Capitolo 15: Il Romanticismo e Alessandro Manzoni
Paragrafo 9: Carlo Porta e Gioacchino Belli: secolo e dialetto come protagonisti


La realtà che Manzoni era costretto a cercare per mezzo di un nuovo genere letterario e di una nuova lingua italiana rispondenti alle necessità di una società moderna, la realtà del popolo esaltata dai romantici veniva accostata con immediatezza dal milanese Carlo Porta1 (1775-1821) attraverso l'uso del dialetto. Era una scelta culturale importante perché nasceva da uno scrittore la cui cultura era illuministica e aderente al vero (Parini e polemiche del «Caffè») ma risaliva anche alla letteratura dialettale di Maggi, Tanzi, Balestrieri e alle bosinade dei cantastorie. Aveva, cioè un legame con la realtà della Lombardia e di Milano che appare tanto più notevole se si considera sociologicamente che la massima parte della popolazione delle regioni d'Italia è allora dialettofona e analfabeta (abbiamo visto che nel 1799 la lingua italiana non era compresa a Napoli dal popolo e sappiamo che al momento dell'unificazione italiana gli italofoni erano appena seicentomila, di cui due terzi toscani) e che Manzoni forse non sbagliava calcolando a venticinque (per ogni centro piccolo o medio, aggiungiamo noi) i primi lettori. Né la lingua italiana possedeva le capacità di una lingua intera possedute dai dialetti delle «piccole patrie» (dialetti molto locali e peculiari allora, meno sciolti nella dialettalità regionale come avvenne dopo l'unità d'Italia): da queste considerazioni ebbe origine l'idea di Manzoni di estendere alla nazione il fiorentino. Allora anche a Milano (soprattutto a Milano dove esisteva dal Seicento una tradizione dialettale scritta) il dialetto era il linguaggio della vita quotidiana e la scelta di Porta (il dialetto della «scoeula del Verzee», un quartiere popolare milanese, ma anche quello dei poeti in meneghino, lascia da parte l'altro piano espressivo, quello in lingua, in una lingua astratta e generica, con forte impronta letteraria e retorica ma soprattutto ibrida (quella di Berchet e dei romantici: popolareggiante con vocaboli aulici e costrutti vetusti) e non ancora riformata e schiarita nella prosa di Manzoni. Senza dubbio aveva ragione Pietro Giordani classicista illuminista e liberale quando si schierava contro i dialetti «tutti sufficienti all'uso domestico: tutti inetti anzi nocivi alla civiltà e all'onor della nazione») perché la lingua nazionale era per lui un mezzo per favorire l'unità politica. Quella di Giordani era una battaglia culturale e politica e il classicista piacentino nell'osservare che il dialetto era insufficiente ad esprimere la complessità della realtà sociale e politica (ed era vero: ma perché le strutture economiche e sociali erano in potere degli altolocati) intendeva lottare contro il municipalismo angusto (e talvolta anche, reazionario) e la visione di una realtà immobile e compiaciuta nello scherzo a cui il dialetto poteva portare. Ma in Giordani non poteva esserci quello che a noi oggi, in condizioni strutturali assai diverse, sembra, nel rapporto lingua-dialetto, fondamentale: utilizzazione di tutto il patrimonio linguistico nazionale con riconoscimento al dialetto di dignità di lingua; lotta contro le connotazioni conservatrici del dialetto e creazione di nuovi nessi tra le parole, corrispondenti alla necessità di innalzare il grado di conoscenza e di coscienza dei parlanti il dialetto. Questa esigenza è, però, del tempo nostro in cui è necessario opporre all'elemento negativo degli strumenti di comunicazione una nuova creatività e un'autonomia linguistica critica di quell'elemento negativo.
