Capitolo 15: Il Romanticismo e Alessandro Manzoni
Paragrafo 10: Giuseppe Mazzini e Vincenzo Gioberti


Molto aperto democraticamente fu il romanticismo di Giuseppe Mazzini1 (1805-72) genovese. Esso fu la base dell'azione del patriota e dell'esule. Mazzini ebbe grande influenza su singoli e su gruppi di uomini, notevole fu la sua capacità di penetrazione fra ideologi e politici dei quali cercò di assimilare gli elementi utili alla prospettiva per la quale egli lavorava. L'organizzazione della «Giovane Italia» (1831) oltrepassa le altre forme settarie cospirative e prefigura il moderno partito politico. Il romanticismo mazziniano è una democrazia religiosa laica imperniata sui doveri e sui sacrifici, sulla dedizione all'idea di una repubblica unitaria, punto ineliminabile del progresso che per Mazzini è una legge provvidenziale.
L'azione politica mazziniana ha come primi obiettivi la lotta contro lo straniero e contro i regimi assoluti riportati dalla Restaurazione, l'azione sociale non è classista ma interclassista, mira a coagulare intorno all'idea unitaria strati piccolo borghesi e artigiani.
Alla prospettiva unitaria restavano estranei la lotta di classe e il socialismo e anche nell'ambito della questione operaia prevalente restava l'interclassismo. Anche gli abitanti delle campagne non hanno alcun rilievo particolare nella concezione mazziniana del popolo. La religiosità non gli impedì di vedere nel papato il simbolo della reazione ma lo spinse a rifiutare il materialismo e a considerare la lotta di classe come lotta per il solo benessere materiale. Il misticismo democratico, inoltre, non gli fece oltrepassare la concezione astratta di popolo né quella di un interclassismo come armonia di ideali, di sentimenti: «la parola operaio —egli scrisse — non ha per noi alcuna indicazione di classe nel significato comunemente annesso al vocabolo». Sul piano letterario l'arte è per Mazzini mezzo di diffusione degli ideali umani e politici, messaggio, «sacerdozio d'educazione» civile, strumento di utilità, di pedagogia. Tensioni ideali e morali dell'opera letteraria costituiscono per Mazzini i motivi dominanti sicché la forma è nettamente subordinata a contenuti e tensioni. Lo sdegno di Alfieri, l'infiammato Ortis (di Foscolo Mazzini fu esaltatore e diffusore), Byron che destina ai lettori messaggi di ribellione si pongono per Mazzini per la loro religiosità laica ai vertici dell'arte. I temi critici di Mazzini furono, infatti, Dell'amor patrio di Dante, Della fatalità consideratici come elemento drammatico, Byron e Goethe, Saggio sopra alcune tendenze della letteratura europea nel secolo XIX, Del dramma storico etc., svolti spesso in forma enfatica e nebulosa. Grandissima fu l'influenza esercitata dai Doveri dell'uomo (1860).
Ma personalità e idee di Mazzini toccarono Mameli, Ruffini. Guerrazzi, Bini, Nievo, Carducci, il tema del dovere toccò anche i combattenti del medio ceto della prima guerra mondiale. Nell'Ottocento il prestigio del mazzinianesimo fu toccato dalla repressione degli ultimi moti rivoluzionari di Romagna che favorì successivamente lo svilupparsi di una corrente di opposizione moderata che ha in Gioberti il maggiore rappresentante.
La netta distinzione tra manzoniani e foscoliani in relazione all'ideologia e alla profondità e totalità del modo di sentire è di Mazzini. De Sanctis distinguerà le due tendenze in scuola liberale (cattolico-liberali, moderati) e scuola democratica (neoghibellini). Cattolico-liberale fu il torinese Vincenzo Gioberti2 (1801-52), vicino ai mazziniani in gioventù, esule a Parigi, deputato del parlamento subalpino, ministro di Casati, quindi primo ministro (1848-49).
I nuclei del pensiero giobertiano sono: tradizione medievale e cattolica, risorgimento come confederazione di sovrani italiani intorno al papa. Il progetto di Gioberti è quello di operare la sintesi tra chiesa e civiltà borghese-liberale recuperando in favore della scienza ciò che questa aveva perduto a causa del progresso scientifico e filosofico. Alla nuova civiltà scientifica dovuta alla «fellonia» di Lutero e alla «pretesa» di Cartesio di «introdurre la ricerca e quindi la libera elezione dei principi» Gioberti oppose la restaurazione dell'unità conciliando civiltà e religione, clero e laicato, aristocrazia e borghesia. Nel sistema giobertiano il momento positivo è quello del cattolicesimo poligonico, multilaterale, onnicomprensivo, mediatore delle parziali scoperte del pensiero profano. Lo Stato deve essere in mano dell'aristocrazia naturale, dei meritevoli, dei migliori, coloro che in maggior misura partecipano dell'Idea. Tale aristocrazia naturale è per Gioberti il clero cattolico, concilio di sapienti che guida la filosofia laica. La vera e sola religione che conserva la rivelazione divina è quella cristiana di cui è depositaria la chiesa cattolica il cui capo ha sede in Italia: perciò l'Italia in virtù di questo rapporto ha il primato della civiltà universale in tutte le attività umane (Il primato morale e civile degli Italiani, 1843). I motivi del primato sono secondo Gioberti: razziale (per la discendenza dal ceppo caucasico-pelasgico), filosofico (per la superiorità italiana fino a Vico), scientifico (per Archimede e Galileo), linguistico (per la derivazione dell'italiano dal latino) oltre che artistico, letterario etc.
Queste affermazioni non sono dimostrate, hanno genesi retorica e finalità teocratica. La posizione culturale di Gioberti è quella controriformistica del trionfo della chiesa e della guida del papa (che abbiamo incontrato in Campanella) ma lo scrittore prospettava anche un lieve ammodernamento della chiesa che consisteva soprattutto nel limitare il potere dei retrivi gesuiti (Il gesuita moderno, 1845). L'egemonia papalina (che fu vista per breve tempo con favore da Pio IX) lascia il posto nella mente di Gioberti a quella del piemontesismo savoiardo nel Rinnovamento d'Italia (1851). Queste posizioni di Gioberti, malcerte e ambigue, hanno i caratteri del moderatismo conservatore che lotta gli aspetti reazionari dei gesuiti dell'Ottocento ma si richiama alla pratica della negazione della cultura moderna. Inoltre le tesi del primato, delle conciliazioni, tesi retoriche e letterarie, sono espresse in una prosa di classicheggiante e pesante magnificenza in cui lo stile è espressione più di tatticismo che di vigore mentale. Le tesi di Gioberti furono fatte proprie dal torinese Cesare Balbo (1789-1853) autore di Le speranze d'Italia (1843) in cui il Piemonte è visto come la forza politica fondamentale d'Italia e si propugna l'espansione in Oriente di un'Austria allontanata dai territori italiani. Ma i motivi nazionalistici del pensiero di Gioberti avranno il loro peso anche nell'attività speculativa e culturale di Giovanni Gentile.



