato il premio Nobel.
L'educazione giovanile di Carducci è classica ma non formalistica. Il purismo vi è di base come tradizione letteraria concreta, vallo contro il tardoromanticismo, ma i contenuti sono di un illuminismo democratico e laico acceso da elementi liberali, anticlericali. Il classicismo è anche tradizione ideologica repubblicana ma soprattutto, nel sodalizio fiorentino degli «amici pedanti» (1856-59), ideale di rinnovamento culturale: non casualmente le idee di Giordani erano per gli «amici» lezione di libertà e di laicismo.
Il sodalizio fiorentino non aveva quale asse culturale l'hegelismo, come lo ebbe De Sanctis, e la formazione filosofica degli aderenti era limitata ma il laicismo giovanile di Carducci è contro il moderatismo toscano, contro la cultura parruccona leopoldina; più tardi sarà, nella sinistra governativa, in funzione anticlericale (con coloriture massoniche: Carducci fu massone, amico di Adriano Lemmi gran maestro dal 1885 in poi).
Perciò quel classicismo, ben lungi dall'essere pedantesco, agì come retorica stimolatrice di poesia nei versi di Juvenilia (1850-60) e di Levia gravia (1861-71), come animazione del movimento di rivolta aperto a temi satirici, realistici, antiascetici, giacobini.
Passione politica e allargamento della cultura attraverso la lettura di Proudhon, Quinet, Michelet, Hugo precisano la poesia etico-civile di Carducci come pienezza e sanità di vita sorretta dall'ideologia della rivoluzione di Francia. L'Inno a Satana (1863) è un canto illuministico-materialistico alla ragione e al progresso che trionfa sull'oscurantismo e non può essere facilmente demolito per la sua antiesteticità e astrattezza: per Carducci era un simbolo (una «birbonata utile» egli lo disse) democratico contro gli spiritualismi mazziniani e borghesi.
Nei Giambi ed epodi (1867-79), il classicismo compie la massima spinta realistica nei versi che nascono dall'accensione polemica suscitata dalla cronaca e dalla storia, dallo sdegno antipadronale
  1. (Ma i cavalier d'industria
  2. che a la città di Gracco
  3. trasser le pance nitide
  4. e l'inclita viltà
  5. dicon, se il tempo brontola,
  6. finiam d'empire il sacco;
  7. poi venga anche il diluvio;
  8. sarà quel che sarà),
ma anche contro i letterati «sociali» favorevoli al compromesso.
Carducci è animato dall'odio contro il dispotismo, la teocrazia, contro i fatti di Aspromonte, Mentana, Lissa che traspare nelle prose del tempo: «la rivoluzione sarà nazionale, politica, sociale. Sociale, a dispetto di chi non vuole», 1862;

La civiltà borghese dice alla plebe: Bada, io sto quassù su questo monte: tu se' padrona di venirci quando vuoi: io non manderà i miei valletti a respingerti r. bastonate o a sassate […]. Ma la plebe ha poi la catena e la palla del galeotto al piede, onde non si può muovere, 1868;

Oh l'entrata in Roma! II governo d'Italia salì per la via trionfale come fosse la scala santa, ginocchioni, con al fune al collo, facendo delle braccia croce a destra e a sinistra, e gridando mercé — Non posso fare a meno, non posso fare a meno (prefazione a Giambi ed epodi);

Vieni, o spirito creatore delle età nuove; vieni e scendi, ma non su dodici privilegiati, ché il tempo dei privilegi è passato; scendi su il popolo tutto, su i popoli tutti, o spirito di verità, di libertà, di giustizia, 1873.