La scelta dialettale di Porta — che contro Giordani dialettofobo scrisse Dodes sonitt in cui assai significativamente dice: «Donca senza savè el lenguagg toscan | no ghe pò vess moral né ziviltàa?» — nasce, quindi, dalla continuazione di una tradizione culturale. Porta ne diventa un cardine ed è seguìta anche da Tommaso Grossi il quale nel 1815 compose la Prineide contro l'eccidio del ministro Prina, satira antiaustriaca che l'opinione pubblica aveva attribuita a Porta. Quella tradizione è riconosciuta nel suo valore da Carlo Cattaneo il quale nel 1836 alla poesia dialettale riconosce una funzione di rinnovamento in quanto giova a dare «spinta e direzione» al sentimento, a spronare «il corso del pensiero e il progresso delle generazioni» operando «entro le latebre più intime della società» e confrontando con essa la poesia in lingua aggiunge che questa in «tutta Italia non ha una pagina che assomigli alla parlante evidenza» dell'arte poetica meneghina. Tre anni dopo Cattaneo scriverà che «la satira di Carlo Porta, per altezza d'obietti, intrepidezza d'assalto e vigor d'espressione, non ha riscontro in altra città». Più tardi ancora, nel 1844, il milanese Cattaneo dirà con orgoglio che «questo dialetto, inosservato all'Europa, ma parlato da più d'un milione di popolo, ha due secoli di letteratura» e che «Carlo Porta, poeta d'altissimo ingegno, alla naturalezza del dipinto fiammingo congiunse la forza comica di Molière, il frizzo di Giovenale, l'efficacia contemporanea di Béranger». Nell'ambiente milanese Porta fu per tutta la sua vita. Dopo aver compiuto i primi studi a Monza e nel seminario di Milano li interruppe e per un anno visse a Venezia come impiegato delle finanze. Trasferitosi a Milano con lo stesso ufficio, lo perdette col ritorno dei francesi ma vi rientrò in possesso nel 1804. Due anni più tardi sposò la vedova di un ministro della Cisalpina e trascorse la sua vita tra il lavoro e le conversazioni con gli amici (Grossi, Visconti, Berchet, Torti, Rossari) nella «Cameretta portiana» ritrovo settimanale presso la sua casa. L'ufficio col «bancone» lo mise a contatto con la povera gente durante tutta la vita che si svolse durante la cultura illuministica, le rivoluzioni, la venuta dei francesi, la restaurazione e le prime polemiche dei romantici. Attento alla realtà popolare Porta scrive in dialetto soprattutto perché lo richiedeva il suo mondo poetico, negazione del sublime antico e moderno. Pochi scrittori abbiamo nella nostra letteratura così lontani dai miti della tradizione e così espressivi del loro tempo come il Porta il quale rappresenta la gente povera, gli aristocratici e il clero tronfi dopo il ritorno degli austriaci, i preti e frati ignoranti, le dame orgogliose, gli ambienti milanesi (salotti, taverne, teatri, postriboli, conventi) col realismo attivo che l'illuminismo lombardo ha trasmesso a questo «inarrivabile derisore di tutte le nostre debolezze» (Cattaneo) ma anche indomito resistente intellettuale nell'età della restaurazione. Nel registro antioratorio e antisublime del dialetto la comicità e la satira di Porta (che per il clericale Ignazio Cantù, fratello di Cesare, offendono «la civiltà e la buona creanza») esprimono il mondo morale del poeta estraneo alla falsa dignità e alla discriminazione dei contenuti a cui lo scrittore in lingua è abituato (si pensi a Manzoni il quale in Fermo e Lucia si autocensura a proposito del tema dell'amore:

Ma ponete il caso, che questa storia venisse alla mani, per esempio d'una vergine non più acerba […] ponete il caso che un giovane prete l si ponga a leggere questa storia […] e ditemi un pò che vantaggio gli farebbe una descrizione dì quei sentimenti ch'egli debbe soffocar ben bene nel suo cuore….