1 Giuseppe Mazzini
Cresciuto in una famiglia in cui erano presenti fermenti giansenistici e democratici, GIUSEPPE MAZZINI si laureò in giurisprudenza nel 1827, ma rivelò ben presto spiccati interessi politici e letterari (suoi articoli apparvero sulle riviste «L'Indicatore genovese» e «L'Indicatore livornese»).
Arrestato per la sua adesione alla Carboneria, andò in esilio in Francia dove fondò la Giovane Italia, associazione e giornale ispirati a ideali rivoluzionari e democratici. Da allora iniziò una instancabile propaganda a favore della soluzione unitaria e repubblicana del moto risorgimentale, né i continui fallimenti dei tentativi insurrezionali valsero a piegare il suo carattere e a distoglierlo dal programma perseguito come una missione.
In seguito all'affermazione delle forze moderate e sabaude e con l'avvento del socialismo marxista fu tagliato fuori dalla politica e morì dimenticato a Pisa.
Fra i suoi molti scritti abbiamo Fede e Avvenire (1835), Dopo Aspromonte (1862), Questione sociale (1871), il ricco epistolario.

2 Vincenzo Gioberti
Ordinato sacerdote nel 1825 e nominato nel '26 cappellano della corte sabauda, VINCENZO GIOBERTI trascorse la giovinezza dedito agli studi. Di salute cagionevole, fece alcuni viaggi e nel 1828, nel circolo fiorentino del Vieusseux, conobbe Leopardi (ne divenne amico e lo accompagnò nel viaggio di ritorno a Recanati).
Accostatosi alle idee mazziniane, nel 1833 chiese l'esonero dall'incarico a corte e poco dopo fu arrestato e costretto all'esilio. Negli anni dell'esilio (1833-48) scrisse le principali opere filosofiche e politiche e acquistò grande fama in seguito alla pubblicazione del Primato.
Tornato a Torino dopo l'elezione a deputato, compì un lungo e trionfale viaggio per l'Italia e alla fine del '48 ebbe l'incarico di formare un nuovo effimero ministero. Dopo Novara fu ambasciatore straordinario a Parigi, ma presto si dimise ritirandosi a vita privata.
Oltre che come autore di scritti politici e filosofici, Gioberti occupa un posto non trascurabile nella storia della critica letteraria dell'Ottocento.