Invettiva, sarcasmo sono i modi energici e scattanti del militante Carducci e costituiscono la novità realistica della sua poesia, di un'opera disuguale ma unitaria nel calore della verità e nella assorta malinconia del lottatore:
  1. Quand'io salgo da' secoli sul monte
  2. triste in sembianti e solo
  3. levan le strofe intorno a la mia fronte,
  4. siccome falchi, il volo.
Nelle Rime nuove (1861-87) il realismo si coagula nei motivi intimi e autobiografici e in qualche paesaggio storico. La natura della maremma, essenziale nella sua selvatichezza, è intonata alle fantasie virilmente malinconiche del poeta, le figure umane nascono da uno sfondo campestre e borghigiano con tratti essenziali. È questo il mondo di una razza antica che Carducci ama nella sua sostanza umana scabra, fissata nelle consuetudini legate alla terra e agli animali, ai sentimenti che nascono dalle cose, motivo di lirica e di canto nostalgico per il poeta che in Traversando la maremma toscana, Idillio maremmano, Davanti S. Guido segna nettamente due temi sentimentali distinti: il passato felice dell'infanzia primitiva radicata nel suo mondo («il giovenile incanto») fiammeggiante nell'estate e il presente carico di lutti, inganni, delusioni («Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano»).
La rievocazione storica è un altro aspetto del realismo soprattutto quando la falsa poeticità dell'affresco cede agli scorci di vita originariamente pura in borghi, castelli dell'età medievale e alla rappresentazione in Ça ira di momenti epici della Rivoluzione francese. L'amore per Lina (Lidia) introduce nelle Primavere elleniche atmosfere di elisi d'amore ed estenuate essenze estremamente letterarie, parnassiane, nel paesaggio dei miti degli dei e degli eroi: «Ahi, da che tramontò la vostra etade |vola il dolor su le terrene culle!».
Infanzia maremmana, borgo rurale toscano, lotte comunali in un paesaggio che sa di terragno sono i consistenti elementi di forza e di sanità del poeta che combatte la sua battaglia contro i piccoli uomini del presente. Ma questo presente ha dalle Odi barbare (1877-89) in poi un riflusso generale nel passato del mondo classico greco e latino giustificato persino con ragioni di «nobile razza ariana» adoratrice del sole contrapposta alla religione semitico-cristiana. Il rifiuto è da sottolineare non tanto come abnormità storica quanto come indebolimento artistico, generatore di retorica.
Non tutte le «barbare», però, sono su questo piano. «Barbare» erano chiamate queste liriche perché Carducci cercò di rendere il ritmo dei versi latini con gli accenti italiani. L'innovazione, che gli antichi avrebbero chiamata barbara, venne sciogliendo la tradizionale musicalità del verso, diede valore autonomo alle singole espressioni e aprì la strada al verso sciolto.
Per quanto riguarda, poi, l'espressione, la fuga nel passato come evasione crea indugi interiori, lenti vagheggiamenti, coloriture tragiche che sono già nella raffinatezza letteraria decadente:
  1. qual caduta di foglie, gelida,
  2. continua, muta, greve, su l'anima! […]
  3. io voglio io voglio adagiarmi
  4. in un tedio che duri infinito;
  5. Sol nel passato è il bello,
  6. sol ne la morte è il vero;
  7. O lontana a le vile de i duri mortali travagli
  8. isola de le belle, isola de gli eroi,
  9. isola de' poeti!;
la celebrazione crea anche i «Salve dea Roma!», «Salve, o tu buona», delle liriche Nell'annuale della fondazione di Roma e Alla Regina d'Italia.
Le «Barbare» più intime sono l'avviamento alla sottile vita poetica delle più malinconiche liriche di Rime e ritmi (1898) che nel complesso delle odi celebrative (Piemonte, Cadore, Bicocca di San Giacomo, Alla città di Ferrara) cadono nell'astratto e nel decorativo.
Il tema centrale politico carducciano degli ultimi anni è sempre quello unitario che nell'affiatamento con la dirigenza crispina diventa conservatore e antisociale e che in arte diventa ufficialità, divulgazione solenne di opinioni di un gruppo dirigente. Ma la borghesia mutua anche da Carducci le idealità nazionali e la religione delle tradizioni patrie per evitare lo scontro delle classi; quando lo scontro è inevitabile esso è condannato come funesto all'unità nazionale.
Assai importante fu l'opera di Carducci letterato il quale dal classicismo illuministico derivò la finezza della tecnica letteraria e lo studio dei problemi di stile. Con questa capacità preparò edizioni di testi antichi e moderni (da Cino da Pistoia a Poliziano, Tassoni, Salvator Rosa, Alfieri, Monti etc.) con la ricchezza di buon gusto che gli proveniva dal tirocinio umanistico e dalla tradizione letteraria. Percorse come critico tutto il territorio della nostra poesia studiando soprattutto il linguaggio degli scrittori. Le fonti della sua libera metodologia sono diverse, da Quinet a Taine, a Mommsen, allo stesso avversato De Sanctis del quale non possedeva i fondamenti filosofici. Oggi sono riconosciuti i limiti del critico: incapacità di sintesi, tendenza all'eloquenza e alla prosa d'arte, esiguità del contenuto concettuale, difetti da cui deriva la visione frammentata della letteratura. Ma nella scuola bolognese Carducci fu maestro nell'associare filologia e critica storica studiando la nostra letteratura per mezzo di ricerche biografiche, monografiche, edizioni e commenti. Si trovò così al centro di quel movimento di studi che diede i suoi frutti nelle opere di Villari, D'Ancona, Bartoli, Novati, Rajna, D'Ovidio, Renier, Rossi, Del Lungo, Flamini, Mazzoni, Zingarelli, Guasti, Comparetti etc.
Questi studiosi della scuola storica nell'allestire i testi si tennero stretti alle intenzioni degli autori, al significato storico della lingua, agli antecedenti (fonti), alla storia esterna. A tale metodo Carducci si era avviato nel 1858 cominciando a pubblicare i volumi della collezione «Diamante» dell'editore Barbera, e dal 1989 la biblioteca di classici italiani della Sansoni.