I personaggi della vita popolare milanese parlano in prima persona nelle Desgrazzi de Giovannin Bongee (1812) in cui il protagonista, lavorante presso un rigattiere, è vittima delle prepotenze francesi, nel Lament del Marchionn di gamb avert in cui uno sciancato è vittima e zimbello della moglie o nella Ninetta del Verzee, storia di una sedotta innamorata, prostituita dal seduttore. Sono i primi grandi personaggi della vita di ogni giorno nati da una cultura rinnovata, da un romanticismo realistico che solo in questo modo, dialettale, di Porta, ha dimenticato le mediazioni, le finzioni, le autocensure. Un altro personaggio del realismo romantico (opposto a quelli delle «scuole braminiche», del romanticismo spirituale, come scriveva Cattaneo) è Donna Fabria Fabron de Fabrian, l'aristocratica che riprende fiato dopo il ritorno degli austriaci
ma si lamenta dei mendicanti «una faragin de geni» che la berteggiano quando essa, arrivata davanti alla chiesa «con quell sfarz / che si adice a la nostra condizion» (carrozza con stemma nobiliare e domestico e vetturino in alamari) per evitare «on pret sì sporch, sì unt» cade a terra dopo «un sculaccion sì grand» contro la carrozza. Entrata in chiesa la dama, «fatta maggior de mi» ringrazia Gesù di averla fatta nascere nel ceto «distinto della prima nobiltà» e non «plebea, un verme vile, un mostro», perdona «i delinquenti» che l'hanno derisa e dà loro un quattrino a testa per mortificare gli offensori ed essere di esempio alle altre dame «ne contingenti prossimi avvenir». Il dialetto di Porta ha diversi livelli di realismo mimetico, di plurilinguismo, di caratterizzazioni corrispondenti a diversi gradi sociali, diverse cadenze, locuzioni del latino curiale e ecclesiastico, del francese o tedesco degli occupatori, deformazioni caricaturali in funzione di parodia, di espressione ideologica: il massimo esempio di visione realistica del mondo nell'età del romanticismo.
Giuseppe Gioacchino Belli2 (1791-1863) romano visse nella città pontificia e fu funzionario pontificio quale censore di teatro dal 1852. I suoi grandissimi meriti sono la scoperta del popolo primitivo e parlante il dialetto, la rappresentazione reale di una Roma dei papi sulla quale grava l'immutabilità, la negazione di ogni progresso e di ogni speranza anche per il popolo. Nell'arcadia lugubre Belli aveva acquistato una certa sensibilità per la morte, che lo accompagnerà sempre e nei sonetti romaneschi diventerà sentimento tragico energico e virile. L'oratoria comica dell'arcade Tiberino si estingue a mano a mano che Belli compie viaggi in Italia e incontra uomini e scrittori di coscienza civile. Giordani e Porta furono determinati come scrittori a far mutare gli orientamenti culturali del Belli che nel 1828 si distacca dall'Accademia Tiberina e dalla musa bernesca e giocosa per avviarsi verso un mondo di valori intellettuali e umani che nella esperienza di vita vissuta egli aveva visti sempre negati. La cultura illuministica, che tardi lo raggiunse e in un ambiente che la fa apparire utopistica, nondimeno gli fa cadere i miti di una devozione paganeggiante, superstiziosa e interessata (culto dei Santi, delle reliquie, degli ex-voto etc.) e gli fa assumere un atteggiamento di fiducia nella verità:
  1. Le bbocche nostre Iddio le vò ssincere,
  2. e ll'ommini je mettono l'abbiffa?
  3. No: ssempre verità; ssempre er dovere.
Il poeta flagella la corruzione dei governanti, condanna le persecuzioni politiche, gli abusi di governo, l'ozio, la lussuria dei reggitori, disegna la società romana durante un momento di nera reazione, satireggia la cultura arcadica e accademica collegando con unità di sintesi da giudizio universale tutte le scene della infernale vita romana di quel momento. La tragicità nasce dallo stato psicologico di «anima offensa» che non può perdonare nessuno, nemmeno il torpore, l'ignoranza, l'insipienza di certi modi di vedere e di sentire della plebe. Perciò Belli non è mai allegro, nella satira c'è l'indignazione fredda e sfacciata contro gli autori del malgoverno i quali appaiono in una luce esagitata e violenta, in un'atmosfera di imminente apocalisse. A governo e patriziato corrotti corrisponde una plebe in miseria e ridotta alle superstizioni sicché pare non esservi scampo che nel disperato coraggio della rappresentazione di ciò che accade, nella psicologia blasfema che oppone una energica e violenta oscenità di parole e di gesti.
La sua opera è una sorta di immenso giornale parlato satirico e drammatico, un insistente e molteplice bollettino di malanni (mortorii, impiccagioni, ghigliottine, terremoti, inondazioni, finimondi) e il rammarico contro l'ingiustizia circola dovunque nei sonetti, la satira contro il male della disuguaglianza non rispetta alcuna istituzione:
  1. N'avere, vvisti annà a la ghijjottina
  2. da venti a trenta, tra er Popolo e Pponte.
  3. Ce fussi stato un cavajjere, un conte,
  4. un monsiggnore, una perzona fina.
In Belli c'è la concezione della vita come guasto e come miseria, come cumulo di circostanze (in lettere al Tizzani Belli parla di «sguardo sopra i guasti e le miserie del globo», di «circostanze, che muovono l'uomo a loro talento»). Si vedono sfilare nei sonetti innumerevoli personaggi che manifestano la più diversa filosofia della vita, personaggi del popolo che esprimono la loro singola esperienza e traggono da essa una morale ironica e sfiduciata, una accettazione amara e spesso comica della vita stessa perché i singoli fatti si disperdono nel caos universale in cui tutte le eventualità e tutti gli accadimenti trovano il loro assurdo e inspiegabile posto per necessità di cose. Ogni momento ha una spiegazione, una limitazione che diventa principio generale e assume il tono di proverbio efficace e rispondente alla situazione assurda e bislacca. Pur nelle particolari condizioni di vita e di cultura di una Roma che non è la Milano in cui avevano vissuto gli illuministi e dove il romanticismo aveva mosso le acque della nostra tradizione accademica, di una Roma che è «Romaccia», Belli nell'uso del suo linguaggio non ha le incertezze che hanno i poeti in lingua e la sua parola realistica, corposa, violenta, parlata, si assume la responsabilità della scelta univoca. Non affronta come i poeti in lingua diverse direzioni linguistiche, non ha due piani espressivi, come avviene nei poeti in lingua, i quali spesso contaminano la lingua aulica e quella popolaresca, nel vero egli scende decisamente per istinto narrativo e realistico, in lui non vi sono mai cadute oratorie, moralistiche, tribunizie, pur nella polemica per un'arte sincera. Egli partecipa al movimento romantico dal seno di una corte formalista e insincera, dal profondo di un popolo ridotto a «natura» ignorante, crede di essere fuori del romanticismo non avendo potuto misurare la vastità dell'arco romantico né potendo prevedere il rinnovamento che ne sarebbe derivato. Ma del romanticismo Belli, che abbandona la tradizione petrarchesca e arcadica per scegliere consapevolmente la via popolare e realistica, è uno dei più geniali e decisi interpreti. Istintivamente rimane lontano dalle storie dell'animo e del sentimento, dal prosasticismo sermoneggiante di tanti romantici, per narrare la vita del popolo e per esercitare drammaticamente la satira e l'ironia in una lingua che stratificata da generazioni e senza contatti con altre popolazioni balzava vergine e intatta nella sua rude corporeità, veramente un «monumento» epico ed emergente come da un deserto. I sentimenti del popolo romano sono portati alla luce anche nelle loro deformazioni e non c'è mai il tentativo di idealizzazione dei motivi popolari sicché la realtà appare ancora più evidente. A proposito dei miracoli di un frate che viene canonizzato in San Pietro si dice:
  1. Na donna senza gamma de man manca
  2. se maggnò la su' effiggia in ner pancotto,
  3. e in men d'un ette je spuntò la scianca;
  4. ed ecco un miracolo d'el Beato Galantini:
  5. Fra tutti li miracoli ppiù bbelli
  6. che ddiede er volo a uno spido d'uscelli
  7. bbell'e arrostiti ar foro der cammino.
  8. Ecco come un popolano vede la confusione della città:
  9. Preti cocciuti ppiù dde tartaruche:
  10. edittoni da facce un focaraccio:
  11. spropositi ppiù grossi che ffiluche:
  12. li quadrini serrati a catenaccio:
  13. furti, castell'in aria e ffanfaluche:
  14. eccheve a Roma una commedia a bbraccio;
  15. una madre difende il proprio figlio ladruncolo:
  16. Tant'è ttanti, Eccellenza, a sto paese
  17. arrubbeno pe ccento de mi' fijjo,
  18. e ssò strisciati, e jje se fa le spese;
un forestiero è ammonito affinché non creda nella pietà dei confratelli («er fratellume») incappucciati che accompagnano i morti:
  1. Nun v'ha da intenerì la pinitenza
  2. der zacco, de la corda e dde li zoccoli:
  3. quello sò ttutte smorfie d'apparenza.
  4. Li fratelloni nun zò ttanto bbroccoli
  5. da seppellì li morti pe ccuscenza:
  6. ma cce vanno p'er peso de li moccoli;
  7. il Papa è così visto dai sudditi:
  8. Er Papa è ccerto una perzona dotta,
  9. ma 'ggnicuarvorta prubbica una legge,
  10. fa moine la padella: o ttiggne, o scotta.
Alla mediocre amministrazione del potere si riferiscono i sonetti contro le mostre delle reliquie (per misura di satira il Belli ricorda tra le reliquie l'acqua del diluvio, la fionda del re David, il gallo di S. Pietro, il bacio di Giuda, lo scettro del Padreterno etc.). La polemica e la satira assumono un palese colore sociale nel 1834: in un sonetto si dice che «a sto paese / ricchezze e nnobirtà nnun van mmai drento» a proposito di un trafficante che a furia di appalti e di falsificazione da copista era divenuto conte; la filosofia popolana commenta amaramente che i poveri sono quelli che devono sempre obbedire:
  1. Tira adesso le somme come vòi,
  2. sinovi er pancotto, e ttroverai ner fonno
  3. che echi ubbidisce serro sempre noi;
  4. che gli umili sono esclusi da ogni bene:
  5. Er merito, er decoro e la grannezza
  6. sò tutta marcanzia de li siggnori.
  7. A ssu' Eccellenza, a ssu' Maestà, a ssu' Artezza
  8. fumi, patacche, titoli e sprennori;
  9. e a nnoantri artiggiani e sservitori
  10. er bastone, l'imbasto e la capezza.
L'esperienza dell'umiliazione e della povertà fanno approdare alla triste filosofia della storia che il boia è «er bastone / de la vecchiaia de li Stati. Evviva!» e alla constatazione dei «miracoli de li quadrini»:
  1. Chi ha cquadrini è una scima de dottore,
  2. senza manco sapé sacrive né llègge […]
  3. Pò ffa, mmagaraddio, lo sgrassatore,
  4. e 'r Governo sta zzitto e lo protegge…
  5. Nun c'è ssoverchiaria, nun c'è rripicco,
  6. che nun passi coll'arma der zecchino.
  7. Viva la faccia de quann'uno-è-ricco.
Nella polemica egualitaria di Belli la satira tocca anche «l'anime» degli uomini, le anime che sono state suddivise in fini e ordinarie:
  1. Le prime sò ppe li Re, le Reggine,
  2. li Papi, e le perzone nescessarie:
  3. quell'antre poi de qualità contrarie
  4. sò ppe la ggente da contà a dduzzine.
C'è in Belli un sentimento amaro della vita che a lui appare cupa nella sua sostanza:
  1. L'ommini de sto monno sò ll'istesso
  2. che vvaghi de caffè pper mascinino:
  3. c'uno prima, uno doppo, e un antro appresso,
  4. tutti quanti però vvanno a un distino… […]
  5. E mmovennose oggnune, o ppiano, o fforte,
  6. senza capillo mai caleno a ffonno
  7. pe ccascà nne la gola de la morte.
La morte, la fine di una vita che è casualità e contraddizione, si agita sullo sfondo dell'opera del poeta disincantato. Gli uomini finiscono col «fà tterra pe ccesci e ppe ppatate», sono «monnezze che nnascéno a ccaso», la morte viene con la falce a stroncare tutti i progetti:
  1. La morte sta anniscosta in ne l' orloggi; e
  2. ggnissuno pò ddì: ddomani ancora
  3. sentirò batte er mezzogiorno d'oggi.
Ma non si tratta di un sentimento sfiaccolato e decadente. Belli guarda sempre la realtà per quanto impietosa possa essere. Si veda questa morte violenta di un asino:
  1. … io je diede una stangata in testa.
  2. Lui fesce allora come uno stranuto,
  3. stirò le scianche, e tterminò la festa.
Siamo nel realismo e al culmine della parabola artistica di Belli, grande poeta della realtà nei modi di un personale e originale romanticismo che cela nell'impossibilità o nel sorriso pietoso il sentimento di compianto e di partecipazione alle sventure degli esseri infimi e, abbandonati.